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4. L E FAVOLE MORALI DI F ABIO G LISSENT

4.2 Dichiarazioni di poetica

Dedicando La Ragione sprezzata alla duchessa Eleonora di Mantova Glissenti definisce il proprio testo «questa mia morale operetta». La definizione, per quanto generica, dà adito ad una specifica che, a prescindere dal tono elogiativo della dedica, individua la chiave di lettura principale del testo, valida anche per le altre favole teatrali dell'autore. Eleonora è destinataria ideale dell'operetta perché specchio di una «vita molto spirituale e per Christiana religione molto essemplare»: date queste premesse, la duchessa saprà meglio di altri apprezzare i contenuti dell'opera ed avrà cura di farla rappresentare «a comune utilità di chi brama viver spiritualmente e da huomo da bene, conforme alla moralità Christiana».223

Tale dichiarazione trova un riscontro importante nella nota Alli lettori che Fabio Glissenti antepone al testo della favola. Come si è detto, si tratta di una testimonianza preziosa perché unica all'interno della produzione di un autore che, consapevole della specificità del proprio profilo professionale e delle proprie competenze, non intende fare il poeta e, tanto meno, disquisire in materia. D'altra parte, oltre a fornire dettagli importanti sull'occasione della rappresentazione, il breve testo si presenta come una dichiarazione di poetica che consente di mettere a fuoco alcuni aspetti del progetto culturale perseguito da Glissenti.

La nota si apre nel segno della modestia più radicale: l'opera è manifestamente «difettosa, così nella compositione, o vogliamo dire inventione,

223 GLISSENTI, La Ragione sprezzata, cit., cc. A3v-[A4]r.

come nella stessa arte Poetica». Quest'ultima ricerca «la sonorità de i versi», «vaghe e leggiadre parole», «essempi o similitudini proprie», «traslati probabili e verisimili» e tutti quegli ornamenti che concorrono a «rapire a forza gli animi di chi leggono alla credenza, alla commiseratione, all'allegrezza, et altre così fatte passioni».224 L'autore non dichiara semplicemente la propria imperizia poetica, ma

rivendica un'«inventione» programmaticamente contraria alle regole dell'arte. Il lettore è messo in guardia: egli si imbatterà infatti in numerose licenze poetiche, a partire dalla gestione dell'azione drammatica. Contravvenendo alla regola delle unità, la favola mette in scena l'intero corso della vita umana, dalla fanciullezza alla vecchiaia del suo protagonista, l'Uomo.225 Il codice realista è completamente

sovvertito a vantaggio di un linguaggio allegorico che dà corpo ad una vera e propria psicomachia.

Ribadita la sua estraneità al mestiere dei poeti,226 Glissenti si difende

preventivamente dalle critiche spiegando che la stesura della Ragione sprezzata non è stata altro che un divertissement carnevalesco: «questa favola me la posi a scriver un carnovale, per solo passatempo, come sogliono far tal'hora alcuni, che ritrovandosi a balli, quantunque non habbiano appresa l'arte del ballare, tuttavia o per diporto, o invitati si levano a danzare».227 Consapevole del labor limae

necessario perché un testo raggiunga onorevolmente le stampe, l'autore si era ben guardato dal pubblicarla. In seguito all'inaspettato successo della recita all'Ospedale dei Derelitti, lo stampatore ha però insistito perché l'operetta vedesse la luce e l'autore, valutando che – nonostante le imperfezioni – il testo non

224 Ivi, c. A5r-v.

225 Ivi, c. A5v: «Io in vero confesso, che questa mia rappresentatione ha tutti i sudetti, e molti altri

mancamenti; poiché è fatta contra le regole di chi ha insegnato il modello di così fatte cose, e quanto all'attione rappresentata nella lunghezza della vita dell'huomo, e quanto all'altre circostanze, che vi si richiedono».

226 Ibidem: «[...] io non faccio professione di Poesia (essendo io occupato in altro più tedioso

essercitio) come che mai non habbia studiato tal arte Poetica, o che meno per natura io me le trovi inchinato, poiché in verità confesso non haver mai a' miei giorni composto un tal sonetto, non che saputo render ragione di quello».

227 GLISSENTI, La Ragione sprezzata, cit., c. A6r.

«manca al tutto del suo fine, che è di dilettare e di apportare utilità», ha acconsentito.228

Glissenti individua nel docere delectando il fine primario della sua opera. Molto interessanti sono le considerazioni sul diletto e sull'utilità prodotte dalla Ragione sprezzata in occasione dell'allestimento. Che essa «habbia dilettato et apportato piacere a gli uditori, l'isperienza l'ha dimostrato et il testimonio di quelli che l'hanno udita ne rende indubitata fede»;229 quanto al giovamento, Glissenti

distingue curiosamente tra due tipi di utilità: il guadagno materiale che l'ospedale ha ricavato in termini di denaro dai «pietosi uditori»,230 ed il giovamento morale,

basato sulla forza performativa dell'exemplum:

Ma parlando di quella utilità che deve essere propria di simili favole, che è del purgar gli animi da i vitii et invitarli alla virtù, certamente che utilissima è riuscita: poi che ha spaventato di sì fatta maniera molti, et altri posti in sì fatta consideratione de i fatti loro, che quello, che non hanno fatto molte e frequentate persuasioni di eloquenti Predicatori, et le rigide ammonitioni di Prelati, ha fatto la presente rappresentatione, col porli innanti a gli occhi l'essempio del fine loro; che mossi più dall'essempio che dalle parole, si sono rissoluti a confessarsi, e chiamarsi in colpa di molti eccessi loro, che per più anni se n'erano passati prima senza alcuna consideratione, o rissentimento delle sue colpe.231

Il brano non è interessante solo come testimonianza di una redenzione di massa avvenuta in seguito alla messa in scena di uno spettacolo teatrale (si tratta di un topos ampiamente diffuso nelle relazioni sugli spettacoli gesuitici e non è escluso che gli effetti prodotti dalla performance siano enfatizzati a scopo promozionale). Ciò che interessa di più nelle poche righe di Glissenti è la descrizione della dinamica catartica che, messa in atto dallo spettacolo, costituisce il senso primario dell'intera operazione predisposta dall'autore. «Simili favole», ovvero le favole morali, devono purgare gli animi dal vizio ed invitarli alla virtù. Sembra di

228 Ivi, c. A7r. 229 Ibidem.

230 Ibidem: «che sia stata utile, è cosa chiara, che quell'Hospitale per questa Rappresentatione ne

ha havuto, in più volte più di due mila ducati in dono da i pietosi uditori».

231 GLISSENTI, La Ragione sprezzata, cit., c. A7r-v.

riascoltare le parole del Filosofo alla Recitante nel quarto dialogo dei Discorsi morali, laddove l'arte teatrale era concepita esclusivamente con finalità pedagogico-moralizzatrici.232 Le analogie con le considerazioni sviluppate

dall'autore in quella sede non finiscono qui: lo spettacolo è infatti riuscito laddove avevano fallito le «persuasioni di eloquenti Predicatori» e le «rigide ammonitioni di Prelati», incapaci di muovere la coscienza dell'uditorio.

La rappresentazione, che si chiude con un ambizioso triumphus Mortis, provoca lo spavento di molti e stimola in altri un vero e proprio esame di coscienza (la «consideratione de i fatti loro»). Portando «innanti a gli occhi» del pubblico l'«essempio» del destino che lo attende, lo spettacolo sa essere più efficace delle parole di preti e predicatori. La questione è posta in termini molto simili a quelli utilizzati nel commento dantesco di Giovan Battista Gelli a proposito dell'intenzione dell'autore nella composizione della Commedia e, più specificamente, nella rappresentazione dell'Inferno. Dante, come spiega l'accademico fiorentino, cerca nella prima cantica di «dipingere» davanti agli occhi dei lettori «la forma di uno Inferno reale» affinché, trovandosi faccia a faccia con i vizi e le relative pene, essi possano redimersi. L'impiego del topos dell'evidentia è in questo caso funzionale all'idea – puntualmente ripresa da Glissenti – che gli «esempi» muovano più delle «parole».233 Il confronto con il

commento di Gelli, cui si era fatto riferimento come possibile tramite per l'immagine mirandoliana del theatrum mundi,234 sembra confermare l'importanza

232 Cfr., qui, § 3.2.5.

233 GELLI, Letture sopra la commedia di Dante, cit., p. 586: «si sforza nella prima cantica, con

dipingere innanzi a' loro occhi la forma di uno Inferno reale, fare lor conoscere essi vizii,

descendendo, perchè ei comprendin meglio quali sieno i più o manco gravi, di balzo in balzo a considerargli a uno a uno in fin nel fondo e nel centro di detto Inferno; ponendo sempre di grado in grado, ne' luoghi più bassi e più presso a Lucifero, il quale è nel centro, le colpe maggiori; dove egli nomina molte persone viziose, non per lacerare o per infamar le memorie loro, come hanno detto i suoi calunniatori, ma solamente per giovare, movendo molto più gli

esempli che le parole, a chi si sentissi incolpato di quel vizio, il quale si punisce in quel luogo»

(c.vi nostri).

234 Cfr. qui, § III.3.4.

della Commedia come modello per la meditatio mortis glissentiana.235

Analogamente a quanto dovrebbe accadere – iuxta Gelli – al lettore del poema dantesco, gli spettatori del dramma non sono mossi tanto dal contenuto verbale in sé, quanto dall'exemplum che viene visualizzato di fronte a loro (tale strategia, come si è visto, non si esaurisce nei testi teatrali del medico bresciano, ma trova una concreta applicazione anche nella Athanatophilia). Uomini e donne che hanno vissuto per anni senza curarsi della propria anima, posti di fronte all'evidenza della Morte che non risparmia nessuna categoria umana, corrono a confessarsi e a pentirsi dei propri peccati. Diversamente da quanto accade negli spettacoli teatrali della Recitante, finalizzati a divertire il pubblico distraendolo da più profonde preoccupazioni, le favole morali agiscono sulla coscienza degli spettatori che, fatti improvvisamente consapevoli del proprio errore, cercano di porvi riparo.