LA CHIUSURA DEL GIAPPONE AI PAESI STRANIERI (1639 1853) E I PRIMI INFLUSSI GIAPPONESI SULLA MODA
1. IL CONTESTO STORICO E LE PUBBLICAZIONI IN ITALIA SUI COSTUMI GIAPPONES
Come è stato ricordato nel capitolo precedente, dalla fine del XVI secolo la fede cristiana venne sempre più osteggiata in Giappone, in quanto “percepita come un pericolo politico e ideologico”1. Parallelamente, lo shogunato emanò una serie di ordinanze finalizzate a isolare il Giappone dai paesi stranieri2. Secondo lo storico Paolo Beonio-Brocchieri, il motivo principale di tale scelta va cercato nel fatto che la classe politica e militare giapponese aveva intuito, “con eccezionale anticipo rispetto agli altri reggitori asiatici, il carattere espansionista e colonizzatore delle presenza europea”3. Con la quarta ordinanza di isolamento del 1639, che vietava l’ingresso delle navi portoghesi in Giappone, iniziava la cosiddetta era sakoku, che letteralmente significa “paese incatenato”, ovvero “paese chiuso”4.
Durante gli oltre due secoli dell’era sakoku il Giappone non rimase tuttavia completamente isolato dal resto del mondo, dal momento che dal 1641 una colonia sorvegliata di olandesi, seppur confinata a Dejima, poté continuare i traffici commerciali con il Giappone5. Inoltre ad un esiguo numero di commercianti cinesi fu permesso di condurre la propria attività in un quartiere di Nagasaki, “che divenne l’unico porto del Giappone autorizzato da Edo a svolgere limitate attività commerciali con l’estero”6.
La restrizione dei contatti con l’estero si protrasse fino al 1853, quando gli Stati Uniti costrinsero il Giappone a riavviare le relazioni diplomatiche e commerciali con l’Occidente, come vedremo nel capitolo successivo.
1 R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, 2006, p. 104. 2
Già nel 1624 era stato vietato alle navi spagnole l'accesso in territorio giapponese. Con la prima ordinanza di isolamento del 1633, furono limitati i traffici di navi giapponesi verso l’estero, con l’eccezione di alcuni bastimenti in possesso di permessi speciali dello shogunato; inoltre ai giapponesi fu vietato di emigrare o di rimpatriare (v. T. Iannello, Shogun, komojin e rangakusha. Le Compagnie delle Indie e l'apertura del Giappone alla tecnologia occidentale nei secoli 17-18, 2012, pp. 67-70). La seconda ordinanza di isolamento del 1634 ribadì la proibizione per i giapponesi di recarsi all’estero; inoltre furono pesantemente limitati i traffici commerciali (Ivi, p. 70). La terza ordinanza di isolamento del 1635 ribadì perentoriamente le norme emanate nel 1633, senza eccezioni (Ivi, pp. 70-72).
3 P. Beonio-Brocchieri, Storia del Giappone, 1996, p. 77. 4 R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, 2006, p. 104.
5 Dejima era un isolotto artificiale collegato a Nagasaki con un ponte. Il trattamento privilegiato riservato agli olandesi
dipendeva dal fatto che, essendo essi calvinisti, non avevano dimostrato alcuna mira spirituale sul Giappone e pertanto la loro presenza non era considerata ideologicamente pericolosa.
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La chiusura del Giappone ai paesi stranieri comportò ovviamente una limitazione alla circolazione di merci e di notizie provenienti dal Paese del Sol Levante. Di conseguenza anche le pubblicazioni sul Giappone edite in Italia durante l’era sakoku utilizzarono perlopiù fonti anteriori al 1639.
Ad esempio il già citato storico gesuita Daniello Bartoli, che nel 1660 pubblicò il volume sul
Giappone nell’ambito del più ampio progetto della Storia della Compagnia di Gesù, si rifece
soprattutto alle lettere scritte dai suoi compagni gesuiti prima della cacciata definitiva dei missionari dal Giappone7 e non fornì degli abiti giapponesi informazioni più aggiornate rispetto alle fonti tardo-cinquecentesche, come ad esempio la Relationi scritta dal Gualtieri nel 1586 e citata nel capitolo precedente8.
Anche l’artista veneziano Giovanni Grevembroch, quando nel 1754 stese il manoscritto (corredato da acquerelli) dal titolo Gli abiti de’ veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel
secolo XVIII, nel rappresentare gli abiti dei giapponesi di fatto imitò l’incisione contenuta nel
volume del Vecellio del 15989 (FIG. 1 ). Ma l’inattualità della sua raffigurazione era giustificata dal fatto che il Grevembroch inserì l’immagine del “giovane giapponese” per rievocare l’arrivo a Venezia della delegazione giapponese nel 158510.
7 D. Bartoli, Dell'Istoria della Compagnia di Gesù. L’Asia descritta dal P. Daniello Bartoli , op. cit.. Cfr. nel capitolo I
il paragrafo 4 su “Francesco Saverio e gli scritti dei Gesuiti sul Giappone”.
8
Cfr. a tal proposito nel primo capitolo il paragrafo 5 su “La prima ambasciata giapponese in Italia (1585)”.
9 Il manoscritto del Grevembroch, in quattro volumi, è conservato al Museo Correr di Venezia. Nel 1981 la sua opera è
stata riprodotta dall’editore Luciano Filippi di Venezia. Per la rappresentazione dei costumi giapponesi nell’opera del Vecellio cfr. nel capitolo I il paragrafo 7 su “Il “Giovane Giapponese” raffigurato nel volume di Cesare Vecellio Habiti antichi, et moderni di tutto il mondo (1598)”.
10 Ecco di seguito la trascrizione del testo del Grevembroch, riportata in La scoperta e il suo doppio, op. cit., n. 40, pp.
91-92: “Giovane giapponese. Ai tempi che siedeva sopra il trono della Repubblica Veneta Nicolò da Ponte, giunsero nella magnifica nostra città alcuni Principi Giapponesi, e fecero un solennissimo ingresso nell’Eccellentissimo Collegio sì memorabile che fu dipinto in un quadro da Pietro Ricchi, conservato da padri della Compagnia di Gesù, per la relatione che essi hanno a vantaggio della cattolica Religione con quel lontano Regno. Fatalità volse che poi qui caddero infermi, alla cui cura le fu mandato dal Doge stesso il proprio Medico, Giovanni Guglielmo Cattaneo, Filosofo insigne, perilche risanati lo crearono Marchese, e gli diedero un generoso emolumento. Anche del 1652 pervenne in Venezia un giovane nobile della China, e col mezzo del padre Michele Bocchin Gesuita polacco si presentò alla Signoria, e consegnate lettere credenziali di Pan Achilleo, Ministro Primario del loro Re, fu dal Consiglio di Pregadi congedato con doni di vesti e di altre preziose gentilezze, come scrive il Cavaliere e Procuratore Gio: Battista Nani nella Storia al Libro V°. In quei Paesi portano un busto e bragoni larghi di seta, così bella, e bianca, che assomiglia alla carta; Queste sono miniate vagamente di diversi colori, con fogliami ed uccelli. Di sopra accostumano una Zimarra a guisa di Velluto ad opera, e si cingono la scimitarra, ed il pugnale, quali veggonsi nella Sala delle Armi del Consiglio di Dieci. Al venerando, ed esemplarissimo Padre Dionisio Orrigo Nobile Milanese della Compagnia di Gesù, esistente nella Casa professa di Venezia, cogliemo il vantaggio di consacrare si bella raccordanza”. Per un approfondimento sulla descrizione e la raffigurazione del “giovane giapponese” contenuta nel manoscritto di Grevembroch cfr. La scoperta e il suo doppio, op cit., n. 40, pp. 91-92.
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FIG. 1. A destra: “Giovane giapponese” raffigurato nel manoscritto del 1754 di Giovanni Grevembroch, Gli abiti de’ veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel secolo
XVIII. Venezia, Museo Correr. Il “Giovane giapponese” è evidentemente ispirato all’incisione
raffigurante un “Giovane giapponese”, contenuta nel volume di Cesare Vecellio, Habiti
antichi, et moderni di tutto il mondo del 1598 (a sinistra).
Nel caso invece della monumentale opera Il costume antico e moderno o storia del governo, milizia,
religione, arti, scienze ed usanze di tutti i popoli antichi e moderni provata coi monumenti dell'antichità e rappresentata cogli analoghi disegni dal dott. Giulio Ferrario, pubblicata tra il
1815 e il 1834 dall’erudito milanese Giulio Ferrario, a proposito dell’abbigliamento giapponese sono presenti dei veri e propri anacronismi11. Ciò si spiega con il fatto che il Ferrario non aveva accesso a notizie recenti sul Giappone, ma dovette affidarsi a pubblicazioni più antiche. Un esempio delle inesattezze presenti nel suo saggio riguarda la notizia della presunta abitudine delle donne giapponesi di uscire di casa con il capo velato: “Uscendo di casa si involgono in un velo senza del
quale non si veggono mai da alcuno, fuorchè da quelli della famiglia”12. È vero che le giapponesi nascondevano il loro volto agli estranei, soprattutto quando si trovavano in pubblico, ma tale
11
Su Giulio Ferrario e la sua opera v. P.F. Fumagalli, La Cina descritta in Milano da Giulio Ferrario, in Asiatica Ambrosiana. Saggi e ricerche di cultura religioni e società dell’Asia, 2009, pp. 115-122.
12 G. Ferrario, Il costume antico e moderno o storia del governo, milizia, religione, arti, scienze ed usanze di tutti i
popoli antichi e moderni provata coi monumenti dell'antichità e rappresentata cogli analoghi disegni dal dott. Giulio Ferrario, vol. V, Asia: Cina, Corea, Giappone, n. 39, 1815, p. 422.
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usanza, nata intorno al X secolo, progressivamente scemò a partire dal XVII secolo ed era scomparsa negli anni in cui il Ferrario scriveva la sua opera13.
Il testo del Ferrario era corredato da un’incisione a colori, dove è raffigurata in secondo piano una giapponese che incede con la testa e il busto coperti da una sorta di ombrello chiuso, sostenuto da un inserviente alle sue spalle (FIG. 2b).
Tale immagine è stata desunta con ogni probabilità da un’illustrazione molto simile contenuta nel volume di Arnoldus Montanus Ambassades mémorables de la Compagnie des Indes Orientales des
Provinces Unies vers les Empereurs du Japon, pubblicato ad Amsterdam nel 1680 e dedicato a
quanto si sapeva allora del Giappone14 (FIG. 2a).
FIG. 2a, a sinistra. Incisione contenuta nell’opera di Arnoldus Montanus Ambassades
mémorables de la Compagnie des Indes Orientales…, 1680, p. 54. In secondo piano a sinistra
una donna giapponese incede con il capo e il busto nascosti da una sorta di ombrello chiuso, retto da un inserviente. FIG. 2b, a destra. Immagine contenuta nell’opera di Giulio Ferrario,
Il costume antico e moderno …, vol. V, Asia: Cina, Corea, Giappone, 1815, tav. 87. Sullo sfondo
una donna cammina con un copricapo molto simile a quello raffigurato nell’incisione 2a.
13 Sull’inizio dell’usanza delle donne giapponesi di coprirsi il volto cfr. Y. Masuda, 日本女性の顔隠しの始まりと被,
[ovvero L’inizio dell’abitudine delle donne giapponesi di coprire il proprio volto, e il katsugi], in 花嫁はなぜ顔を隠 すのか [ovvero Perché la sposa si copre il volto?], a cura di Y. Masuda, 2010, pp. 1-43. Sulla progressiva scomparsa di quest’usanza cfr. T. Umetani, Donne con capo coperto o velato nell’età moderna, in Perché la sposa si copre il volto?, op. cit., pp. 44-99:72
14
A. Montanus, Ambassades mémorables de la Compagnie des Indes Orientales des Provinces Unies vers les Empereurs du Japon, 1680, p. 54. Il volume in francese è la traduzione dell’originale olandese del 1669 Gedenkwaerdige Gesantschappen der Oost-Indische Maetschappy in't Vereenigde Nederland, aen de Kaisaren van Japan.
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Non risulta che siano mai esistiti in Giappone siffatti copricapi femminili. È possibile tuttavia che il copricapo raffigurato nell’opera del Ferrario, già presente nel volume del Montanus, sia un tentativo maldestro di rappresentare l’ichime-gasa, che era una sorta di cappello a tesa larga, dal quale pendeva un lungo pezzo di stoffa, talvolta di canapa, il mushi-no tareginu, che copriva il corpo grossomodo fino al ginocchio (FIG. 3). L’ichime-gasa venne indossato dalle nobildonne giapponesi tra l’XI secolo e l’epoca Azuchi-Momoyama (1568-1598)15.
FIG. 3. Esempio di ichimegasa con mushi-no tareginu 16.
15 Cfr. Y. Masuda, L’inizio dell’abitudine delle donne giapponesi coprire il proprio volto, op. cit., p. 6 e T. Umetami,
Donne con capo coperto o velato nell’età moderna, op. cit., p. 72.
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Il disegno e la relativa didascalia sono tratti dal sito del Costume Museum di Kyoto (http://www.iz2.or.jp/english/fukusyoku/busou/index.htm, ultima consultazione 10 novembre 2015): “Woman of the upper class in tsubo-shozoku (=travel outfit) with mushi-no tareginu (= a hemp veiled sedge hat)” (trad: “donna altolocata con indosso il tsubo-shozoku (completo da viaggio) con mushi-no tareginu (cappello di carice con velo di canapa)”.
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