• Non ci sono risultati.

8 – Considerazioni sulle dinamiche insediative dei gruppi castelnoviani in ambito regionale

Volendo tracciare un quadro del popolamento castelnoviano sulla base dei ritrovamenti sopra illustrati, ci si scontra con tre principali difficoltà, che rendono fragile qualsiasi ricostruzione: in primo luogo l’ubicazione dei siti riflette più l’assiduità delle ricerche che l’effettiva distribuzione degli insediamenti antichi, inoltre la grande maggioranza dei dati proviene da rinvenimenti di superficie, infine la documentazione è rappresentata quasi esclusivamente dalle industrie litiche, mentre i resti faunistici sono scarsissimi, mancano altri elementi di cultura materiale e sono del tutto assenti testimonianze di attività simboliche (fig. 33).

D’altra parte, è comunque possibile sviluppare alcune considerazioni sul popolamento della regione sulla base dei dati disponibili, ossia principalmente la situazione topografica e paleoambientale di ciascun sito e la circolazione delle materie prime litiche, che possono fornire indizi sulle scelte insediative e sulla mobilità dei gruppi sul territorio (Bagolini 1987a); è invece più complicato delineare le modalità di sussistenza, se non in modo molto generale, per la scarsità di dati disponibili.

In assenza di nuove scoperte, salvo alcune attestazioni di superficie nel settore parmense-piacentino (Aveio, Termini, Santa Barbara, Monte Fernico), che non presentano elementi di novità rispetto ai siti già noti, il quadro regionale del popolamento non potrà allontanarsi da quelli tracciati nel corso degli ultimi decenni da diversi autori a livello sub-regionale (Biagi et al. 1980, Bagolini 1985, Nenzioni 1985, Ghiretti & Guerreschi 1991, Ferrari et al. 2006).

Come si è detto, la distribuzione dei siti noti è condizionata non solo dalle modalità di ricerca, ma anche dagli specifici contesti geomorfologici e deposizionali, che possono aver favorito o compromesso la conservazione o la visibilità dei giacimenti: molti dei reperti rinvenuti in alta montagna sono stati posti in luce da fenomeni erosivi, così come in alcune zone di pianura potenti depositi alluvionali possono aver occultato siti mesolitici (ne é un esempio il giacimento sauveterriano di Cava Due Portoni a Bologna; Cremaschi et al. 1990). Altre situazioni, naturali o antropiche, quali i regimi fluviali e le attività edilizie o di estrazione, possono portare in luce o distruggere completamente i siti, anche in tempi rapidissimi: si possono citare ad esempio le situazioni di San Cesario e Gazzaro per il primo caso, Le Mose e le diverse cave presenti sul territorio per il secondo (Neolitico Rame Spilamberto 1981, Cremaschi 1975a, Bernabò Brea et al. 1998, Lettere di pietra 1996). Avendo ben presenti tutti

158

questi fattori, si possono comunque delineare alcuni aspetti che sembrano riflettere, almeno in parte, le scelte insediative dei gruppi castelnoviani.

Fig. 33 – Tipologia dei rinvenimenti.

La pianura (unità A) offriva senza dubbio una grande varietà di ambienti e nicchie ecologiche, complementari tra loro, per l’alternanza di boschi, zone aperte caratterizzate dalla presenza di arbusti ed alberelli, anche con frutti commestibili, e aree umide con vegetazione igrofila (Accorsi et al. 2004). Per questa fascia, le cui testimonianze si concentrano nel settore centro-orientale della regione (unica eccezione il sito di Le Mose), è stata ripetutamente sottolineata dagli autori la collocazione dei siti in prossimità di alvei fluviali (Gazzaro, San Cesario) o presso lo sbocco a valle dei torrenti appenninici, o comunque presso aree umide (Biagi et al. 1980, Cremaschi 1985, Nenzioni 1985), che durante l’Olocene antico dovevano essere più diffuse di oggi, per l’assenza di opere di bonifica. Tale scelta era senza dubbio guidata dall’elevata produttività di tali ecosistemi, in termini di risorse vegetali e animali sfruttabili attraverso caccia, raccolta, pesca e uccellagione (Bagolini 1985, Ferrari et al. 2006). Restano in gran parte sconosciute, per l’assenza quasi totale di dati faunistici, le modalità di queste attività di sussistenza: gli scarsi ritrovamenti di Gazzaro e Castellarano si limitano a documentare la caccia a cervo, capriolo, cinghiale e lepre (Biagi et al. 1980, Cremaschi 1985).

A - Pianura e terrazzi pedecoll. B - Collina C - Media montagna D - Alta montagna superficie 20 4 9 12 sterro 1 3 1 scavo stratigrafico 1 1 3 0 5 10 15 20 25

159

Il rinvenimento, in alcuni di questi giacimenti, di molte centinaia di manufatti litici, come nel caso di Riola e Stanga, potrebbe essere ricondotto a permanenze di lunga durata o più brevi ma ripetute nel tempo, mentre frequentazioni più episodiche possono essere ipotizzate per altri siti, disposti nell’alta pianura e sui terrazzi pedecollinari. Gli unici contesti di pianura in cui i ritrovamenti non siano limitati alla sola industria litica, ossia Le Mose e Gazzaro, pur avendo restituito tracce di focolari, non permettono di precisare la durata di occupazione e la funzione dei siti.

Nella fascia collinare (unità B) si osserva la più bassa densità di ritrovamenti, sebbene quest’area dovesse risultare particolarmente favorevole all’insediamento umano, soprattutto durante la cattiva stagione, per le temperature più miti rispetto alla pianura, dove l’accumulo di aria fredda rende gli inverni particolarmente rigidi (Rossetti 1988). La scarsa frequenza delle attestazioni in quest’area è probabilmente imputabile ad alcune condizioni attuali, quali la copertura boschiva e l’evoluzione delle forme calanchive, che possono nascondere o aver cancellato molte tracce di frequentazione. Inoltre tale scarsità di dati potrebbe essere in buona parte conseguenza del fatto che le testimonianze mesolitiche in queste aree siano in buona parte celate dai più cospicui e “visibili” ritrovamenti paleolitici, cui si sono dedicati gli amatori che hanno indagato queste zone, come mostrerebbe il dato relativo al territorio bolognese e modenese (Lettere di pietra 1996, Atlante Modena 2009).

I rinvenimenti disposti lungo le valli dei torrenti appenninici o sulle prime alture collinari, concentrati nel settore bolognese e modenese (San Lazzaro, Bazzano, Castelvetro, Sassuolo), consistono in genere in piccoli nuclei di materiali, che evocano brevi frequentazioni, forse connesse allo sfruttamento degli affioramenti dei ciottoli calabriani impiegati per la produzione dei manufatti litici (Cremaschi 1985, Nenzioni 1985). Poiché nessuno di questi rinvenimenti può essere ricondotto ad attività di selezione del materiale litico e/o preparazione di manufatti semilavorati, non è possibile precisare se vi fosse una specializzazione funzionale di alcuni siti in questo senso: i dati disponibili confortano piuttosto l’ipotesi di una strategia di “embedded procurement” (Binford 1979).

In questa fascia si collocano due ritrovamenti, quello del Pescale e quello di Madonna di Campiano, che si distinguono dagli altri per la posizione dominante sulla valle del Secchia; tali scelte insediative, come è stato sottolineato (Ferrari et al. 2006), possono essere connesse alla concomitanza di diversi fattori favorevoli, di tipo topografico, ecologico, economico e culturale, in particolare la collocazione a controllo di una valle che poteva essere direttrice delle migrazioni stagionali della selvaggina. D’altra parte, anche la mobilità dei gruppi umani sul territorio può essere ricondotta, oltre che all’alternarsi delle stagioni, agli spostamenti dei branchi di ungulati (Cremaschi 1985, Ghiretti 2003, Ferrari et al. 2006), che salgono in altitudine a partire dalla tarda

160

primavera per ridiscendere a quote inferiori alla fine dell’estate (Rodriguez de la Fuente 1970).

I ritrovamenti della media montagna (unità C) sono concentrati esclusivamente nel settore parmense-piacentino, dove la disposizione dei siti sembra ricalcare alcune delle scelte insediative osservate per le aree di pianura. Si riscontra infatti una preferenza per le postazioni in prossimità di aree umide o in zone ricche di sorgenti, ma anche non lontano dagli affioramenti di materie prime, in questo caso il diaspro, come per Cabriolini o Fontana della Basona (Ghiretti & Guerreschi 1990). Questo aspetto è particolarmente evidente nel confinante settore ligure, dove diversi siti posti alle medie altitudini documentano intense attività di scheggiatura in prossimità degli affioramenti di diaspro (Maggi 1999). Altre collocazioni, come quelle presso il crinale (monte Molinatico, Monte Cucco) o passi interni (Santa Barbara) sembrano invece legate alle specificità dell’area montana e forse a spostamenti o contatti inter- vallivi o con l’opposto versante della catena. Anche in questo caso, le postazioni collocate presso i valichi appenninici o lungo le piste di accesso ad essi possono essere state scelte in quanto localizzate lungo percorsi obbligati per le mandrie di selvatici (Ghiretti & Guerreschi 1990, Ferrari et al. 2006).

La fascia di alta montagna (unità D), caratterizzata dalla presenza del bosco rado, e le aree in prossimità dello spartiacque appenninico hanno restituito i due principali siti noti a livello regionale, ossia Lama Lite e Passo della Comunella, nel settore reggiano, cui si affiancano una serie di ritrovamenti nel parmense-piacentino (Monte Camulara, Aveio, Prato Grande, Passo dello Zovallo) e nel modenese (Passo del Lupo e Lago Baccio), che documentano una frequentazione delle alte quote diffusa su tutto il territorio regionale. Anche in questo caso, le scelte insediative sembrano rispondere a molteplici esigenze, che indirizzano verso la preferenza per i pianori di valico (Passo della Comunella, Passo del Lupo) o le postazioni prossime a specchi d’acqua o aree umide (ad esempio i prati torbosi di Aveio e Prato Grande), zone entrambe favorevoli per il controllo della selvaggina. In questo senso, i versanti modellati dai fenomeni glaciali costituiscono punti di attrazione, per la frequente presenza di cordoni morenici che delimitano aree paludose o lacustri (Lago Baccio, Corni Piccoli, Sasso Fratto).

All’interno di un quadro generale di diffusa frequentazione delle alte quote, è possibile identificare campi occupati ripetutamente nel corso di un’unica stagione o di più stagioni consecutive, come Lama Lite e Passo della Comunella; la composizione dello strumentario litico, in assenza di dati faunistici e tracceologici, lascia intravedere una differenziazione funzionale tra i due insediamenti, con una prevalenza di armature per armi da getto nel primo e una maggiore rappresentazione di strumentario per generiche attività di sussistenza nel secondo (Cremaschi &

161

Castelletti 1975, Castelletti et al. 1976). E’ opportuno ricordare che la comprensione dell’articolazione funzionale di questi siti non può che essere parziale, non solo, come si è detto, per l’assenza di studi tracceologici, ma anche per la limitata estensione degli scavi, che hanno interessato solo una porzione dei livelli di occupazione e non possono quindi fornire un’immagine completa delle eventuali aree dedicate ad attività specifiche all’interno di ciascuno di essi.

Accanto a questi stanziamenti di maggiore entità, si possono riconoscere una serie di frequentazioni a carattere occasionale, testimoniate da piccoli insiemi di reperti, connesse a permanenze di breve durata o a singole battute di caccia. Più difficile precisare, invece, lo statuto di siti quali Camulara, Aveio, Prato Grande e Zovallo, che hanno restituito diverse centinaia di manufatti, ma in cui non sono state eseguite indagini stratigrafiche: anch’essi, probabilmente, possono essere considerati aree di occupazione a breve-medio termine, interessate da frequentazioni ripetute nel tempo. Tali evidenze sono coerenti con quanto si osserva nel confinante settore ligure, dove alcuni siti posti a quote comprese tra 1100 e 1650 m sono stati interpretati come campi estivi di lunga durata per l’elevato numero di manufatti presenti e per la netta prevalenza di substrato e strumenti comuni sulle armature. Quest’ultimo aspetto, che trova riscontro anche nell’area parmense-piacentina, è stato spiegato con l’attuazione di strategie di caccia in cui le armature giocassero un ruolo minore, oppure con una preponderanza delle attività di raccolta (Maggi & Negrino 1994, Maggi 1999). Trattandosi tuttavia, sia nel caso ligure, sia in quello emiliano, di rinvenimenti di superficie, qualsiasi ipotesi sulle modalità di occupazione e sulle specializzazioni funzionali di questi siti è destinata a rimanere tale fino a quando non saranno disponibili dati stratigrafici.

D’altra parte, se le attestazioni sul trattamento delle risorse animali sono scarse, altrettanto labili sono le tracce di attività di sussistenza legate alle fonti vegetali. Uniche testimonianze in tal senso sono i resti di Pomaceae (Crataegus/Pirus/Malus) individuati a Gazzaro (Biagi et al. 1980) e i gusci di nocciole e i resti di sorbo rinvenuti al Monte Bagioletto, dove i diagrammi pollinici documentano anche la presenza piante di ginepro e vaccinieti (Cremaschi et al. 1982).

Gli studi paleobotanici concordano tuttavia nell’individuare tracce di interventi antropici sulla vegetazione in ambito regionale già dal Preboreale-Boreale, pur sottolineando che si tratta appunto di tracce e indizi e non di prove decisive, come quelle che indicano l’avvio delle pratiche agricole nel corso dell’Atlantico (Accorsi et al. 1992, 2004, Lowe et al. 1994). Il diradamento della copertura forestale, documentato dall’abbassamento del rapporto tra essenze arboree ed erbacee, osservato sia in pianura sia nella zona montana, se interpretato come conseguenza di azioni di disboscamento, potrebbe essere spiegato con la volontà di creare radure

162

favorevoli alla crescita di alberi e arbusti con frutti eduli (Accorsi et al. 1997) o al pascolo degli erbivori selvatici cacciati dai gruppi mesolitici (Biagi et al. 1980). Nelle aree di pianura si registra infatti, tra il Boreale e l’Atlantico antico, prima dell’adozione delle pratiche agricole, un aumento della diffusione di alberi e arbusti con frutti commestibili, quali nocciolo, sambuco, corniolo, olivello, sorbo, castagno, ginepro, noce; in area collinare i diagrammi pollinici registrano la presenza di Olea, in collina e media montagna quella di pruno, luppolo, ginepro, tasso, corniolo, olivello, sorbo e lampone (Accorsi et al. 1992, 2000), mentre alle più alte quote sono documentati vaccinieti (Bertolani Marchetti 1963, 1980). Sebbene non siano testimoniate, per quest’epoca, pratiche di domesticazione vera e propria, l’uomo potrebbe aver protetto queste piante, favorendone la diffusione anche attraverso il diradamento del bosco (Accorsi et al. 1997, 2004).

L’approvvigionamento di combustibile legnoso non sembra invece essere stato motivo di eventuale disboscamento, come dimostrano le analisi dei carboni rinvenuti negli accampamenti d’alta quota, dove il legno usato per i focolari proveniva da rami raccolti già caduti nel bosco. Il consumo di legna stimato per tali accampamenti, in rapporto alla presenza, nelle zone circostanti, di legna a terra, indicherebbe possibilità di approvvigionamento adeguato con spostamenti in un areale molto ristretto; non si renderebbe pertanto necessario il taglio del bosco per tali scopi (Castelletti 1984).

163

III