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CAPITOLO 1 S APERE E SERVIZIO SOCIALE

1.2 Formazione e costruzione della conoscenza in servizio sociale

1.2.2 Conoscenza e comunità di pratiche professionali

La forte valenza operativa (“aiuto sociale”) rimane una caratteristica sa-liente della professione, anche con l’ingresso nell’università che tradizio-nalmente, fonda la sua ragion d’essere sulla conoscenza speculativa.

Il rapporto tra “saper fare” e “conoscenze teoriche” è piuttosto dibattuto (Fargion, 2002).

Il dibattito si snoda su alcuni nuclei argomentativi:

- tra chi attribuisce alla teoria un alto valore per la guida di una buona azione e chi, al contrario, sostiene che la pratica è la fonte di riflessione per una buona teoria ed un fondamento epistemolo-gico disciplinare;

- tra chi sostiene una contrapposizione di valore assegnato al sapere accademico con le conoscenze agite;

- tra chi pone in antitesi le capacità logiche, razionali, verbali e quindi consapevoli con l’insight, l’intuizione, il pensiero “improv-viso” e creativo, non facilmente assegnabile a un linguaggio im-mediato.

Con l’affacciarsi del servizio sociale nell’ambito accademico si rendo-no evidenti le separatezze tra un mondo che attribuisce valore superiore al sapere scientifico, con un mondo professionale ove saperi informali e im-pliciti continuano a essere applicativi in una realtà sociale in continuo mu-tamento.

I saperi impliciti si autogenerano, si evolvono e suggeriscono l’esistenza di un certo grado di soddisfazione nel lavoro dell’assistente so-ciale per affrontare al meglio la mutevole realtà circostante (Fargion, 2002).

Non si escluda infine, che questo “bipolarismo” nell’università e nelle comunità professionali, tra pensiero scientifico e modelli di azione profes-sionali, possa essere attribuito, metaforicamente, ad una sorta di separa-tezza “cartesiana” tra res cogitans e res extensa, tra realtà psichica razio-nale, pensiero e realtà agita, non consapevole54.

Con la formazione universitaria dell’assistente sociale si pone la neces-sità di un incontro tra la “pratica” e la “teoria” del lavoro sociale. Ciò s’inserisce all’interno di un continuo confronto tra i mutamenti generati dai contesti lavorativi con le molteplici soggettività degli scenari sociali (Bartolomei, 2010).

Il confronto con le “comunità di pratiche” produce saperi empirici che coinvolgono la totalità dell’esperienza dell’operatore nei suoi aspetti ra-zionali, creativi, emotivi, interattivi e relazionali (Graham, Shier, 2010).

Come già scritto, da qualche tempo vi è la consapevolezza, sia nel mondo professionale e ormai anche in quello accademico, della scarsa fruibilità delle teorie formali nei contesti professionali di servizio sociale (Sheppard, 1995).

Si pone infatti sempre più l’esigenza di scendere sul campo da parte del ricercatore anche nel mondo professionale, ove sussistono e si generano “modelli teorici di fatto” con uno stile partecipativo e collaborativo tra i ricercatori e i professionisti nel comune interesse di dimostrare che le teo-rie sono spesso più efficaci se generate dalla pratica, pur “silente” (Fook, 2002).

La professione dell’assistente sociale è un’attività professionale situata (Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995; Lipari, 2007), perché avviene in un luogo fisico e in un contesto relazionale ove si possono svelare po-tenzialità e risorse interne alle persone ed esterne alle stesse, ove si realiz-zano dinamiche relazionali ed interattive.

L’attività professionale si manifesta allora nel disvelamento di pensiero pratico per il raggiungimento di un fine, il fronteggiamento di una

situa-Il “pratico” professionale assume eccezioni diverse se inteso come par-tecipazione totale del professionista, costituito da dimensioni talvolta con-trapposte tra saperi espliciti ed impliciti, tra attività codificata e non codi-ficata, tra il verbale e il non verbale, tra la conoscenza e l’azione (Wenger, 2006).

Così prende forma un’attività cognitiva spesso implicita, che accumuna delle modalità interattive tra più assistenti sociali all’interno del proprio senso di appartenenza ad una comunità di pratiche55; “comunità silenti” ma che contengono dei saperi impliciti ed espliciti da guadare in una pro-spettiva costruttivista.

Ma cosa sono le “comunità di pratiche”?

Secondo Wenger (2006) le comunità di pratiche sono costituite da per-sone che condividono uno o più interessi e che interagiscono e si relazio-nano con una certa sistematicità, per raggiungere progressivamente delle abilità migliori e condivise.

La concettualizzazione delle comunità di pratiche sorge come conse-guenza di un precedente lavoro pubblicistico dell’autore (Lave, Wenger, 2006) sull’apprendimento situato56, inteso non più come effetto indotto dall’insegnamento e dalla didattica curriculare, ma come una pratica so-ciale.

Le comunità di pratiche si caratterizzano per alcune specificità:

- un’appartenenza che rinforzi l’identità singola e del gruppo e che derivi dalla condivisione degli obiettivi comuni e dal senso di fe-deltà alla stessa comunità. La comunità si arricchisce di competen-za e i singoli membri, nel rapporto interattivo, imparano gli uni dagli altri. Esso diventa un impegno reciproco su azioni che i sog-getti della comunità negoziano tra loro;

- interazioni all’interno della comunità di pratiche, che si manifesta nella dialettica comune su nuclei di significazione e di operatività; - il costituirsi, all’interno di un circolo virtuale, di risorse e pratiche

intese come opportunità condivise, come effetto del confronto tra esperienze personali che confluiscono all’interno della comunità stessa. Tale processo è spesso inconscio ed è il risultato dei rap-porti sociali che si vengono ad instaurare tra i componenti della comunità;

- repertori comuni costituiti da risorse, pratiche consolidate, lin-guaggi, strumenti e stili di azione;

- un dominio o più domini tematici e operativi attorno ai quali la comunità di pratiche si costituisce. Tali obiettivi, inizialmente, so-no in astratto ma sostanzialmente si concretizzaso-no attraverso le re-lazioni di reciproca responsabilità.

All’interno delle comunità di pratiche sono condivise le esperienze che hanno generato apprendimento per un’efficacia professionale anche tra

Le comunità infatti, non hanno netti confini e vi è un’appartenenza ete-rogenea dei professionisti a diverse realtà di pratiche, personali e profes-sionali che sono continuamente mediate, negoziate, con l’intento di un di-namico e continuo lavoro di condivisione e cooproduzione di significato dei professionisti.

Ogni organizzazione ha delle proprie comunità di pratiche che non sono sovrapposte o identificate in azioni professionali, standard e protocollari.

La conoscenza che si genera nel circolo virtuoso delle comunità di pra-tiche, in quanto risultato di processi di apprendimento e trasmissione di-stribuita e condivisa è maggiore rispetto alla somma delle singole cono-scenze degli appartenenti al gruppo.

Tuttavia, la “pratica” sembra venire prima del senso della “comunità”. Gherardi (2003) infatti, pone in rilievo la logica interna delle pratiche sulla quale è costituita la comunità.

L’attenzione si sposta così dall’oggetto “comunità”, al soggetto “rela-zioni” attraverso le quali si manifesta la “pratica”.

Gli aspetti relazionali e pratici diventano i fattori principali dell’interdipendenza dei soggetti all’interno della comunità.

Anche Bauman (2001) sostiene di porre cautela nel termine evocativo di “comunità”. Esso potrebbe richiamare una rappresentazione di un mon-do ideale, armonico, protetto, sicuro e integro che attutisce le

frammenta-zioni dell’identità soggettiva nell’esperienza di una società complessa e articolata.

Una comunità di pratiche è tutt’altro che “un luogo felice” ove regna “pace e armonia”.

La pratica quindi, va intesa come contesto costitutivo di una comunità sociale e fonte della costruzione di significati, mediante la significazione della realtà e degli avvenimenti, la negoziazione dei propri punti di vista, la partecipazione ai processi di costruzione e la reificazione della cono-scenza costruita e cristallizzata.

La pratica può diventare la ricostruzione materiale di una nuova cono-scenza, attraverso documenti, testi scritti, progetti, relazioni e realtà mate-riali (Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995; Wenger, Mcdermott, Snyder, 2007).

Si tratta di problematizzare ciò che sembra scontato, di porre dei dubbi su conoscenze tradizionali costruite su osservazioni apparentemente neu-trali, relativizzare le conoscenze possedute in base ai contesti, al momento storico, agli scenari sociali e lavorativi, un porsi a livello professionale e conoscitivo in un’ottica che potremmo dire essere di tipo “costruzionista”, che riguardi il modo di collocarsi, comprendere e rapportarsi con e nel mondo (Parton, 2005).

“Pratica” e “comunità” un binomio che si associa quindi nell’esperienza dei mondi professionali ove si esprimono forme di conoscenze condivise relative ad un problema, alle procedure, all’agire nel contesto.

Una conoscenza professionale spesso implicita che si manifesta attra-verso modelli mentali condivisi (CannonBowers, Salas, Converse, 1993).

Trattasi di un’insieme di conoscenze operative organizzate su determi-nate situazioni problematiche che si possono presentare nel mondo profes-sionale.

Tali modelli mentali condivisi sono strutture che consentono agli assi-stenti appartenenti a quella comunità di pratiche di stabilire un contatto ef-ficace e rispondente alla realtà presentata, di poter intervenire e incidere su essa, di prevedere gli eventi futuri e le conseguenze delle azioni agite nel processo d’aiuto (Roth, Multer, Raslear, 2006).

Sono conoscenze pratiche condivise nella comunità professionale che permettono di fronteggiare compiti anche piuttosto complessi, in un si-stema di aspettative comuni tra vari attori partecipanti all’intervento (figu-re professionali, sistema dell’aiuto, sistema utente), di attese rispetto ai ruoli, alle responsabilità assunte, di generare un clima cooperativo e di fi-ducia.

Si giunge attraverso i modelli mentali di conoscenza condivisa ad una rappresentazione della situazione problematica, alla consapevolezza del proprio ruolo e di quello dei colleghi, ad una affidabile anticipazione delle conseguenze delle azioni messe in atto e delle decisioni intraprese (Tinda-le, Sheffey, Scott, 1993).

Il sapere delle comunità di pratiche non va tuttavia sovrapposto neces-sariamente al sapere esperto (Nigris, 2010).

Il sapere dell’esperienza condivisa è infatti quella conoscenza che si acquisisce nel tempo con la pratica professionale e scientifica anche a li-vello informale, patrimonio di una comunità d’appartenenza.

Il sapere dell’esperto è invece “un sapere raro, acquisibile con il tempo e attraverso la pratica, e difficilmente trasmissibile (almeno in forma for-malizzata).

È tipicamente un sapere non proposizionale” (Nigris, 2010: 24).

Potremmo tuttavia anche vedere i saperi derivanti dalle esperienze e quelli derivanti dagli esperti come aspetti dinamici della conoscenza e del-le attività pratiche tra professionisti orientati verso scopi e situazioni co-muni.

Una congiunzione tra ricerca riflessiva ed azione ove il sapere può esse-re inteso non solo come compesse-rensione, ma anche come acquisizione di un

La conoscenza come fonte dell’azione.

L’azione come fonte della conoscenza pratica (Inserra, 2008).