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LE RELAZIONI COMMERCIALI, DIPLOMATICHE E CULTURALI TRA ITALIA E GIAPPONE

IL GIAPPONISMO NELLA MODA ITALIANA (1859-1926)

1. LE RELAZIONI COMMERCIALI, DIPLOMATICHE E CULTURALI TRA ITALIA E GIAPPONE

Il ruolo importante dei “semai” nella ripresa delle relazioni tra Italia e Giappone

Nel 1853 una squadra di quattro navi statunitensi, agli ordini del commodoro Perry, fece il suo ingresso nelle acque giapponesi, latrice di una lettera del presidente americano Fillmore allo

shōgun. La missiva conteneva la richiesta dell’instaurazione di rapporti diplomatici e della

riapertura di alcuni porti giapponesi1. Gli Stati Uniti consideravano infatti il Giappone un nodo nevralgico nell’espansione dei loro traffici commerciali.

La classe politica giapponese fu inizialmente propensa a difendere le proprie scelte isolazionistiche ma, resasi conto dell’indubbia superiorità militare degli Stati Uniti – che avevano intenzionalmente schierato le loro navi irte di cannoni –2, in breve optò invece per la riapertura del Giappone, nel timore che il mantenimento del sakoku potesse minacciare l’indipendenza del Giappone3.

L’anno successivo le richieste degli americani furono parzialmente ratificate con il ‘Trattato di Kanagawa’ che “segnò l’inizio dello sfaldamento della politica del sakoku, proiettando il Giappone verso una progressiva, rapida e completa riapertura (kaikoku) al mondo esterno”4. Nel 1858 il

kaikoku proseguì con la stipula del ‘Trattato di amicizia e di Commercio’ con gli Stati Uniti, cui

seguirono analoghi trattati con Olanda, Russia, Gran Bretagna e Francia5.

Anche l’Italia, nel 1866, sottoscrisse con il Giappone il primo ‘Trattato di Commercio e Amicizia’. Lo firmò a Yokohama Vittorio Arminjon, comandante della corvetta Magenta, su incarico del ministro degli esteri italiano Visconti Venosta6.

L’ufficializzazione delle relazioni commerciali tra Italia e Giappone era stata sollecitata da alcuni imprenditori italiani che si erano recati in Giappone sin dal 18597. La tempestiva presenza italiana in Giappone, a soli quattro anni dalla riapertura delle sue frontiere, si spiega con il fatto che in Italia, nel 1854, si era diffusa la pebrina, una malattia epidemica proveniente dalla Francia che, causando la morte del baco da seta, aveva provocato danni gravissimi alla produzione serica

1

P. Beonio-Brocchieri, Storia del Giappone, op. cit., p. 95.

2 Cfr. H. Honour, L’arte della cineseria. Immagine del Catai, op. cit., p. 247. 3 Cfr. F. Gatti, La fabbrica dei samurai, 2000, p. 12.

4 R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, op. cit., p. 131. Cfr. anche Cfr. H. Honour, L’arte della cineseria. Immagine

del Catai, op. cit., p. 247.

5 Tali trattati furono definiti “ineguali” dai giapponesi, poiché contenevano clausole che ponevano il Giappone in una

condizione di subalternità rispetto alla controparte occidentale. Cfr. idem, pp. 133-134.

6

Cfr. A. Tamburello, L’apertura delle relazioni ufficiali, in Italia-Giappone 450 anni, op. cit., I, pp. 85-87:85.

7

Ivi, p. 85. Ma secondo lo storico Claudio Zanier i primi italiani connessi al mondo della seta ad aver concretamente operato in Giappone dovrebbero essere giunti in quel Paese nel 1861-62. Cfr. C. Zanier, Ricchezze e splendori di un mondo fluttuante. Setaioli italiani in Giappone dal 1863 al 1880, in Italia-Giappone 450 anni, 2003, I, pp. 89-104: 102, nota 24.

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italiana, fino ad allora molto fiorente soprattutto in Lombardia8. Pertanto si era reso necessario il reperimento di uova di baco da seta (il cosiddetto seme-bachi) in aree non contaminate dalla pebrina. Poiché l’epidemia si diffondeva a macchia d’olio, allevatori e imprenditori furono costretti a spingersi sempre più lontano alla ricerca di uova di baco da seta sane9. Per queste ragioni i commercianti italiani di seme-bachi, allora chiamati “semai”, giunsero fino in Giappone, dove avevano saputo dai colleghi francesi che vi era la possibilità di acquistare seme-bachi di ottima qualità a basso costo10.

Ma il governo giapponese rendeva difficile l’attività mercantile ai sudditi dei Paesi che non avevano stipulato un regolare trattato di commercio. Ciò spiega l’insistenza con cui i semai chiesero al governo italiano la stipula del trattato.

Si stima che tra il 1863 e il 1880, che fu il periodo di massima importazione di seme-bachi dal Giappone in Italia, il numero dei semai italiani attivi ogni anno a Yokohama oscillò tra un minimo di dodici persone e un massimo di oltre quaranta11. Molti di loro vi ritornavano ogni anno, poiché i bachi, una volta giunti in Italia, nel giro di un anno si ammalavano, rendendo necessarie nuove massicce importazioni12.

L’attività commerciale dei semai in Giappone ebbe importanti risvolti culturali. Essi infatti contribuirono ad un sostanziale miglioramento della conoscenza del Giappone in Italia sia mediante i resoconti dei loro viaggi, sia attraverso l’importazione di oggetti giapponesi in Italia, che comprendevano anche tessuti e abiti.

Mentre la maggior parte delle memorie scritte dai semai a proposito dei loro soggiorni in Giappone è costituita da scritture private, destinate perlopiù ai familiari13, altre invece furono pubblicate con intento divulgativo. È il caso di due volumi scritti dal semaio piemontese Pietro Savio e contenenti le relazioni di due spedizioni da lui effettuate (nel 1869 e nel 1874) nelle zone sericole interne del Giappone14. Le due opere riscossero successo non solo fra gli interessati all’allevamento del baco da seta, ma anche fra chi cominciava ad appassionarsi al Giappone. Contenevano infatti diverse incisioni che illustravano alcuni aspetti della vita in Giappone, compreso l’abbigliamento15 (FIG.

1).

8

Cfr. C. Zanier, Ricchezze e splendori di un mondo fluttuante…, op. cit., p. 89.

9 Ivi, p. 90.

10 Sull’attività dei semai in Giappone cfr. C. Zanier, Semai. Setaioli italiani in Giappone (1861-1880). “interpretare e

comunicare senza tradurre”, 2006. Cfr. anche R. Ugolini, I rapporti tra Italia e Giappone nell’età Meiji, in Lo stato liberale italiano e l’età Meiji, 1987, pp. 131-173: 132-134.

11

C. Zanier, Ricchezze e splendori di un mondo fluttuante..., op. cit., p. 93.

12 Ivi, p. 90.

13 Cfr. ad esempio il diario scritto dal semaio bresciano Pompeo Mazzocchi (1829-1915), recentemente pubblicato per

la prima volta: Il diario di Pompeo Mazzocchi (1829-1915), a cura di C. Zanier, 2003.

14 Su Pietro Savio cfr. T. Ciapparoni La Rocca, Pietro Savio, in Italia-Giappone 450 anni, 2003, I, p. 108 e C. Zanier,

Semai. Setaioli italiani in Giappone (1861-1880), op. cit., pp. 383-386. Il primo libro, pubblicato nel 1870 e intitolato La prima spedizione italiana nell’interno del Giappone e nei centri sericoli effettuatasi nel mese di giugno dell’anno 1869 da sua eccellenza il Conte De la Tour, era la relazione di un viaggio che il Savio aveva compiuto nelle zone sericole interne del Giappone insieme all’ambasciatore italiano in Giappone De la Tour. Il secondo libro, pubblicato nel 1875, si intitolava Il Giappone al giorno d’oggi. Viaggio nell’isola e nei centri sericoli eseguito nell’anno 1874 da Pietro Savio ed era il resoconto di una spedizione compiuta nel 1874 dal Savio in altri distretti sericoli interni del Giappone.

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FIG. 1. “Intrecciatrici di cartoni di seta”. L’illustrazione venne pubblicata nel volume di Pietro Savio La prima spedizione italiana nell’interno del Giappone e nei centri sericoli

effettuatasi nel mese di giugno dell’anno 1869 da sua eccellenza il Conte De la Tour del 187016

A latere rispetto alla loro principale occupazione, molti semai si cimentarono anche nell’attività di

import-export, nel senso che importarono in Giappone prodotti alimentari italiani quali vino, pasta e formaggi, ed esportarono da quel Paese oggetti d’arte che furono molto apprezzati in Italia. Tali oggetti, definiti allora genericamente “curiosità”, comprendevano lacche, avori, porcellane, bronzi, dipinti e paraventi, ma anche capi d’abbigliamento e accessori quali ventagli e foulards17 .

Quest’ultima informazione è quantomai interessante ai fini della presente ricerca, perché ci informa dell’arrivo in Italia di vestiti e accessori provenienti direttamente dal Giappone.

Ad esempio il semaio bresciano Pompeo Mazzocchi (1829-1915), che in Giappone si recò ben 15 volte tra il 1864 e il 188018, da quel Paese portò con sé almeno un kimono per sua moglie. Lo dimostra il ritratto su carta realizzato da un artista giapponese e desunto da una fotografia scattata in Italia. Vi è raffigurata la moglie del Mazzocchi con indosso un elegante completo costituito da un kimono verde chiaro fermato da un’alta obi verde scuro, la cui tonalità è ripresa dalla sopravveste decorata con motivi floreali e con un orlo (fuki) rosso19 (FIG. 2) .

16

L’incisione è stata riprodotta in C. Zanier, Ricchezze e splendori di un mondo fluttuante.., op. cit., p. 91.

17 C. Zanier, Semai. Setaioli italiani in Giappone (1861-1880), op. cit., pp. 248-254. 18 C. Zanier, Ricchezze e splendori di un mondo fluttuante.., op. cit., p. 99.

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FIG. 2. Atelier Yauchi-sha di Yokohama. Ritratto di Vittoria Almici Mazzocchi, moglie del semaio Pompeo Mazzocchi, con indosso un completo giapponese, 1880. Fondazione Pompeo e Cesare Mazzocchi, Coccaglio20.

Il Mazzocchi divenne un discreto collezionista di curiosità orientali che raccolse nella propria casa21. L’assidua frequentazione con il Giappone, unita ad un crescente interesse per l’arte nipponica, indusse anche altri semai – la maggior parte dei quali apparteneva all’alta borghesia lombarda e possedeva un buon livello di istruzione - a collezionare nelle proprie abitazioni mobili, porcellane e dipinti giapponesi22. Alcune di queste collezioni contenevano oggetti di grande valore e concorsero alla diffusione di un gusto japonisant in Italia23.

20 Il dipinto è stato pubblicato in Il diario di Pompeo Mazzocchi (1829-1915), op. cit., p. 8, n. 3 e (parzialmente) in C.

Zanier, Semai. Setaioli italiani in Giappone (1861-1880), op. cit., p. 161, fig. 47.

21 C. Zanier, Semai. Setaioli italiani in Giappone (1861-1880), op. cit., p. 250. 22 Ivi, pp.250-253.

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Comunque, per ritornare a Pompeo Mazzocchi, lo storico Claudio Zanier non ha escluso che, oltre a importare sistematicamente oggetti giapponesi per sé, egli abbia acquistato anche per commissione d’altri24.

Nel 1875 tessuti e vestiti giapponesi e cinesi furono importati dal semaio Pietro Bertone di Mondovì “per l’ill.mo guardaroba di S. M. il Re d’Italia”25. Il fatto che per quest’acquisto fosse stata impiegata l’ingente somma di 1.491,60 lire induce a ritenere che gli indumenti non fossero trascurabili né per qualità, né per quantità. In ogni caso, la notizia ci informa dell’interesse della Casa Reale italiana per le stoffe giapponesi, seppur mescolate con quelle cinesi. Tale interesse è confermato anche nel passo di una lettera della regina Margherita, che il 28 dicembre 1884 scriveva alla sua amica veneziana contessa Adriana Marcello Zon: “Ho avuto in dono dal Re uno splendido paravento giapponese (un vero sogno delle Mille e una notte!)”26

Alcuni semai aprirono nelle loro città di origine degli empori dove vendevano “novità giapponesi” quali lacche, mobili, porcellane, foulards, ventagli e forse anche kimono. Così fece ad esempio nel 1874 il semaio Giovanni Locatelli di Lecco27. Certo la comparsa di empori di tal genere contribuì alla conoscenza dei manufatti e dei tessuti giapponesi anche in zone periferiche della nostra penisola.

Le relazioni dei viaggiatori italiani in Giappone nella seconda metà dell’Ottocento

Un ruolo importante in tal senso venne svolto anche da altri viaggiatori italiani, che per svariati motivi si recarono in Giappone nella seconda metà dell’Ottocento28. Dall’Italia partirono infatti in quel periodo non solo missioni imprenditoriali e commerciali, ma anche scientifiche e militari. Comandanti ed equipaggi di queste spedizioni tornavano spesso con diari di viaggio e casse di oggetti che costituivano una nuova e preziosa documentazione sul Giappone29.

La più importante di queste spedizioni fu quella, già citata all’inizio di questo capitolo, della corvetta Magenta nel 1866 per l’avvio delle relazioni diplomatiche tra Italia e Giappone30. Sulla

Magenta erano imbarcati anche i naturalisti Filippo de Filippi (1814-1867) ed Enrico Hillyer

24

Ivi, pp. 249-250.

25 Ivi, p. 252.

26 P. P. Trompeo, Le vetrine giapponesi, 1943, p. 175, cit. in M. M. Lamberti, Giapponeserie dannunziane, in La

conoscenza dell’Asia e dell’Africa in Italia nei secc. XVIII-XIX, vol. II, 1985, pp. 295-319: 314, nota 13.

27 C. Zanier, Semai. Setaioli italiani in Giappone (1861-1880), op. cit., p. 252. 28

A. Tamburello, Viaggiatori italiani in Giappone fra secondo Ottocento e primo Novecento, in Italia-Giappone 450 anni, 2003, I, pp. 105-108.

29 Si consideri ad esempio il diario scritto dal giovane militare Giacomo Bove, il quale partecipò ad una spedizione

militare (1872-74) che toccò nel 1873 anche il Giappone. Il diario è stato recentemente trovato e pubblicato dallo storico Paolo Puddinu. Cfr. P. Puddinu, Un viaggiatore italiano in Giappone nel 1873. Il “Giornale particolare” di Giacomo Bove, 1998. Vi sono contenute diverse osservazioni che riflettono l’ammirazione del giovane militare italiano per la gentilezza e l’eleganza dei giapponesi. Cfr. ad es. a p. 147: “Io non saprei dipingere tutta l’eleganza di queste donne del popolo nei loro minimi movimenti vi è nei loro tratti dell’espressione dell’affabilità femminia la più semplice [sic]. In qualunque casa si entri si trova sempre la stessa accoglienza, sempre i medesimi sorrisi, sempre la medesima distinzione, io sono veramente stupefatto e direi quasi che le donne giapponesi hanno il diritto di chiamarci barbari. Io non ho veduto una sola rissa, né ho assistito ad una sola disputa in mezzo alla strada, tutti gli uomini si salutano con lunghi inchini, hanno sempre il sorriso sulle labbra, ed anche quando noi vogliamo essere graziosi siamo imbrogliati in confronto di questi giapponesi che lo fanno per istinto. Per essi un uomo che si abbandona alla collera non è più un uomo”.

30 Di ritorno in Italia, il suo capitano Vittorio Arminjon pubblicò nel 1869 il volume Il Giappone e il viaggio della

80

Giglioli (1845-1909)31. Il De Filippi raccolse durante il viaggio ben dieci casse di “curiosità cinesi e giapponesi” che pervennero a Firenze, al Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, ma che sono andate purtroppo disperse32. Più interessante, ai fini della nostra ricerca, fu la pubblicazione nel 1875 del volume di Enrico Hillyer Giglioli Viaggio intorno al globo della regia pirocorvetta

italiana Magenta negli anni 1865-66-67-6833, poiché vi sono contenute, oltre a notazioni di sincera

ammirazione per l’urbanità e la pulizia del popolo giapponese34 e alle solite considerazioni sul Giappone come un “paese al contrario” rispetto al nostro35, anche dettagliate descrizioni dell’abbigliamento giapponese – definito dal Giglioli “elegante e igienico” – che certo contribuirono ad un miglioramento della conoscenza dei costumi giapponesi in Italia36.

31 R. Gueze, Fonti archivistiche per la storia delle relazioni italo-giapponesi. Elementi di ricerca, in Lo stato liberale

italiano e l’età Meiji, atti del Primo Convegno Italo-Giapponese di Studi Storici (Roma, 23-27 settembre 1985), op. cit., 1987, pp. 191-218: 199.

32 C. Zanier, Semai. Setaioli italiani in Giappone (1861-1880), op. cit., p. 253. Si può parzialmente dedurre il contenuto

delle casse dal resoconto del viaggio scritto da Enrico Hillyer Giglioli, Viaggio intorno al globo della regia pirocorvetta italiana Magenta negli anni 1865-66-67-68, 1875, pp. 394-395: “Le botteghe [giapponesi, n.d.r.] […] contenevano migliaia e migliaia di oggetti laccati di forma e per usi svariatissimi; tavole, scrittoi (europei e indigeni), ciotole, tazze, piatti, vassoi, guantiere e scatole [..]; servizi da tavola giapponesi [..]. quasi tutti quegli oggetti erano di qualità detta mediocre, ma sempre bellissimi, anzi molte volte si richiede un minuzioso confronto onde distinguerli dalle lacche più fine. [..] Molti furono gli oggetti di questo genere trasferiti a bordo della Magenta”.

33 E. H. Giglioli, Viaggio intorno al globo della regia pirocorvetta italiana Magenta, op. cit. Recentemente R. Tresoldi

ne ha pubblicato un’antologia. Cfr. E. H. Giglioli, Giappone perduto. Viaggio di un italiano nell'ultimo Giappone feudale. Scelta antologica e introduzione di Roberto Tresoldi, 2013.

34 Si considerino ad esempio i seguenti passaggi: “Come vedremo, ebbimo in seguito mille occasioni di provare la

buona indole veramente eccezionale degli abitanti del Nippon, specialmente quando appartengono alle classi della borghesia, e quando non sono per così dire instecchiti dal minuzioso e pedante cerimoniale ufficiale” (E. Hillyer Giglioli, Viaggio intorno al globo della regia pirocorvetta italiana Magenta negli anni 1865-66-67-68 , op. cit., p. 335); “Quel che ci sorprendeva, lo ripeto, era dappertutto la grande pulizia; i Giapponesi non entrano mai in casa con le scarpe inzaccherate; le lasciano in apposito sito prima di salire sul pavimento coperto di stuoie” (Ivi, p. 339); “Colla pulizia della casa i giapponesi combinano una scrupolosa nettezza del corpo” (Ivi, p. 340).

35 Ivi, pp. 341-342: “ [..] in molte cose il Giappone poteva dirsi il paese dei paradossi e delle anomalie, anche in quelle

più usuali e domestiche; per una legge occulta i Giapponesi sembravano tratti, in moltissimi casi, in un senso affatto opposto a quello che noi abbiamo l’abitudine di credere il migliore e il più razionale: essi scrivono dall’alto in basso, da destra a sinistra, in linee perpendicolari invece di orizzontali; i loro libri incominciano ove i nostri hanno fine; le loro serrature [..] erano tutte costruite in modo che si chiudevano girando la chiave da sinistra a destra; in quel paese ho veduto gli adulti e i vecchi far volare gli aquiloni, mentre i ragazzi rimanevano spettatori; il falegname giapponese adopera la sua pialla tirandola verso di sé, ed il sarto cuce in fuori; [..] le signore del Nippon annerivano invece di conservare bianchi i loro denti; e potrei continuare [..]”.

36 Ivi, p. 505. “Poche parole aggiungerò sul vestiario giapponese, che era per così dire basato sopra l’abito nazionale, il

kirimon, paragonabile a una veste di camera a larghe maniche, che si chiude con una cintola più o meno larga. Il kirimon vestiva uomini e donne, fanciulli e vegliardi, ricchi e poveri; variava nella relativa lunghezza e nel materiale (cotone, asa o seta), poco nel colore, usualmente azzurro, con righe nere, oppure a quadri o quadretti scuri e chiari; le donne lo portavano assai più lungo; nell’inverno era imbottito con cotone di bambagia di cotone o di seta. [..] Di biancheria poi i Giapponesi non avevano idea; le donne sotto il lungo kirimon che strascicava loro dietro, usavano avere una gonnella di crespo rosso. La cintura (obi) delle donne era un oggetto sempre di lusso: una larga fascia di seta, broccato o velluto, legata con nodo elegantissimi dietro alla schiena; quel nodo serviva poi di sostegno al bambino portato spesso sul dorso. Le donne usavano fasciare assai stretta la parte del kirimon che circondava i lombi e le cosce, e ciò rendeva il loro incesso alquanto imbarazzato [..]. In conclusione l’abito nazionale dei Giapponesi, che datava da varii secoli, giacchè il Gesuita Ginnaro lo descrive quasi come io lo vidi, era per me elegante ed igienico”. Questo brano è stato pubblicato anche in E.H. Giglioli, Giappone perduto. op. cit., pp. 218-219.

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Il positivo sviluppo delle relazioni diplomatiche e culturali tra Italia e Giappone (1869-1896)

Il fatto che i semai italiani fossero benvoluti in Giappone, sia per le loro eccellenti competenze tecniche37, sia per l’enorme volume dei loro affari, di gran lunga superiore a quello dei loro colleghi europei 38, agevolò senz’altro lo sviluppo positivo delle relazioni diplomatiche tra Italia e Giappone. Ciò è confermato dal fatto che nel 1869 l’ambasciatore italiano in Giappone, conte Vittorio Sallier De la Tour, fu il primo diplomatico occidentale ad essere ricevuto dall’imperatore giapponese per presentare le credenziali, con disappunto dei funzionari americani e francesi39.

Un ulteriore passo in avanti nel consolidamento delle relazioni tra i due Paesi fu rappresentato dalla cosiddetta “Missione Iwakura”, che prese il nome da Iwakura Tomomi, l’ambasciatore plenipotenziario che la guidava. Faceva parte della missione una delegazione di alti funzionari del governo giapponese, che viaggiarono per l’Europa tra il 1871 e il 1873 con l’intento di consolidare i rapporti istituzionali con le potenze occidentali e di studiarne i sistemi amministrativi, scolastici e industriali40. Nel 1873 la missione Iwakura fece sosta in Italia per quasi un mese. I suoi membri furono impressionati molto favorevolmente sia dalla calda accoglienza a loro riservata da parte delle autorità locali, sia dalla bellezza dell’arte italiana41.

Secondo lo storico Romano Ugolini, la Missione Iwakura segnò l’inizio del periodo aureo delle relazioni italo-giapponesi, che si sarebbe concluso nel 189642.

In seguito ai resoconti entusiastici sull’Italia da parte della missione Iwakura e in virtù degli eccellenti rapporti diplomatici che legavano in quegli anni l’Italia al Giappone, il governo giapponese - che dal 1868 aveva avviato un programma di progressiva occidentalizzazione di ogni settore della vita politica, economica e culturale del Paese - invitò in Giappone diversi esperti italiani43.

Nel 1875 giunse a Tokyo l’incisore genovese Edoardo Chiossone per dirigere il Nuovo Istituto Poligrafico del Ministero delle Finanze giapponese, impegnato allora nella stampa delle prime banconote 44. Nel 1876 furono assunti invece alcuni artisti italiani per insegnare presso la Scuola Tecnica di Belle Arti di Tokyo: ad Antonio Fontanesi venne affidata la cattedra di Pittura, allo scultore palermitano Vincenzo Ragusa quella di Scultura e a Vincenzo Cappelletti quella di

37

C. Zanier, Ricchezze e splendori di un mondo fluttuante.., op. cit., p. 93.

38 Ivi, p. 92: quattro quinti e più del seme-bachi esportato dal Giappone aveva come destinazione finale l’Italia. I semai

italiani spesero in Giappone “l’ingente somma di due milioni di dollari” per l’acquisto di uova di baco da seta. Cfr. R. Ugolini, I rapporti tra Italia e Giappone nell’età Meiji, op. cit., p. 138.