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IL SUCCESSO DELLA CULTURA GIAPPONESE IN ITALIA

IL NEO-GIAPPONISMO NELLA MODA ITALIANA (1970-1999)

1. IL SUCCESSO DELLA CULTURA GIAPPONESE IN ITALIA

Negli anni Settanta e Ottanta il Giappone continuò ad essere protagonista di uno straordinario sviluppo economico e tecnologico1.

Nel 1970 l’Expo che si svolse a Osaka, con i suoi 62 milioni di visitatori e i 680 miliardi di yen di fatturato, decretò il ruolo di leader svolto dal Giappone nell’economia mondiale2. Inoltre nel 1971, per la prima volta nella storia, la coppia imperiale compì un viaggio in Europa, consolidando le relazioni internazionali del Giappone3.

La potenza dell’economia giapponese era ormai indiscussa e anzi iniziò a preoccupare le autorità americane, che misero in atto delle misure protezionistiche per arginare le massicce importazioni dal Giappone. Significativa è a tal proposito la copertina della rivista americana “Time” del maggio 1971 dove, accanto al ritratto del fondatore della giapponese Sony, Akio Morita, compare la scritta: “How to Cope with Japan’s Business Invasion”4 (FIG. 1) .

FIG. 1. Copertina di “Time” del maggio 1971 con il ritratto del fondatore della Sony Akio Morita.

1 A. Tollini, Postfazione, in P. Beonio-Brocchieri, Storia del Giappone, 1996, p. 131, 134-137. 2 J.M. Bouissou, Storia del Giappone contemporaneo, 2003, p. 140.

3 P. Corradini, Il Giappone e la sua storia, 1999, p. 407.

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La forte espansione economica del Giappone si interruppe bruscamente all’inizio degli anni Novanta con lo scoppio della “baburu economi”, ovvero dell’economia della bolla finanziaria5. Tale crisi si manifestò quando fu chiara la fragilità su cui si fondava la vertiginosa crescita economica del Giappone, investito negli anni Ottanta da un’ondata speculativa che aveva comportato un aumento spropositato del valore dei titoli azionari e dei terreni edificabili6. Ma fino ad allora il Giappone venne considerato il Paese del miracolo continuo7 e un modello economico e finanziario. Durante gli anni Ottanta, negli Stati Uniti e in Europa si moltiplicarono le pubblicazioni di volumi che intendevano spiegare il sistema economico nipponico e le ragioni del suo successo8. In Italia non mancarono saggi di studiosi sull’economia nipponica9 e sul diritto economico giapponese10.

Tuttavia l’interesse nei confronti del Giappone non fu affatto circoscritto al solo ambito economico e finanziario11. In Italia la curiosità per la sua cultura e alla sua estetica si manifestò in modo ancora più evidente rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta.

Basti pensare, in ambito cinematografico, al successo del film Kagemusha di Akira Kurosawa nel 1980 che, come vedremo, determinò un’ondata di influenze giapponesi nella moda italiana dell’inizio degli anni Ottanta12.

In ambito letterario, mentre negli anni Settanta vi è stato in Italia uno scarso interesse per la letteratura giapponese, durante gli anni Ottanta è avvenuta la scoperta degli scrittori giapponesi con “ben sessantun titoli nuovi e numerose ristampe”13. Secondo Katō Shūichi, uno dei massimi studiosi di letteratura giapponese, il successo ottenuto dalla letteratura giapponese negli anni Ottanta non solo in Italia ma in tutto l’Occidente si spiega con la volontà, da parte degli europei, di

5 A. Tollini, Postfazione, in P. Beonio-Brocchieri, Storia del Giappone, op. cit., p. 131, 134-137; F. Mazzei, V. Volpi,

Asia al centro, 2006, pp. 95-99.

6 F. Gatti, La fabbrica dei samurai. Il Giappone nel Novecento, 2000, pp. 112-116 e R. Caroli, F. Gatti, Storia del

Giappone, op. cit., pp. 235-37.

7

A. Tollini, Postfazione, in P. Beonio-Brocchieri, Storia del Giappone, 1996, p. 131

8

Cfr. B. M. Richardson, T. Ueda, Business and Society in Japan. Fundamentals for Businessmen, 1981; M. Morishima, Why has Japan "succeeded"? Western Technology and the Japanese Ethos, 1982; R. Dore, Taking Japan Seriously. A Confucian Perspective on Leading Economic Issues, 1987; C. Freeman, Technology Policy and Economic Performance. Lessons from Japan, 1987; D. Burstein, Yen! Japan's New Financial Empire and its Threat to America, 1988. Tra il 1984 e il 1990 i volumi di Morishima, Dore, Freeman e Burnstein sono stati tradotti in italiano. Cfr. M. Morishima, Cultura e tecnologia nel successo giapponese, 1984; R. Dore, Bisogna prendere il Giappone sul serio. Saggio sulla varietà dei capitalismi, 1990; C. Freeman, Il rito dell'innovazione. La lezione del Giappone vista dall'Europa, 1989; D. Burstein, Yen! L'impero finanziario giapponese sfida l'America, 1990.

9 R. Palmieri, Giappone senza colpa? Il primato dell'economia, la crisi della politica, 1989. Cfr. anche G. Fodella, a

cura di, Giappone e Italia. Economie a confronto, 1982

10 M. G. Losano, Il diritto economico giapponese, 1982.

11 Cfr. A. Branzi, Un museo del design italiano. Il design italiano 1964-1990, op. cit., p. 297: “Frattanto [negli anni

ottanta, n. d. r.] la concorrenza del Giappone cominciava a farsi pesantemente sentire; il Giappone si presentava sul mercato come esportatore di prodotti tecnologici sofisticati, di prezzo concorrenziale e di qualità tecnica altamente affidabile: come sempre è avvenuto nella storia, i prodotti commerciali non furono soltanto portatori di concorrenza, ma anche di cultura, di informazione, di filosofie e di sensibilità nuove”.

12 Sulla fortuna del cinema giapponese in Italia cfr. M. Argentieri, Il cinema giapponese in Italia, in Italia-Giappone

450 anni, op. cit., I, pp. 467-471.

13

A. Boscaro. Letteratura: l’editoria e il Giappone, op. cit., p. 604. Negli anni Settanta invece scarseggiarono le traduzioni in italiano di romanzi giapponesi (solo dodici opere tradotte in tutto il decennio). Cfr. A. Boscaro, Narrativa giapponese. Cent’anni di traduzioni, op. cit., pp. 12 e 91 e A. Boscaro. Letteratura: l’editoria e il Giappone, op. cit., p. 604.

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comprendere la cultura di un Paese che con i suoi prodotti tecnologici aveva invaso il mercato occidentale14. Ma, secondo Shūichi, non tutti gli scrittori giapponesi che conquistarono la popolarità all’estero erano rappresentativi della vera tradizione culturale nipponica. Critico è stato infatti nei confronti sia di Yasunari Kawabata, definito un “grande poeta minore”15, sia di Yukio Mishima (di cui negli anni Ottanta furono tradotte in italiano ben quindici opere), che con la sua attitudine auto- orientalista avrebbe fornito del proprio Paese una visione esotica, scrivendo “quello che gli occidentali si immaginano debba essere il Giappone”16. Altri sarebbero stati gli scrittori giapponesi contemporanei ‘classici’, tra cui Shūichi ha annoverato, oltre a Jun'ichirō Tanizachi, anche la scrittrice comunista Yuriko Miyamoto (1899-1951), le cui opere non sono però ancora state tradotte in italiano17. In ogni caso, alla conoscenza della letteratura giapponese in Italia contribuì in modo determinante l’avvio della collana di letteratura giapponese “Mille gru” – attiva ancora oggi -, promossa dalla casa editrice Marsilio nel 1988 e diretta dalla storica della letteratura giapponese Adriana Boscaro. Si trattava di un progetto unico non solo in Italia, ma in Europa, poiché all’epoca nessuna casa editrice aveva ancora creato una collana specifica di letteratura giapponese18.

Nel frattempo, in quel clima di inebriamento letterario nipponico, il poeta Andrea Zanzotto (1921- 2011) iniziò nel 1984 a comporre degli haiku, che sono dei brevissimi componimenti poetici di tre versi, nati in Giappone nel XVII secolo19.

Gli anni Novanta rappresentarono un picco di interesse per la letteratura giapponese, “visto che si sfiorarono i novanta titoli nuovi in libreria”20. Determinanti furono il conferimento del premio Nobel per la letteratura a Ōe Kenzaburō nel 1994, ma soprattutto la lungimiranza di un giovane stodioso, Giorgio Amitrano, che propose all’editore Feltrinelli di tradurre il romanzo Kitchen di Banana Yoshimoto, pubblicato in Giappone nel 1988. Kitchen non era stato ancora tradotto in nessuna lingua straniera. Appena uscì, in Italia, nel 1991, divenne un best seller21. Da lì partì la fortuna mondiale di Banana Yoshimoto, di cui sono stati tradotti in italiano negli anni Novanta otto romanzi22.

Per quanto riguarda l’architettura, non si possono non menzionare i progetti urbanistici dell’architetto Kenzo Tange per il polo fieristico di Bologna (progetto affidato dal Comune di

14 Cfr. le sue dichiarazioni contenute nel volume di V. Zucconi, Il Giappone tra noi, 1986, pp. 75-76. 15 Ivi, p. 77.

16

Ivi, p. 76. Sull’attitudine auto-orientalista di Mishima cfr. L. Bienati, P. Scrolavezza, La narrativa giapponese moderna e contemporanea, 2009, p. 155.

17 V. Zucconi, Il Giappone tra noi, op. cit., pp. 78.

18 A. Boscaro. Letteratura: l’editoria e il Giappone, op. cit., p. 605.

19 Gli haiku di Zanzotto sono stati pubblicati nel 2012. Cfr. A. Zanzotto, Haiku for a Season, 2012. A tal proposito cfr.

M. Breda, Haiku, la cura di Zanzotto, in “La lettura”, 30 settembre 2012, pp. 34-35.

20

A. Boscaro. Letteratura: l’editoria e il Giappone, op. cit., p. 604.

21 G. Amitrano, Si può tradurre il Giappone? Riflessioni sulla traduzione letteraria dal giapponese, in Italia-Giappone

450 anni, op. cit., 2003, II, pp. 597-600: 598-599.

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Bologna a Tange nel 1967, consegnato nel 1970 e realizzato a partire dal 1979)23 e per il Quartiere Affari a Milano del 1993, solo per citarne due tra i suoi più celebri24.

Tuttavia, tra il 1970 e la fine del secolo, gli ambiti nei quali con più evidenza si manifestò in Italia l’interesse per la cultura nipponica furono quelli della moda (a cui sono dedicati i paragrafi 3, 4 e 5 di questo capitolo) e del design, oltre che degli anime (cartoni animati) e dei manga (fumetti).

Il successo del design giapponese in Italia

L’Expo di Osaka del 1970 stimolò la curiosità nei confronti del Giappone anche tra i designer italiani che, come abbiamo visto nel capitolo V, già nei decenni precedenti avevano studiato con ammirazione la cultura giapponese.

Ad esempio nel 1970 l’azienda Zanotta produsse la sedia “Primate”, progettata dall’architetto e designer italiano Achille Castiglioni (FIG. 2). Tale sedile-inginocchiatoio era ispirato al modo di sedersi alla giapponese, in cui ci si inginocchia e si tiene il busto eretto senza schienale di appoggio.

FIG. 2. A sinistra, la sedia “Primate” prodotta nel 1970 dall’azienda Zanotta su progetto di Achille Castiglioni25. A destra, fotografia del 1970 in cui Aurelio Zanotta mostra la sedia “Primate” prodotta dalla sua azienda26.

23 Sull’intervento urbanistico di Tange a Bologna cfr. http://www.bibliotecasalaborsa.it/cronologia/bologna/1967/522

(corredato di una ricca bibliografia), ultima consultazione 22 giugno 2015. Sull’intervento urbanistico di Tange a Bologna cfr. anche F. Morelli, C Vietti, G. Ferro, A. Petralia, Kenzo Tange a Bologna, 2009 e Kenzo Tange e l'utopia di Bologna. Bologna Nord, Centro ecumenico, Fiera district, atti del convegno in occasione del 40. anniversario della consegna del piano per Bologna Nord (Bologna, Oratorio di San Filippo Neri, 22 ottobre 2010), a cura di F. Talò, 2010.

24 F.V. Merlino, Architetti giapponesi in Italia: Tange Kenzo e Isozaki Arata, in Italia-Giappone 450 anni, op. cit.,

2003, II, pp. 628-630.

25

La fotografia è tratta dal sito http://www.achillecastiglioni.it/it/projects/id-18.html. Ultima consultazione 14 giugno 2015.

26 La fotografia è tratta da G. Castelli, P. Antonelli, F. Picchi, a cura di, La fabbrica del design. Conversazioni con i

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Sempre nel 1970 il designer giapponese Shirō Kuramata progettò la cassettiera curvilinea “Side 2” (FIG. 3), che sarebbe divenuta un classico del design mondiale. Dopo essere stata prodotta in Giappone, venne realizzata dall’azienda italiana Cappellini nel 1986 che l’ha ancora in produzione.

FIG. 3. Cassettiera “Slide 2” progettata da Shirō Kuramata nel 197027.

Il design giapponese, di cui si apprezzavano sempre più all’estero la funzionalità e l’essenzialità estetica, negli anni Settanta produsse altri oggetti considerati delle icone nella storia del design, come l’alta sedia “Marilyn” di Arata Isozaki del 1972, che venne prodotta inizialmente proprio da una ditta italiana, la ICF (FIG. 4).

FIG. 4. Sedia “Marilyn” di Arata Isozaki del 197228

27 Immagine tratta dall’indirizzo internet http://cappellini.it/it/prodotti/contenitori-e-librerie/progetti-compiuti., ultima

consultazione 22 giugno 2015. Una scheda del prodotto è stata pubblicata anche in Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., n. 95, p. 105

28 L’immagine è tratta dal sito

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Gli anni Ottanta furono un decennio d’oro per i designers giapponesi in Italia. “Una naturale predisposizione alla decorazione, all’uso del colore, al gioco delle forme e al bricolage predisponeva, infatti, i progettisti del Sol Levante a interpretare il Neomodern forse meglio dei designers italiani che l’avevano inventato”29. Tra i numerosi designers giapponesi che collaborarono in quegli anni con aziende italiane si ricordano Toshiyuki Kita, in Italia già dal 1969, che nel 1980 progettò per Cassina la celebre poltrona “Wink” (FIG. 5) 30, e Masanori Umeda31. Quest’ultimo aderì insieme ad altri due architetti e designers giapponesi, Arata Isozaki e Shiro Kuramata, al gruppo di designers “Memphis”, fondato a Milano da Ettore Sottsass nel 1981. Forse il più celebre progetto di Umeda per Memphis è il letto “Ring” del 1981 (FIG. 6).

FIG. 5. Poltrone Wink, di gusto marcatamente pop, progettate da Toshiyuki Kita nel 1980 per Cassina. “La poltrona ha una seduta bassa che ricorda l’uso giapponese di sedere sul pavimento, ma non si priva della comodità occidentale di uno schienale” 32.

giugno 2015. Una scheda del prodotto è stata pubblicata anche in Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., n. 99, p. 107.

29 G. D’Amato, Moda e Design. Stili e accessori del Novecento, 2007, p. 199. Sul Neomodern cfr. ivi, pp. 195-198. 30 La foto e la citazione sono tratte da: Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., n. 146, p. 136

31

Per l’elenco dei designer giapponesi che lavorarono in Italia negli anni Ottanta cfr. A. Branzi, Un museo del design italiano. Il design italiano 1964-1990, op. cit., pp. 296 e segg.

32 La foto è tratta da Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., n. 146, p. 136. Le poltrone “Wink” sono state

pubblicate in numerosi altri volumi tra cui: 1945-2000. Il design in Italia. 100 oggetti della collezione Permanente del Design Italiano della Triennale di Milano, op. cit., n. 071, p. 117.

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FIG. 6. Letto “Ring” di progettato da Masanori Umeda per Memphis, 198133.

Dalla collaborazione tra designers italiani e giapponesi nacquero in quegli anni altri oggetti di successo, come la poltrona in cristallo “Ghost”, progettata nel 1987 da Cini Boeri e Tomu Katayagi (il quale lavorava in Italia dall’inizio degli anni Settanta), che rielabora in forme sinuose la “Glass chair” progettata nel 1976 da Shiro Kuramata (FIG. 7).

FIG. 7. A sinistra, poltrona “Ghost”, realizzata con un’unica lastra di cristallo di 12 mm. curvata a stampo. È stata progettata nel 1987 da Cini Boeri e Tomu Katayagi per l’azienda italiana FIAM34. A destra, la “Glass chair” progettata nel 1976 da Shiro Kuramata35.

33 La fotografia a sinistra è tratta da La cultura dell’abitare. Il design in Italia 1945-2001, a cura di G. Bosoni, 2002, p.

90, mentre la fotografia a destra all’indirizzo web http://stylefrizz.com/200911/lagerfelds-ring-bed-masanori-umedas- tawaraya/memphis-boxing-ring-bed/ ultima consultazione 9 dicembre 2014.

34

Fotografia tratta da 1945-2000. Il design in Italia. 100 oggetti della collezione Permanente del Design Italiano della Triennale di Milano, op. cit., n. 083, p. 133. La poltrona è stata pubblicata in molti altri volumi, tra cui A. Branzi, Un museo del design italiano. Il design italiano 1964-1990, op. cit., p. 302.

35 La “glass chair” è stata pubblicata in molti volumi tra cui R. Menegazzo, S. Piotti, Wa. The essence of Japanese

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La Triennale di Milano continuò a tener viva l’attenzione per il design giapponese. Ad esempio nel 1989 espose la scaffalatura “Kotobuki” di Sinya Okayama, ispirata all’ideogramma che indica l’augurio di “lunga vita” (FIG. 8)36.

FIG. 8. Scaffalatura “Kotobuki” in legno laccato, progettata da Sinya Okayama nel 1989.

Fondamentale è stata poi, nel 1995, la mostra retrospettiva sul design giapponese Design

giapponese. Una storia dal 1950, dove furono esposti oltre 250 oggetti che comprendevano anche

tessuti e abiti realizzati dai più importanti fashion designers giapponesi contemporanei 37. Si trattava di un progetto complesso che coinvolse più istituzioni dal momento che, oltre alla Triennale, la mostra venne ospitata anche a Philadelphia, a Düsseldorf, poi al centro Pompidou di Parigi e infine a Osaka. Il merito di quell’esposizione fu di aver dimostrato l’originalità del design nipponico e il suo contributo al rinnovamento del design occidentale, in un’epoca in cui ancora era diffusa l’opinione - viva tutt’oggi - secondo cui i giapponesi sarebbero abili imitatori, dotati di scarsa creatività38.

Infine, nel 1996, la Triennale di Milano organizzò la mostra Giappone. Segno e colore, sul graphic

design giapponese, a cura di Gian Carlo Calza39.

36

La fotografia della scaffalatura è tratta da Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., n. 228, p. 188. Sulla partecipazione di questa scaffalatura alla Triennale, cfr. N.O., Un esempio di design giapponese alla Triennale, in Italia-Giappone 450 anni, a cura di A. Tamburello, I, 2003, p. 457.

37 Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit. Cfr. in particolare i due saggi ivi contenuti: Y.I. Wada, Tessuti e

kimono, pp. 34-36 e A. Fukai, Moda, p. 37.

38

Cfr. L. Granieri, Design in Giappone: influssi e corrispondenze con l’arte italiana, in Italia-Giappone 450 anni, op. cit., I, pp. 290-298: 291. Sul design giapponese e sul suo influsso sulla cultura occidentale cfr. anche R. Menegazzo, S. Piotti, Wa. The essence of Japanese Design, op. cit.,

39 Cfr. Giappone. Segno e colore, catalogo della mostra. 500 manifesti di grafica contemporanea (Triennale di Milano,

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Manga e anime in Italia

A partire dagli anni Settanta, in Italia, si assistette ad una vera e propria invasione di manga e anime dal Giappone.

Non è questa la sede per approfondire tale argomento, che è stato ampiamente studiato dal sociologo Marco Pellitteri40. Tuttavia nello studio del Giappone come centro propulsore di un’industria culturale che nella seconda metà del Novecento è stata sempre più apprezzata negli Stati Uniti e in Europa, non si può prescindere dal successo riscosso dai disegni animati e dai fumetti, prima negli Stati Uniti (dalla metà degli anni Sessanta) e poi in Europa (dalla metà degli anni Settanta)41.

Per quanto riguarda gli anime, In Italia il primo cartone animato giapponese trasmesso in televisione fu Vicky il vichingo, nel 1975 (prodotto in Giappone nel 1974). Si trattava di un anime caratterizzato da un design europeo e non ottenne particolare successo42. Diversamente invece venne accolta la serie Heidi, che venne trasmessa su Rai Uno per la prima volta nel 1976 (prodotta in Giappone nel 1974)43 e riscosse un immediato e inaspettato successo. Dopo Heidi, fu la volta di

Atlas Ufo Robot, il cui protagonista, che si chiamava Goldrake, inaugurò il filone di anime aventi

dei robot come personaggi. Anche Atlas Ufo Robot, trasmesso per la prima volta nel 1978 (ma era stato prodotto in Giappone nel 1975) incontrò un successo travolgente44.

Questi due anime aprirono la strada ad una serie di altri cartoni animati giapponesi, come l’Ape

Maia, Mazinga Z e Capitan Harlock45, che invasero letteralmente le emittenti italiane, tanto che “fra il 1978 ed oggi l’Italia è stato il primo paese occidentale per numero di anime trasmessi”46. Tale invasione fu possibile anche perché la liberalizzazione nel 1976 delle emittenti televisive italiane aveva portato alla nascita di molte TV private che avevano la necessità di riempire ogni giorno i propri palinsesti con molte ore di programmazione. Gli anime giapponesi, che erano stati lanciati sul mercato a prezzi altamente competitivi, rappresentarono un’economica soluzione al problema47. Avvenne così che serie televisive che in Giappone venivano trasmesse con cadenza settimanale, in Italia furono proposte ogni giorno, con il risultato che “in soli due anni la televisione italiana consuma circa un ventennio di produzione animata giapponese”48. Non paghi delle ore trascorse davanti alla televisione per seguire le avventure degli anime, i giovani telespettatori italiani, come del resto quelli di buona parte dei paesi europei, cominciarono ad acquistare album di

40 Cfr. M. Pellitteri, Il drago e la saetta. Modelli, strategie e identità dell’immaginario giapponese, 1999 e M. Pellitteri,

Mazinga nostalgia. Storia, valori, linguaggi della Goldrake-generation, 1999.

41 Cfr. M. Pellitteri, Il drago e la saetta, op. cit., p. 6. 42 Cfr. M. Pellitteri, Mazinga nostalgia, op. cit., p. 252.

43 G. Di Fratta, I cartoni animati giapponesi in Italia, in Italia-Giappone 450 anni, op. cit., I, pp.506-516:506. Cfr.

anche C. Baglini, È un uccello? È un aereo? È Goldrake!, in Mangamania. 20 anni di Giappone in Italia, 1999, pp. 48- 57:48.

44 G. Di Fratta, I cartoni animati giapponesi in Italia, in Italia-Giappone 450 anni, 2003, I, op. cit., p. 507. Cfr. anche

C. Baglini, È un uccello? È un aereo? È Goldrake!, in Mangamania. 20 anni di Giappone in Italia, 1999, p. 49.

45 Per un elenco degli anime che invasero la televisione italiana tra gli anni Settanta e Ottanta cfr. C. Baglini, I magnifici

120 anime. I principali protagonisti dell’invasione animata, in Mangamania. 20 anni di Giappone in Italia, op. cit., pp. 74-103. Cfr. anche la cronologia pubblicata in M. Pellitteri, Mazinga nostalgia, op. cit., pp. 257-259.

46 Cfr. M. Pellitteri, Il drago e la saetta, op. cit., nota 4 , p. 75. 47 Ivi, pp. 17 e 74.

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figurine e fumetti ispirati alle gesta dei loro eroi49. In Italia quindi, dove i manga prendevano spunto dagli anime di maggior successo, si è verificato un fenomeno opposto rispetto a quello avvenuto in Giappone, dove invece erano i manga ad essere trasposti in serie animate50.

L’enorme successo riscosso dagli anime e dai manga all’estero51 ha rappresentato uno spartiacque nella diffusione della cultura giapponese nel mondo perché ha coinvolto la pop culture52, intesa come cultura di massa non elitaria. Infatti la cultura popolare audiovisiva nipponica è stata accolta nella cultura popolare americana, europea e italiana, peraltro tra un pubblico di giovani che fino ad allora non avevano mostrato un particolare interesse nei confronti del Giappone53. Secondo lo storico francese Jean Marie Bouissou questo fenomeno ha senz’altro contribuito alla crescita del