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IL SOGGIORNO IN GIAPPONE DI FRANCESCO CARLETTI (1597-98)

In un clima ormai ostile agli stranieri e in particolar modo ai cattolici, approdò a Nagasaki nel giugno 1597 il mercante fiorentino Francesco Carletti (1573/1574 - 1636), ancora in tempo per vedere “il spettacolo di quelli poveri (quanto al mondo) sei frati di S. Francesco dell’ordine degli

scalzi di Spagna, che erano stati crocifissi insieme con altri venti giapponesi cristiani alli 5 del mese di febbraio di quel medesimo anno 1597”169.

Nel Paese del Sol Levante il Carletti si trattenne fino al marzo 1598. Il suo soggiorno in Giappone faceva parte di un ben più lungo “viaggio intorno al mondo” che il Carletti compì, in qualità di mercante, dal 1594 al 1606170. Al ritorno in Italia, scrisse le memorie di quel viaggio avventuroso. Essendo un laico, rispetto ai Gesuiti era molto meno interessato alle questioni religiose; il suo spirito pratico lo portava piuttosto a osservare con disincanto i diversi aspetti delle culture con cui entrava in contatto. Le pagine che egli dedicò al Giappone sono per noi importanti, perché contengono anche una descrizione schietta e dettagliata degli abiti giapponesi. Quindi il suo resoconto (seppur privo di illustrazioni), che fu pubblicato però soltanto nel 1701 con il titolo

162 Cfr. A. Boscaro, Il Giappone negli anni 1549-1590 attraverso gli scritti dei Gesuiti, op. cit., pp. 63-85:84. Cfr. anche

Anno 1585: Milano incontra il Giappone, op. cit., p. 66.

163 Cfr. A. Boscaro, Giapponesi in Europa nel XVI secolo, in Anno 1585: Milano incontra il Giappone, op. cit., p. 98. 164

F. Maraini, La scoperta del Giappone in Italia, in Italia-Giappone 450 anni, 2003, I, pp. 3-12: 6.

165

Cfr. G. Brancaccio, Le ambascerie giapponesi al papato nel secoli XVI e XVII, op. cit., p. 57.

166 Tokugawa Ieyasu governò con il titolo di shōgun e trasferì la capitale a Edo.

167 G. Brancaccio, Le ambascerie giapponesi al papato nel secoli XVI e XVII, op. cit., p. 59. Cfr. anche F. Maraini, La

scoperta del Giappone in Italia, in Italia-Giappone 450 anni, 2003, I, pp. 3-12: 6.

168 G. Pittau S.I., Il missionariato cattolico e i grandi missionari bresciani in Giappone, op. cit., p. 43. 169

F. Carletti, Ragionamenti del mio viaggio intorno al mondo, op. cit., p. 94. Su F. Carletti v. anche J. Ruiz De Medina S.I., Il contributo degli italiani alla missione in Giappone nei secoli XVI e XVII, in “La civiltà cattolica”, anno 141, n. 3353, 3 marzo 1990, pp. 435-448:440-442 e F. Maraini, La scoperta del Giappone in Italia, in Italia-Giappone 450 anni, a cura di A.Tamburello, 2003, I, pp. 3-12: 7-8.

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Ragionamenti del mio viaggio intorno al mondo171, fu un altro canale attraverso cui si poté accedere in Italia alla conoscenza dell’abbigliamento giapponese.

Riportiamo ora quanto scrisse il Carletti.

“Il vestito più ordinario delli uomini è come quello delle donne, fatto quasi a un medesimo modo. Lo variano solo secondo l’età: lungo alla turchesca, ma senza guarnitione e senza bottoni; si soprapone l’una banda della veste all’altra, come una zimarra che si porta per casa, con maniche lunghe insino a mezzo braccio; e la portano sopra la carne, senza altra camicia, e se la legano con un cordone di seta ripieno di bambagia alla cintura. Ma le donne fanno questa legatura molto più bassa, e lenta, e quanto più nobile sono, tanto più basso cingono il detto cordone, che li casca infino sopra le coscie in foggia tanto sconcia che a gran pena possono camminare; e in cambio d’alzar li piedi sempre li strascicano, sì come ancora fanno gli uomini, li quali s’involgono le parti vergognose con qualche panno di bambagia, e il simile fanno le donne subito che arrivano all’età di dodece o quatordece anni, e con un panno bianco s’avolgono il corpo dalla cintura in giù sino al ginocchio.

Le donne sono assai belle, e bianche ragionevolmente, ma però con gli occhi piccolissimi, che infra di loro si stimano più belli che li grandi; inoltre hanno i denti neri, fatti con arte d’una vernice come inchiostro, che le fanno parere di bocche stravaganti, e il simile fanno li uomini nobili subito che sono di età di 15 o 16 anni, e le donne quando sono da marito. Si tingono ancora li capelli, pure di nero morato, che stimano più vaghi che se fossero biondi: tutto incontrario a noi, che vogliamo denti bianchi d’avorio e capelli d’oro come cantano i poeti.

Vestono di drappi di seta di diversi colori dipinti, come si dipinge tra noi le sargie172 o simili sorte de panni; quelle de’ poveri communemente sono di tela di bambagia, pure dipinta di colore azzurro, rosso e nero. E nel bruno173 per morte de loro parenti usano vestire di bianco. Usano imbottire queste loro vesti di bambagia soda mescolata con una certa sorte di lanugine che pare seta, quale è molto a proposito per tener caldo d’inverno, il quale in questo paese non è meno pieno di pioggie, neve e diacci che si sia infra di noi; sicome io per sperienza provai quando stetti in Nangasachi”.174

Oltre ad un’efficace descrizione degli indumenti maschili e femminili nelle loro linee essenziali, ritroviamo la notazione – che già abbiamo evidenziato nella Relationi scritta da Guido Gualtieri nel 1586 sulla prima ambasceria giapponese in Italia del 1585 – relativa alla mollezza degli abiti femminili, cinti da un cordone tanto largo “che li casca infino sopra le coscie”.

Altri due dettagli già menzionati nelle fonti finora citate catturarono l’attenzione anche del Carletti: la vivacità dei colori delle vesti seriche (“Vestono di drappi di seta di diversi colori dipinti, come si

dipinge tra noi le sargie”) e l’usanza invernale di “imbottire queste loro vesti di bambagia soda mescolata con una certa sorte di lanugine che pare seta”.

171 Ivi, pp. XX-XXI.

172 Stoffe leggere a colori vivaci. 173

Lutto.

174 F. Carletti, Ragionamenti del mio viaggio intorno al mondo, op. cit., pp. 110-111. Questo brano è stato pubblicato (in

inglese) anche in They came to Japan. An Anthology of European Reports on Japan, 1543-1640, edited by M. Cooper, 1965, pp. 207-208.

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Inoltre il Carletti, oltre a menzionare l’usanza di confezionare abiti in pelle175, descrisse meticolosamente anche le acconciature degli uomini176 e le calzature giapponesi:

“Vi vanno sempre scalzi con calcettoni o borzacchini [stivaletti, n. d. r.] di cuoio di caprio, che calzano come guanti, aperti fra li dua dita più grossi de’ piedi, quali usano portare tanto l’uomini che le donne insino a mezza gamba. Quando entrano per le stanza lassano sempre le scarpe alla porta di casa, se sono forestieri, e li padroni le lasciano agli usci delle loro sale o camere e nell’anditi. Le scarpe sono fatte solo di una suola di filo di paglia attortigliata insieme, o vero di cuoio, con un legacciuolo appiccato alli estremi delle due bande della detta suola, che viene sopra il piede, e ancora vi è un altro filo che si congiunge con il predetto, appiccato alla punta della suola un poco indrento, nel quale entra l’apertura delli due dita grossi del piede; et così tengono quella scarpa o suola ferma nel piede, e volendo lassarla basta alzare un poco il calcagno e scuotere il piede, che subito esce, ed è necessario che sieno così, perché oltre a che non caminano [sic] mai con esse per casa usano anche cavarsele per le strade, quando s’incontrano in qualche personaggio o forestiero a che devino o vogliano fare onore: come intervenne a me, che stando a sedere sopra un ponte fuori delle città per mio diporto, passando per quivi un contadino ed essendomi già vicino, incominciò a sbattere li piedi tanto che le uscirno le scarpe, le quali prese con una mano, e con il corpo alquanto chino passò dicendo “Guminari” ciò è perdonatemi.”177

I Ragionamenti del Carletti sono interessanti non solo per la descrizione degli abiti giapponesi, ma anche per le impressioni su quel popolo annotate dal mercante fiorentino.

Anch’egli ad esempio – così come prima di lui aveva fatto Guido Gualtieri nella sua Relationi della

venuta de gli ambasciatori giaponesi à Roma, sino alla partita di Lisbona, con una descrittione del lor Paese, e costumi, e con le accoglienza fatte loro da tutti i Prencipi Christiani, per dove sono

175 F. Carletti, Ragionamenti del mio viaggio intorno al mondo, op. cit., p. 114: “Cavano ancora grandissimo numero di

pelle di caprio, chiamate da loro “sicino cava” ch’è come dicessimo caprio pelle; le quali pelle acconciano curiosamente e vi dipingono sopra con vario disegno diversi lavori d’animali e altro, artifitiosamente, e li fanno con fumo di paglia di riso, che dà il colore a tutta la pelle, eccetto a quella parte che viene coperta dalla forma de’ lavori, li quali restano impressi e delineati nel bianco della pelle non affumicata. Se ne fanno vestiti alla loro usanza e ancora selle da cavalli molto vistose, e fra li Spagnoli servono per fare colletti molto leggiadri”.

176 Ivi, p. 113: “Gli uomini ancora loro usano custodirsi li capelli del capo invece della barba, che pochi hanno, li quali

portano alquanto lunghi con quelli delle tempie dal mezzo del capo in giù verso la collottola, legati di dietro acconciatamente, che pare uno spennacchino, spuntando le cime di detti capelli, le quali ogni mattina pettinano e rilegano, con molta curiosità lisciandoli e ungendoli perché lustrino. E se qualch’uno toccasse quel ciuffetto che portano legato insieme di dietro presso alla collottola, sarebbe un’ingiuria come se fra di noi ci fosse tocco la barba per dispetto. Il restante del capo sino alla fronte è tutto raso, e senza portare né cappello né altro, mentre sono giovani se ne vanno a quella guisa al sole la state e alla neve e freddi il verno, portando sempre in mano una rosta [in nota: sorta di ventaglio] o ventaglio di questi da donna, che si serrano e aprono per farsi vento e per ripararsi il sole quando vanno fuora, se bene molti usano portare un ombrello che li diffende ancora, bisognando, dalla pioggia; ma quando sono già vecchi portano certi berrettini in capo a foggia di sacchetti, quali imbottiscono con bambagia, mescolata con certi stracci, che fanno de’ bozzoli molto grandi, che paiono di seta; li quali nascono o per dir meglio son fatti da certa sorte di bachi simili a quelli che fanno la seta per la campagna, e trovansi già sfarfallati. Questi tengono molto caldo, per essere cosa morbida e bambagiosa, ma di poco nerbo; e uno di questi bozzoli serve a fare un berrettino, tanto sono grandi”.

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passati raccolte da Guido Gualtieri del 1586 – sottolineò il frequentissimo contrasto tra le

consuetudini dei giapponesi e quelle degli italiani178.

Le sue osservazioni risultano quantomai profonde dal momento che fu il primo, tra coloro che scrissero del Giappone, a cogliere la complessità di quel Paese. Infatti, pur evidenziandone la fertilità delle terre179, l’avanzato grado di civiltà e la cultura, citò anche la violenza insita in quella società180 e la crudeltà lì assunta a norma del vivere quotidiano181, arrivando ad affermare che i giapponesi uccidevano gli esseri umani come “noi terremmo d’ammazzare delle mosche”182.

In sintesi, come evidenziato da Paolo Collo, “il Giappone descritto da Carletti è un Paese bifronte”183. Alle stesse conclusioni sarebbero arrivati, nel corso del XX secolo, anche altri studiosi occidentali. Ad esempio l’antropologa americana Ruth Benedict, nel suo saggio del 1946 Il

Crisantemo e la spada, individuò nel crisantemo e nella spada i simboli delle due anime contrastanti

della cultura giapponese: il crisantemo rappresentava il culto del Giappone per la grazia e l’ascetismo, mentre la spada simboleggiava l’anima violenta del Giappone.