IL GIAPPONISMO NELLA MODA ITALIANA (1859-1926)
2. IL GIAPPONISMO IN EUROPA E IN ITALIA
Cenni sul giapponismo
Una conseguenza immediata della riapertura del Giappone alle relazioni internazionali nella metà dell’Ottocento fu lo spiccato interesse dimostrato in Europa e in Italia per la cultura e l’arte giapponesi, tanto che nel 1872 il critico d’arte francese Philippe Burty coniò il neologismo “japonisme” – tradotto in italiano con il termine “giapponismo” - per designare la nuova e dilagante passione per il Giappone.
Come ha sottolineato lo storico dell’arte Giovanni Peternolli, a differenza della cineseria, “il giapponismo ha inciso a livello sia formale sia contenutistico sui più svariati settori artistici, dalla pittura, alla grafica, dalla ceramica alla lavorazione dei metalli, della lacca, dei tessuti, dall’arredamento all’architettura e al giardinaggio”54.
Le Esposizioni Internazionali dell’epoca svolsero un ruolo importante nella diffusione della conoscenza della cultura giapponese. Enorme successo riscossero infatti le sezioni giapponesi delle Esposizioni Internazionali di Londra (nel 1862), Parigi (nel 1867, 1878 e 1900)55, Venezia (nel 1897)56 e Torino (nel 1902)57.
Diversi artisti francesi e inglesi furono influenzati dall’arte giapponese58. Forse il dipinto che meglio rappresenta la nuova moda per il Giappone in Francia è la tela di Claude Monet La
giapponese (1876), in cui il pittore ritrasse la moglie con indosso un vivace okaidori59 rosso, su uno sfondo di ventagli giapponesi (FIG. 3).
54 G. Peternolli, Appunti sul giapponismo, in Riflessi del Sol Levante. Arte xilografica giapponese dei secc. XVIII-XX.
Per celebrare i dieci anni di attività del Centro Studi d’Arte Estremo Orientale di Bologna, catalogo della mostra a cura di G. Peternolli e E. Kondo (Bologna, Pinacoteca Nazionale, novembre 1998 - gennaio 1999), 1998, pp. 36-41: 33.
55
Si consideri ad esempio l’allarmata constatazione di Victor de Luynes, autore di un rapporto sull’esposizione Universale di Parigi del 1878: “Giapponismo! Attrazione dell’epoca, pazzia sregolata che tutto ha invaso, tutto dominato, tutto disorganizzato nella nostra arte, nella nostra moda, nei nostri gusti e persino nella nostra ragione”. Cfr. de Luynes, Rapport sur la céramique, Paris, 1882, p. 103, cit. in G. Peternolli, Appunti sul giapponismo, op. cit., p. 37.
56 Nel 1897 la seconda Esposizione Internazionale della città di Venezia fece conoscere al pubblico italiano sia l’arte
giapponese antica, sia quella contemporanea (cfr. I. Mononi, L’orientamento di gusto attraverso le Biennali, 1957, pp. 41-43). L’antica venne rappresentata dalla raccolta del mercante d’arte Ernst Seeger, mentre la contemporanea da “una piccola collezione di modernissime opere giapponesi” selezionata dalla “Società degli Artisti Giapponesi” (Cfr. V. Pica, L’arte decorativa all’esposizione di Torino del 1902, 1903, p. 287). Ad esse si affiancarono, tre mesi dopo l’inaugurazione della mostra, una sessantina di dipinti su seta acquistati in Giappone dal conte bresciano Fé d’Ostiani (cfr. M.M. Lamberti, Ambivalenze della divulgazione dell’arte giapponese in Italia: Vittorio Pica, in “Bollettino d’Arte”, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1987, LXXII, serie VI, n. 46, nov.-dic. 1987, pp. 69-78: 74; E. Kondo, Pitture giapponesi a Brescia: vicende della collezione Fé d’Ostiani e di alcune opere appartenute a Mussolini, in “Bollettino d’Arte”, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, luglio – ottobre 1991, pp. 177-192). Sulla presenza dell’arte giapponese all’esposizione di Venezia del 1897 cfr. anche M. Ishii, Venezia e il Giappone. Studi sugli scambi culturali nella seconda metà dell’Ottocento, 2004, pp. 75-116.
57 In quell’occasione, nella sezione giapponese, furono esposti: porcellane, vasi in ceramica e in bronzo, vasi e scatole in
rame smaltato (cloisonné), ventagli degli artisti ventagliatori di Kyoto, paraventi, quadri ricamati, lacche, cestelli e panieri, tappeti, stuoie, stampe ed incisioni. Cfr. M. Fagioli, La presenza del Giappone all’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna in Torino 1902, 1994, pp. 369-371 e M. Picone Petrusa, 1902. Torino. Prima Esposizione internazionale d’Arte decorativa moderna, in M. Picone Petrusa, M. R. Pessolano, A. Bianco, Le grandi esposizioni in Italia 1861 – 1911, 1988, pp. 108-113.
58 Cfr. H. Honour, L’arte della cineseria. Immagine del Catai, op. cit., pp. 248-263 e S. Wichmann, Japonisme. The
Japanese Influence on Western Art in the 19th and 20th Centuries, op. cit., pp. 23-73.
84
FIG. 3. Claude Monet, La giapponese, 1876. Boston, Museum of Fine Arts.
Nel 1884 lo scrittore francese Edmond De Goncourt scrisse nel suo Journal che “[..] tutto l’impressionismo [...] è dovuto alla contemplazione e all’imitazione delle stampe luminose del Giappone”60. Analogamente Vincent Van Gogh, il quale aveva scoperto l’arte nipponica proprio a Parigi nel 1886, giunse a dichiarare: “La mia opera intera si basa per così dire sul Giappone”61. Un riferimento sarcastico alla ‘nippomania’ che imperversava in Francia, si trova nella pièce Francillon scritta nel 1887 da Alexandre Dumas figlio, ove si dice che “tutto è giapponese, oggi”62.
Tratti principali del giapponismo italiano
Anche in Italia molti intellettuali registrarono la diffusa moda per il Giappone, che si affermò nel nostro Paese intorno agli anni Ottanta dell’Ottocento, raggiunse il suo acme in concomitanza con la guerra russo-giapponese del 1904-5 e scemò progressivamente fino a scomparire durante gli anni Venti63.
60 Cit. in G. Peternolli, Appunti sul giapponismo, op. cit., p. 32.
61 F. Erpel, Vincent van Gogh, Sämtliche Briefe, vol. IV, 1965, pp. 94-95, cit. in S. Wichmann, Giapponismo. Oriente –
Europa: Contatti nell’arte del XIX e XX secolo, 1989, p. 9.
62 “«Signorina, gradirei la ricetta dell’insalata che abbiamo mangiato stasera. Mi dicono che sia una vostra creazione».
« L’insalata giapponese?». «È giapponese?». «Io la chiamo così». «Perché?» «Per darle un nome: tutto è giapponese, oggi»”. Cit. in H. Honour, L’arte della cineseria. Immagine del Catai, op. cit., p. 244.
63 Cfr. quanto scritto da M. H. Cantone nell’articolo Le estreme orientali. Il nudo al Giappone comparso su “La scena
illustrata”, XLIX, n. 1, 1 gennaio 1913, p. 22: “Siamo ben lungi dal tempo in cui Pierre Loti [..] si faceva un nome con la pubblicazione di [..] Madame Chrisanthème e Japoneries d’Automne. Oh quanto allora il Giappone era lontano da
85
Il letterato e filosofo Rodolfo Giani, in un articolo comparso nel 1896 sulla rivista “Emporium”, scrisse che in Italia
“Adesso il Giappone, dopo le vittorie strepitose sulla Cina, è diventato di moda, e in letteratura già da un decennio il pubblico legge avido di curiosità i delicati romanzi di Pierre Loti, e i gingilli giapponesi da assai tempo ornano e ingombrano i salotti delle signore, e perfino i più comuni prodotti dell’industria giapponese, i ventagli, gli ombrellini etc. corrono per le mani del popolino, e non più le imitazioni, ma vera merce dell’Impero del Sole, tanto il costo ne è diventato tenue, dopo l’apertura dei mercati dell’Estremo Oriente” 64.
Persino i detrattori della moda giapponese in Italia non poterono fare a meno di riconoscerne l’ampia diffusione. E’ il caso, per esempio, di Ugo Ojetti, che nel criticare l’entusiasmo per l’esotismo estremo-orientale, ne diventò un attento cronista, quando scrisse, nel 1910:
“Fu un delirio: illustrazioni di libri, manifesti murali, testate di giornali, copertine di romanzi, mode femminili, decorazioni di intere sale, tutto parve uscir dai ventagli e dai paraventi e dalle false lacche dei bazar giapponesi di Napoli e di Roma. E pittori di ventagli, spesso come il Dalbono squisiti di brio, sorsero in ogni angolo d’Italia, schiavi del Giappone in nome della libertà”65.
In effetti, a differenza di quanto era avvenuto nel Settecento, quando le chinoiseries erano rimaste chiuse nelle stanze di un mondo aristocratico e appartato, il giapponismo conobbe sia le manifestazioni elitarie degli studi condotti da un ristretto numero di specialisti66, sia una fruizione più popolare attraverso le esposizioni internazionali, le rappresentazioni teatrali e la diffusione delle “giapponeserie”, che erano oggetti di origine giapponese o anche imitazioni di scarso valore67. Il fenomeno del giapponismo italiano, relegato fino agli anni Novanta del secolo scorso ad una manifestazione culturale di poco conto importata dalla Francia68, è stato recentemente rivalutato in occasione della mostra Giapponismo, svoltasi a Firenze nel 201269.
In ambito artistico, diversi pittori italiani recepirono gli aspetti tematici e formali dell’arte giapponese70. Fra tutti spicca Giuseppe De Nittis (1846-1884)71 che, dopo essersi trasferito in Francia, collezionò oggetti giapponesi, tra cui fukusa e kakemono72.
noi!. […] Veramente, allora, il Giappone si avvolgeva nella luce stessa ed unica di tutto l’Estremo Oriente. Era per noi il regno del lontano, del nostalgico […]. Noi non facevamo distinzioni. E, pur facendo differire geograficamente la Cina dal Giappone, li avvolgevamo nella stessa sensazione di sogno. […] Poi fu l’esposizione universale di Parigi. E le distinzioni si presentarono con nettezza, si precisarono. […] Bruscamente il Giappone perdette il suo mistero d’idolo lontano, avvolto nella seta magica e smagliante del sole…La guerra russo-giapponese ce lo rese famigliare [..]. Pure, manco a dirlo, il Giappone ci resta sconosciuto, al pari dell’Africa, la Sfinge nera: il Giappone ci resta lontano e ignoto, come una Sfinge bionda”.
64 R. Giani, I grandi letterati contemporanei: i Goncourt, “Emporium”, vol. III, n. 1, gennaio 1896, p. 18.
65 U. Ojetti, Francesco Paolo Michetti, in “Emporium”, n. 192, 1910, p. 414, cit. in M.M. Lamberti, Giapponeserie
dannunziane, op. cit., p. 305.
66 Tra gli eruditi che promossero la diffusione della cultura nipponica in Italia spicca Vittorio Pica, autore nel 1894 del
volume L’arte dell’estremo oriente. La divulgazione dell’arte giapponese venne sostenuta anche dalla raffinata rivista “Emporium”, fondata nel 1895.
67 G. Mori, Impressionismo, Van Gogh e il Giappone, Dossier Art n. 149, 1999, p. 15. Cfr. anche F. Arzeni, L’immagine
e il segno. Il giapponismo nella cultura europea tra Ottocento e Novecento, 1987, p. 29. Cfr. Honour, L’arte della cineseria. Immagine del Catai, op. cit., p. 245: “il Giappone venne ad esercitare sulle arti maggiori e minori d’Europa un’influenza molto più profonda e più vitale di quanto avesse mai fatto la Cina”.
68
R. Monti, Appunti per un equivoco, in Frammenti dall’effimero. Stampe giapponesi dal VII al XX secolo, 1981, pp. 25-28; M. M. Lamberti, Ambivalenze della divulgazione dell’arte giapponese in Italia: Vittorio Pica, op. cit., pp. 69-78.
69 Giapponismo. Suggestioni dell'Estremo Oriente dai Macchiaioli agli anni Trenta, catalogo della mostra (Firenze,
86
Oltre alla pittura e alle arti grafiche, l’arte e l’estetica giapponese influenzarono anche altri ambiti della vita culturale italiana quali la ceramica, l’arredamento, il teatro e persino la floricultura73. Forse la più nota espressione del giapponismo italiano è il dramma “Madama Butterfly”, ambientato in Giappone e musicato da Giacomo Puccini, che esordì al Teatro alla Scala di Milano nel 1904. Prima di Puccini, già altri compositori italiani si erano cimentati con soggetti giapponesi. Ad esempio Pietro Mascagni aveva composto nel 1898 le musiche per l’Iris - dal nome della fanciulla giapponese protagonista del dramma –, dove tuttavia il Giappone “è sostanzialmente una terra di fantasia, un paese di sogno inventato”74. Puccini invece era mosso da un forte intento mimetico e voleva rappresentare, come affermò egli stesso, un “Giappone vero, non Iris”, facendo riferimento ai risultati a suo giudizio deludenti ottenuti dal Mascagni75. Pertanto si documentò meticolosamente sulle musiche originali giapponesi, che introdusse in abbondanza nella partitura76. Analogamente al lavoro svolto dal compositore, anche Giuseppe Palanti, il pittore milanese incaricato di disegnare i costumi per la prima rappresentazione di Madama Butterfly, studiò in modo approfondito le fogge vestimentarie nipponiche. Ciò è evidente nei 73 figurini dove il Palanti dipinse i costumi per tutti i personaggi della tragedia e dove, in diversi casi, riprodusse fedelmente il contemporaneo abbigliamento giapponese77.
Ad esempio, per i costumi di due uomini del coro, il Palanti si ispirò ad un’incisione contenuta nel volume del già citato semaio Pietro Savio La prima spedizione italiana nell’interno del Giappone e
nei centri sericoli effettuatasi nel mese di giugno dell’anno 1869 da sua eccellenza il Conte De la Tour del 1870 (FIG. 4)
70 Sul giapponismo nell’arte italiana cfr. anche R. Boglione, Il japonisme in Italia 1860-1900 – Parte prima, in “Il
Giappone”, XXXVIII, [1998], 2000, pp. 85-113; R. Boglione, Il japonisme in Italia – Parte seconda 1900-1930, in “Il Giappone”, XXXIX, [1999], 2001, pp. 15-47.
71 Sul giapponismo nell’opera del De Nittis cfr. M. Moscatiello, Le japonisme de Giuseppe De Nittis. Un peintre italien
en France à la fin du 19 siècle, 2011.
72
Il fukusa era un pezzo di stoffa usato nella cerimonia del tè e per avvolgere i regali, mentre il kakemono era un rotolo verticale contenente un dipinto o una calligrafia, che veniva appeso alla parete.
73 Cfr. L. Dimitrio, Postille sulla nascita del giapponismo in Italia (I), in “Quaderni asiatici”, n. 67, 2004, pp. 27-56; L.
Dimitrio, Postille sulla nascita del giapponismo in Italia (II), in “Quaderni asiatici”, n. 68, 2004, pp. 9-52 e la sezione sul giapponismo italiano del volume Riflessi. Incontri ad arte tra Oriente e Occidente, catalogo della mostra (Milano Museo Pime, 2009), 2009, pp. 100-147.
74
Dizionario dell’opera, a cura di P. Galli, 1996, p. 647.
75 L’affermazione esprimeva l’intenzione, da parte di Puccini, di superare la debole mimesi esotica raggiunta a suo
parere dal Mascagni nel dramma Iris. Cfr. A. Groos, Da Sada Yacco a Cio-Cio-San: il teatro musicale giapponese e Madama Butterfly, in Madama Butterfly, programma di sala, Teatro alla Scala, stagione 2001-2002, 2001, p. 89.
76 Sulla presenza di melodie giapponesi nella partitura di Madama Butterfly cfr. M. Carner, Esotismo e colore locale
nell’opera di Puccini, in Esotismo e colore locale nell’opera di Puccini, 1985, pp. 13-36; M. Girardi, Giacomo Puccini. L’arte internazionale di un musicista italiano, 1995, pp. 216-223 e A. Groos, Da Sada Yacco a Cio-Cio-San: il teatro musicale giapponese e Madama Butterfly, op. cit., pp. 89-109.
77 Cfr. L. Dimitrio, I figurini di Giuseppe Palanti per i costumi della prima rappresentazione di Madama Butterfly, in
87
FIG. 4. A sinistra e a destra: due figurini disegnati da Giuseppe Palanti per i costumi della prima rappresentazione di Madama Butterfly, 1904 (Milano, Museo Teatrale alla Scala). Al centro, l’incisione a cui il Palanti si è ispirato, raffigurante due “Interpreti giapponesi” e pubblicata nel volume di Pietro Savio La prima spedizione italiana nell’interno del Giappone e
nei centri sericoli effettuatasi nel mese di giugno dell’anno 1869 da sua eccellenza il Conte De la Tour, pubblicato a Milano nel 1870.
Nei costumi delle donne il Palanti introdusse motivi decorativi ricorrenti nei tessuti giapponesi, come crisantemi (figurino n. 1 per Madama Butterfly, dove l’obi è decorata con disegni di crisantemi gialli FIG. 5.a) e ventagli (figurino n. 28 per “Donna del coro”, FIG. 5.b)78.
Quindi come già era successo nel Settecento per le cineserie - quando il teatro aveva rappresentato “un tramite importante per il passaggio di tracce del gusto esotico al gusto vestimentario europeo”79 – anche durante il giapponismo il teatro costituì un significativo canale di accesso alla conoscenza dei costumi originali giapponesi in Italia.
78 Cfr. Riflessi. Incontri ad arte tra Oriente e Occidente, op. cit., pp. 132-133.
79 G. Butazzi, Incanto e immaginazione per nuove regole vestimentarie: esotismo e moda tra Sei e Settecento, op. cit., p.
88
FIGG. 5.a e 5.b. Giuseppe Palanti, figurini per i costumi della prima rappresentazione di
Madama Butterfly, 1904 (Milano, Museo Teatrale alla Scala). A sinistra, figurino n. 1 con
costume per Madama Butterfly; a destra figurino n. 28 con costume per una corista.
A riprova della capillare moda per il Giappone, si ricorda che nel 1896 il “Corriere della sera” promosse la propria campagna di abbonamenti con un manifesto raffigurante una giapponese con indosso un okaidori (un soprabito da cerimonia per kimono) accanto a degli iris, che sono un motivo iconografico tipicamente giapponese (FIG. 6)80. Inoltre nel 1904 la ditta Liebig, produttrice di estratti di carne, allegò ai suoi preparati una serie di figurine intitolata Scene della vita al
Giappone, ove erano rappresentate ambientazioni giapponesi popolate da donne in kimono (FIG.
7)81.
80 Il manifesto è stato pubblicato per la prima volta in Riflessi. Incontri ad arte tra Oriente e Occidente, op. cit., p. 114. 81 La serie di sei figurine è stata pubblicata ivi, pp. 136-139.
89
FIG. 6. Vespasiano Bignami (attribuito), Manifesto pubblicitario per la campagna di abbonamenti del “Corriere della sera”, 1896. Milano, Civica raccolta delle stampe “Achille Bertarelli”.
90
Le ragioni di un successo
Come è stato ben sottolineato dalla storica della letteratura Flavia Arzeni, “la ragione dell’impatto profondo che l’arte giapponese ha esercitato sulle arti europee [..] sta anche nella coincidenza tra la sua scoperta e un momento di crisi dei valori estetici tradizionali” 82. Tale aspetto è stato evidenziato anche dall’economista Jean Pierre Lehmann, secondo cui con la moda del giapponismo tardo-ottocentesco gli Europei cercarono nel Giappone quei valori che credevano di aver perso o di non aver mai posseduto, come l’essenzialità e un profondo senso estetico83.
Sempre secondo la Arzeni il giapponismo fu “un fenomeno complesso in cui si trovano mescolati insieme aspetti della storia del costume, aspirazioni al rinnovamento di canoni estetici tradizionali, impulsi verso una spiritualità perduta e una confusa nostalgia di esotismo”84.
Le ragioni del successo del Giappone in Europa e in Italia alla fine dell’Ottocento si spiegano anche con il fatto che il Paese del Sol Levante - seppur venisse spesso collocato dall’immaginario collettivo nel calderone di un Oriente dai tratti assai vaghi – era percepito dagli intellettuali come una realtà esotica sui generis, con peculiarità che la rendevano più attraente rispetto ad altre culture orientali.
Anzitutto al Giappone veniva riconosciuto un elevato grado di civiltà e di progresso di gran lunga superiore rispetto a qualunque nazione non europea, comprese l’India e la Cina85. È utile ricordare, a tal proposito, che nel 1904 in Italia venne pubblicato un volume dal titolo significativo Il
Giappone all'avanguardia dell'Estremo Oriente86.
Inoltre, come si è già avuto modo di ricordare all’inizio di questo capitolo, a partire dal 1868 il Giappone, con l’inizio dell’era Meiji, aveva avviato un processo di occidentalizzazione delle proprie strutture politiche, sociali e culturali. L’assimilazione di alcune usanze occidentali comportò anche l’introduzione dell’abbigliamento di foggia europea, in determinate circostanze pubbliche, tra gli uomini e le donne delle classi sociali più elevate, compresa la coppia imperiale (FIG. 8). Tale provvedimento venne promosso con espliciti intenti politici dal Primo Ministro della Casa Imperiale87.
82 Cfr. F. Arzeni, L’immagine e il segno, op. cit., p. 22.
83 J.P. Lehmann, Old and New Japonisme: The Tokugawa Legacy and Modern European Images of Japan, in “Modern
Asian Studies”, vol. 18, n. 4, 1984, pp. 757-768: 762.
84 F. Arzeni, L’immagine e il segno., op. cit., p. 6.
85 J.P. Lehmann, The Image of Japan, op. cit., pp. 46-47. Ad esempio nel 1865 lo scrittore francese Théophile Gautier
sostenne in una recensione che “I giapponesi hanno il sentimento dell’arte; il loro gusto non è chimerico e mostruoso come quello dei cinesi”. Cit. in G. Peternolli, Appunti sul giapponismo, op. cit., p. 41, nota 6.
86 G. Grasso, Il Giappone all'avanguardia dell'Estremo Oriente, 1904.
87 Il Primo Ministro della Casa Imperiale dichiarò infatti che tale provvedimento era stato reso necessario da “questioni
politiche di alto livello”, ovverossia, come ricordato dalla storica Federica Carlotto, “dall’urgenza di dotare il Giappone di un assetto politico e di una struttura sociale tali da garantire al Paese un riconoscimento sul piano internazionale”. Cfr. F. Carlotto, Icona di stile o icona di stato? L’abito occidentale e il ruolo di imperatrice nello stato nazionale Meiji, in Nuove prospettive di ricerca sul Giappone, atti del XXXIV convegno AISTUGIA (Napoli, 16-18 settembre 2010), a cura di G. Amitrano e S. De Maio, 2012, pp. 105-121: 106. Cfr. anche F. Carlotto, Vestirsi d’Occidente. Abbigliamento e identità nel Giappone moderno, 2012.
91
FIG. 8. L’imperatrice Haruko e l’imperatore Mutsuhito con abiti occidentali in due collotipi degli anni Ottanta dell’Ottocento88.
L’occidentalizzazione del Giappone contribuì a farlo percepire in Europa come una nazione meno lontana culturalmente rispetto ad altri paesi asiatici, tanto che nel 1904 lo storico inglese Douglas Sladern arrivò a scrivere che “Japan is no longer the hermit of the East, but the most Western of the nations of the West”89.
In realtà l’accoglienza di istituzioni o costumi stranieri non comportò necessariamente da parte del Giappone una negazione tout-court della propria identità culturale90. Anzi, come ricordato dallo storico Marco Del Bene, in Giappone, a un iniziale periodo di attrazione per la civiltà occidentale seguì “una inevitabile fase di reflusso verso le radici autoctone della cultura giapponese”91. Ma il Giappone venne comunque considerato in Europa un Oriente per certi versi ‘addomesticato’ e in quanto tale, potenzialmente meno sovversivo rispetto ad altre culture orientali.
88 Le immagini sono reperibili all’indirizzo http://www.baxleystamps.com/litho/ogawa/ogawa_cap_p1-1.jpg, ultima
consultazione 17 gennaio 2016.
89 D. Sladern, Queer Things about Japan, London, 1904, cit. in J.P. Lehmann, The Image of Japan., op. cit., p. 20. 90 R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, op. cit., pp. 147-148: “L’occidentalizzazione del Giappone Meiji deve essere
considerata alla luce del fatto che essa non fu un fine, ma uno strumento per realizzare il fukoku kyōhei, trattandosi di un processo in cui l’accoglienza di istituzioni, idee o usanze straniere non implicò necessariamente un rifiuto della tradizione tout cort”.
91 M. Del Bene, Propaganda e rappresentazione dell’altro nel Giappone pre-bellico. Cina e occidente tra manga e