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Il trasferimento di embrioni equini congelati è rimasto molto indietro rispetto al mondo della buiatria, sia per problematiche di tipo biologico sia per motivi di origine umana. Alcuni registri di razza non approvano la registrazione di puledri derivanti dal trasferimento di embrioni congelati e scongelati; inoltre la scarsa disponibilità di protocolli per la superovulazione nelle cavalle fornisce poche possibilità per l’attuazione delle metodiche di crioconservazione (Squires et al., 2003).

Il segnalamento della prima gravidanza derivante da embrioni equini congelati è stata segnalata da Griffin e colleghi, che trasferirono quattro embrioni dai 5 ai 9 giorni post ovulazione dopo crioconservazione. Uno dei quattro embrioni attecchì inizialmente, ma la ricevente abortì al 60° giorni di gestazione (Griffin et al., 1981). La nascita del primo puledro da un embrione congelato (6 giorni) è stata riportata dagli autori Giapponesi Yamamoto e colleghi (Yamamoto et al., 1982); essi sottoposero a congelamento embrioni di 6 e 8 giorni, utilizzando glicerolo o DMSO come crioprotettori in una soluzione modificata di PBS; nessun embrione di 8 giorni risultò in una gravidanza.

Takeda e colleghi hanno effettuato uno studio in Colorado nel quale sono stati congelati embrioni di cavallo a 6 e 7 giorni, in ampolle di vetro usando glicerolo come crioprotettore i quattro embrioni di 6 giorni sono stati trasferiti mediante tecnica chirurgica con laparotomia del fianco in 3 riceventi (2 embrioni in una ricevente); due delle tre riceventi partorirono un puledro vivo (Takeda et al., 1984).

Slade e colleghi hanno comparato l’effetto delle diverse temperature di congelamento sullo sviluppo degli embrioni in vitro. La temperatura standard di immersione di – 38°C fu comparata con – 33°C. Furono raccolti 32 embrioni (maggiormente giovani blastocisti e blastocisti) a 6 giorni post ovulazione; il crioprotettore utilizzato fu il glicerolo (10%), aggiunto in due tappe, prima al 5% poi al 10%, con 10 minuti di equilibratura tra ciascun passaggio; successivamente gli embrioni furono inseriti in paillettes di plastica da 0,5 ml o in ampolle di vetro da 1 ml. Per raggiungere le curve di congelamento stabilite fu utilizzato un congelatore programmabile, le curve

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utilizzate furono: 1)raffreddamento di 4°C/min dalla temperatura ambiente a – 6°C; 2) dopo equilibratura di 15 min a – 6°C, 0,3°C/min fino a – 30°C/– 35°C e 0,1°C/min fino a – 33°C/– 38°C; infine gli embrioni furono immersi in azoto liquido. Lo scongelamento avvenne tramite immersione diretta delle paillettes o delle ampolle di vetro in acqua a 37°C; una diluizione a sei tappe fu impiegata per la rimozione del glicerolo, dopo di che gli embrioni sono stati coltivati in Ham’s F10 + 5% FCS. La qualità (grado) degli embrioni dopo scongelamento risultò simile per gli embrioni congelati in paillettes ed immersi in azoto liquido a – 33°C in confronto a quelli congelati in ampolle e immersi a – 38°C; anche se gli embrioni nelle paillette mantennero una qualità migliore. Inoltre, il numero degli embrioni che si sono sviluppati in coltura, fu migliore per il gruppo – 33°C/paillettes (7/8) rispetto al gruppo – 38°C/ampolle di vetro (1/8) (Slade et al., 1985).

In un secondo esperimento, Slade e colleghi recuperarono e conservarono embrioni di 6 giorni in paillettes da 0,5 ml tramite le stesse procedure descritte in precedenza; dopo lo scongelamento e la rimozione dei crioprotettori, gli embrioni furono tenuti per un periodo inferiore ad un ora prima del trasferimento, in PBS con 5% di FCS; 6/23 embrioni furono valutati di grado 4 e furono scartati; i rimanenti 17 embrioni furono trasferiti in riceventi mediante approccio chirurgico dal fianco; nove di questi (53%) determinarono una gravidanza nelle riceventi a 50 giorni. I tassi di gravidanza dopo congelamento sono stati comparati con quelli ottenuti dopo trasferimento di embrioni freschi, risultando inferiori; 53% contro 72%. Inoltre è stato notato che giovani blastocisti con taglia media di 173 µn tollerano meglio la conservazione con freddo rispetto alle blastocisti più grandi (8/10 contro 1/7) (Slade et al., 1985).

In Inghilterra furono effettuati vari studi sulla crioconservazione degli embrioni equini; Boyel e colleghi esposero gli embrioni a concentrazioni crescenti di glicerolo (7,5 e 10%) per 10 minuti di durata per ciascuno ciascun passaggio; gli embrioni furono poi collocati in 0,5 ml di medium di congelamento finale e inseriti in piccoli cilindri di vetro congelatore programmabile; la curva iniziale di raffreddamento era settata a 1°C/min dalla temperatura ambientale fino a – 6°C, 0,3°C/min da – 6°C fino a – 35°C, infine dopo l’equilibratura, i cilindri furono immersi in azoto liquido. Lo

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scongelamento avvenne tramite immersione in acqua a 37°C, successivamente gli embrioni furono reidratati rimuovendo il glicerolo in quattro tappe con concentrazioni inverse dello stesso per 10 minuti ciascuna; nel primo esperimento furono trasferiti 14 embrioni di cui 8 giovani blastocisti, 1 blastociste non espansa, 1 morula e 4 blastocisti espanse; solamente due fattrici risultarono gravide e una di queste perse la gravidanza a 72 giorni di gestazione. In un secondo esperimento furono congelati e trasferiti 2 embrioni e solo uno di questi diede origine ad una gravidanza; in un terzo studio tutti i trasferimenti furono eseguiti tramite laparotomia del fianco e non fu ottenuta nessuna gravidanza (Boyel et al., 1985).

Successivamente, Czlonkowska e colleghi effettuarono uno studio su 14 embrioni recuperati a 6 e 8 giorni dopo l’ovulazione, sottoposti a congelamento lento fino a – 35°C (7 embrioni) o a – 40°C (7 embrioni) per poi essere conservati in azoto liquido; successivamente gli embrioni furono trasferiti per via chirurgica in riceventi osservate con il risultato 4 gravidanze, di cui solamente una giunse al termine (Czlonkowska et al., 1985).

Squires e Seidel hanno affermato che le crioconservazione di embrioni grandi (diametro > 200 µm) è responsabile di basse percentuali di gravidanza, per una probabile riduzione della permeabilità ai crioprotettori durante la rimozione degli stessi in fase di scongelamento (Squires e Seidel, 1995).

Seidel e colleghi valutarono la vitalità di embrioni di cavallo criopreservati con 1,2 propanediolo (uno dei crioprotettori più permeabili) al fine di valutare la criopreservazione di embrioni aventi diametro da 200 a 1000 µm; furono utilizzati quattro embrioni con diametro compreso tra 130-175 µm e tre embrioni con diametro di 1000 µm; gli embrioni vennero posti in PBS + 5% 1,2 propanediolo per 5 minuti e successivamente in PBS + 10% 1,2 propanediolo per 10-20 min a temperatura ambiente, in un periodo di tempo compreso tra una e tre ore dopo la raccolta. Gli embrioni furono caricati in paillettes da 0,5 ml, raffreddati fino a – 6°C con una curva di raffreddamento di 4°C/min in 5 minuti; successivamente prima di procedere oltre sono stati mantenuti a – 6°C per 10 minuti; da questo momento in poi furono usati due protocolli di raffreddamento: 1) da – 6°C a – 33°C con curva di raffreddamento a

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0,3°C/min; 2) da – 6°C a – 33°C con curva di raffreddamento a 0,8°C/min. quando lo paillettes avevano raggiunto i – 33°C, furono immerse in azoto liquido. Lo scongelamento è avvenuto alla stessa maniera per entrambi i trattamenti, ovvero immergendo direttamente le paillette in acqua a 37°C per 20 secondi; il crioprotettore fu rimosso in tre tappe: 6% propanediolo + 10% saccarosio, 10% saccarosio e poi PBS senza saccarosio o propanediolo (ciascun passaggio fu eseguito per un minimo di 6 minuti a temperatura ambiente). Gli embrioni furono poi lavati e coltivati in Ham’s F10 + 10% FCS in 5% CO2 e aria a 38°C per 48 ore; inoltre gli embrioni furono valutati morfologicamente prima del congelamento, dopo la rimozione del crioprotettore e dopo 48 di coltura (Seidel et al., 1989).

I 4 embrioni piccoli (130-175 µm) hanno mostrato una buona morfologia alla fine del periodo di coltura (punteggio da 1,5 a 3,5); al contrario, nessuno degli embrioni con diametro > di 1000 µm è sopravvissuto dopo il periodo crioconservazione (tutti con punteggio 5). Il punteggio dopo trattamento di crioconservazione su 23 embrioni di taglia media (220-945 µm) è risultato oscillante tra 1,5 e 5 (Seidel et al., 1989).

Gli autori hanno riscontrato una significativa regressione lineare tra il diametro embrionale e la morfologia dell’embrione dopo crioconservazione seguita da coltura embrionale per 48 h (Seidel et al., 1989).

Qualche anno più tardi Meira e colleghi compararono le percentuali di gravidanza ottenute da embrioni crioconservati a diversi stadi di sviluppo embrionale; gli embrioni furono recuperati 6-7 giorni post-ovulazione e congelati usando glicerolo o 1,2 propanediolo. Le blastocisti e le blastocisti espanse furono utilizzate nel gruppo 1, le morule e le giovani blastocisti nel gruppo 2 e 3, gli embrioni freschi nel gruppo 4; successivamente gli embrioni furono trasferiti in riceventi al giorno 6-7 del diestro per via non chirurgica. Le percentuali di gravidanza per il gruppo 1 risultarono 0/12; per il gruppo 2 6/15; per il gruppo 3 0/15; per il gruppo 4 12/15. Le perdite embrionali furono 1/6 e 1/12 rispettivamente nei gruppi 2 e 4, avvenute a 60 giorni. Sei/15 embrioni allo stadio di morula e giovane balstocisti conservate con glicerolo diedero origine a gravidanze, una delle quali s’interruppe; al contrario 9/15 embrioni allo stadio di morula o giovane blastociste conservati con 1,2 propanediolo non ripresero lo

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sviluppo dopo trasferimento. Mediante questo studio si è potuto evidenziare che il glicerolo rappresenta un mezzo di crioprotezione migliore, rispetto a 1,2 propanediolo (Meira et al., 1993).

Farinasso e colleghi raccolsero e congelarono 46 embrioni di 6 giorni utilizzando il glicerolo come crioprotettore; successivamente furono scongelati 20 embrioni e trasferiti in 17 riceventi per via non chirurgica, determinando 5 gravidanze a 20 giorni, ma solo 2 a 60 giorni. La maggior parte di questi embrioni presentò un certo grado di collasso del blastocele e una diminuzione della qualità; in questo studio, 2 delle gravidanze furono ottenute da morule e 3 da blastocisti (Farinasso et al., 1989).

In un altro studio, Lagneaux e Palmer trasferirono tramite tecnica non chirurgica 48 embrioni (118-224 µm di diametro) dopo crioconservazione, ottenendo 8 gravidanze; il diametro medio degli embrioni da cui furono ottenute gravidanze, risultava significativamente più piccolo (152 µm) rispetto a quelli che non diedero gravidanze (171 µm) (Lagneaux e Palmer, 1991).

Allen e colleghi esposero 28 embrioni di 6 giorni (7 morule, 13 giovani blastocisti e 8 blastocisti espanse) ad una soluzione di tripsina 1,5 M per 10 minuti per la crioconservazione; di questi embrioni, 4 blastocisti espanse, 4 giovani blastocisti e 1 morula risultarono severamente danneggiata dopo scongelamento e furono escluse dal trasferimento; i 19 embrioni rimanenti vennero trasferiti tramite tecnica chirurgica, in riceventi (5-6 giorni post ovulazione) che diedero origine a 7 gravidanze (4/6 morule, 3/9 blastocisti, 0 blastocisti espanse) (Allen et al., 1992).

Squires e Seidel hanno affermato che piccoli embrioni (allo stadio di morule/ giovani blastocisti) sopravvivono meglio (circa 50%) alla crioconservazione rispetto a embrioni più grandi (blastocisti, blastocisti espanse) (Squires e Seidel, 1995).

Ptaff ha ipotizzato che la sopravvivenza di embrioni più piccoli sottoposti a crioconservazione, comparata a quella di embrioni più grandi, può essere una conseguenza di rapporti diversi tra volume e superficie (Ptaff, 1994); gli embrioni piccoli avrebbero un rapporto più elevato superficie-area/volume e questo porterebbe al raggiungimento di un equilibrio con i crioprotettori più velocemente rispetto agli

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embrioni più grandi, soprattutto durante le fasi di rimozione dei crioprotettori. Inoltre l’autore ha ipotizzato che la permeabilità degli embrioni equini ai crioprotettori possa essere diversa rispetto alle altre specie e potesse variare marcatamente in base ai differenti stadi di sviluppo (Ptaff, 1994).

Squires e Seidel hanno osservato che una diversa permeabilità degli embrioni equini, durante i diversi stadi di sviluppo, potrebbe essere attribuita alla presenza della capsula, la quale si forma a circa 6 giorni dopo l’ovulazione ed aumenta in spessore nei giorni seguenti (Squires e Seidel, 1995).

Hochi ha affermato che lo sviluppo della capsula durante l’espansione della blastocisti equina potrebbe essere responsabile di una limitata permeabilità agli agenti crioprotettori (CPA) (Hochi, 2002).

L’utilizzo di un soluto più permeabile del glicerolo, come il glicole etilenico ha aumentato le percentuali di gravidanza dopo trasferimento di embrioni congelati (Hochi, 1996). Al contrario, quando una piccola quantità di saccarosio (0,1 M) è stata aggiunta al medium crioprotettore, formato da 1,8 M di glicole etilenico (GE), ha determinato lo sviluppo in vitro di tutti gli embrioni dopo scongelamento (Hochi, 2002).

Ptaff, sempre nel lavoro del 1994, osservò anche la permeabilità relativa di blastocisti equine al glicerolo 1,5 M e al glicole etilenico 1,5 M (Ptaff, 1994). Gli embrioni di 7- 7,5 giorni, recuperati mediante tecnica non chirurgica, furono posti in DPBS contenente diversi crioprotettori a seconda del gruppo di studio: 1) glicerolo 1,5 M per 20 minuti; 2) glicole etilenico 1,5 M per 20 minuti; 3) saccarosio 0,3 M per 10 minuti, seguito da glicerolo 1,5 M + 0,3 M saccarosio per 20 minuti; 4) saccarosio 0,3 M per 10 minuti seguito da glicole etilenico 0,3 M + 0,3 M saccarosio per 20 minuti.

Gli embrioni furono misurati a 2, 5, 10, 15 e 20 minuti utilizzando uno stereomicroscopio; il volume di tutti gli embrioni diminuì rapidamente per la perdita d’acqua dovuta all’iperosmolarità della soluzione secondaria ad elevata concentrazione di crioprotettori nello spazio extracellulare; il glicerolo e il glicole etilenico entrarono

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però all’interno delle cellule. L’aumento della concentrazione intracellulare fu seguito da un rientro passivo di acqua, determinando un aumento del volume delle cellule.

In assenza di saccarosio, le piccole blastocisti (< 250 µm di diametro) riacquistarono la maggior parte del loro volume originario; le blastocisti di taglia media (200-500 µm di diametro) persero volume per 5 minuti; gli embrioni grandi (> 500 µm) continuarono a perdere volume per 20 minuti. Gli embrioni persero minor volume iniziale, in confronto a glicole etilenico o glicerolo 1,5 M, quando venne aggiunto alla soluzione saccarosio 0,3 M, ma il flusso di solvente risultò unidirezionale perché il saccarosio non entrava nelle cellule. Gli embrioni in glicole etilenico presentarono un volume relativo, significativamente maggiore rispetto a quelli in glicerolo; le blastocisti equine risultarono apparentemente più permeabili al glicole etilenico che al glicerolo (Ptaff, 1994).

Squires e colleghi eseguirono un altro studio, sottoponendo embrioni aventi diametro > 275 µm a 5 diversi trattamenti: 1) glicerolo; 2) glicole etilenico; 3) e 4) gli stessi trattamenti dello studio 1 e 2 ma in più aspirazione del blastocele e rottura della capsula; 5) controllo (Squires e Seidel, 1995).

Gli embrioni furono tenuti nei crioprotettori per 30 minuti, refrigerati fino a 0°C con curva di raffreddamento impostata a 4°C/min; tenuti a 0°C per 20 minuti, dopo di che furono riscaldati a temperatura ambientale; i crioprotettori furono rimossi in sei tappe ad osmolarità decrescente, dopo di che gli embrioni furono coltivati in Ham’s F10 + 10% di siero fetale bovino per 24 ore.

Venne effettuata una valutazione morfologica e di crescita in vitro, mediante marcatura degli embrioni con fluoresceina-diacetato, per testare l’attività dell’esterasi; inoltre gli embrioni furono marcati con orceina per valutare la percentuale di nuclei picnotici.

I risultati mostrarono una tossicità del glicole etilenico per gli embrioni equini; al contrario, gli embrioni trattai con il glicerolo non presentarono nessun danno, pochi nuclei picnotici, un aumento della taglia durante la coltura ed elevati punteggi di qualità (Squires e Seidel, 1995).

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Da tutti questi studi, risultato ormai chiaro che embrioni di dimensioni maggiori, tollerano peggio la crioconservazione rispetto ad embrioni di diametro minore, subendo maggiori danni a livello cellulare durante le fasi di congelamento lento e determinando lo sviluppo di una ridotta percentuale di gravidanze dopo il trasferimento (Tharasanit et al., 2005).

Anche se non è del tutto chiaro il motivo per cui gli embrioni di grandi dimensioni sono suscettibili ai danni da crioconservazione, le cause probabili vanno ricercate nelle dimensioni dell’embrione e nel volume del blastocele (Choi et al., 2011), nell’aumento rapido del numero di cellule in questo periodo (Bruyas et al. 1995), associato all’elevata attività mitotica (Bruyas, 2011) e la presenza della capsula (Bruyas et al., 1995; Legrand et al., 2002). È probabile che il congelamento lento, utilizzando gli attuali protocolli, non sia adattabile a blastocisti espanse, che possono richiedere più tempo rispetto ad una morula o una giovane blastociste per ridurre il contenuto di acqua intracellulare (compreso il liquido del blastocele) durante il processo di disidratazione, con inevitabile formazione di ghiaccio. A tal proposito va considerato che un aumento delle dimensioni da 200 a 300 µm è accompagnato da un aumento della superficie e di volume di un fattore 2,25 e 3,375 rispettivamente; è probabile che questo influisca significativamente sulla capacità dell’embrione di assorbire i crioprotettori e di perdere acqua durante la fase di equilibratura (Stout, 2012).

Un'altra spiegazione per la differenza di congelabilità tra embrioni equini di ridotto o grande diametro, risiede nella presenza della capsula glicoproteica acellulare, che si forma precocemente dopo l’arrivo in utero dell’embrione, proprio in contemporanea con la formazione della blastocisti (Betteridge et al., 1982; Floodet al., 1982). La correlazione negativa tra lo spessore della capsula e la congelabilità dell’embrione (Legrand et al. 2002), la lenta penetrazione di glicerolo e glicole etilenico attraverso la capsula glicoproteica (Gillard Kingma et al., 2011) ed i buoni risultati di crioconservazione ottenuti su embrioni coltivati in vitro (Galli et al., 2007; Campos- Chillo` n et al., 2009), in cui non si sviluppano capsule confluenti se non dopo il

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trasferimento in utero, hanno portato alla convinzione che la capsula glicoproteica impedisca un adeguata penetrazione dei crioprotettori nell’embrione.

Tuttavia, i tentativi per migliorare la penetrazione dei crioprotettori, tentando di digerire parzialmente la capsula con l’uso di tripsina, hanno prodotto risultati contrastanti (Maclellan et al., 2002; Tharasanit et al., 2005). Queste discrepanze potrebbero essere spiegate con il fatto che la tripsina, pur determinando una lisi parziale della capsula e quindi aumentando le interruzioni nel citoscheletro durante il congelamento, ma rende la capsula anche più “collosa” e facilmente incline ad essere perduta durante le fasi successive di manipolazione (Tharasanit et al. 2005); a sua volta la perdita della capsula potrebbe compromette la sopravvivenza degli embrioni in vivo (Stout et al., 2005).

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