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IL MIRACOLO ECONOMICO GIAPPONESE E IL NEW JAPONISME

IL “MIRACOLO ECONOMICO GIAPPONESE” DEL SECONDO DOPOGUERRA E L’INFLUSSO DEL GIAPPONE SULLA

1. IL MIRACOLO ECONOMICO GIAPPONESE E IL NEW JAPONISME

Il 15 agosto 1945, dopo i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, il Giappone accettò la resa incondizionata che decretò la fine della guerra. Il Paese si trovava in uno stato di profonda prostrazione, con 8 milioni di senzatetto e 9 milioni circa di disoccupati1. Non vi era città giapponese che non fosse stata colpita dai bombardamenti2.

Dal 1945 al 1952 il Giappone venne occupato dalle forze alleate che, sotto il controllo del generale statunitense Douglas MacArthur, vi avviarono un processo di democratizzazione e di smilitarizzazione3.

Le già penose condizioni di vita della popolazione peggiorarono ulteriormente tra il 1946 e il 1947, quando si accentuarono la crisi economica e la penuria di cibo4.

Tuttavia proprio in quel biennio si verificò la cosiddetta “inversione di rotta”, espressione che indica un progressivo mutamento della politica statunitense nei confronti del Giappone il quale, da nemico, divenne il principale alleato degli Stati Uniti in Asia 5. Ciò dipese dal fatto che, mentre la ‘guerra fredda’ si stava delineando in modo sempre più evidente, gli Stati Uniti, nel timore che il comunismo dilagasse in Asia, elessero il Giappone quale avamposto antisocialista dell’area estremo-orientale6. Il manifesto realizzato nel 1953 dal designer giapponese Takashi Kono e intitolato significativamente “Sheltered Weaklings – Japan”, ovvero “I deboli sotto protezione: il Giappone” ben rappresenta, seppure in modo polemico, il rapporto politico di sottomissione del Giappone (il branco di pesciolini) nei confronti degli Stati Uniti-pescecane, mentre gli squali rossi che simboleggiano la Russia nuotano in senso opposto (FIG.1) 7.

Gli Stati Uniti favorirono la ripresa economica del Giappone, promuovendo l’esportazione di prodotti giapponesi8 e assecondando così anche gli interessi degli industriali statunitensi, desiderosi di riprendere i redditizi rapporti d’affari con il Giappone interrotti con lo scoppio della guerra del Pacifico9.

1 R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, 2006, p. 217. 2 Ivi, p. 216.

3 F. Gatti, Storia del Giappone contemporaneo, 2002, p. 112-127.

4 Y. Kamekura, Grafica, in Design giapponese. Una storia dal 1950, catalogo della mostra (Milano, Triennale di

Milano, 17 marzo-14 maggio 1995), 1995, p. 39.

5 F. Gatti, Storia del Giappone contemporaneo, op. cit., pp. 127-128. 6

R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, op. cit., p. 218.

7 Il manifesto è stato pubblicato in Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., n. 5, p. 52. 8 R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, op. cit., p. 224.

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FIG. 1 Takashi Kono, manifesto “Sheltered Weaklings – Japan”, 1953, Università delle Belle Arti della Prefettura di Aichi.

La “priorità della ricostruzione a tutti i costi” - secondo le parole dell’allora primo ministro giapponese - divenne il principale obiettivo dei governi che si succedettero in Giappone a partire dal 194610. La riforma agraria del 194611 e i successivi piani economici quinquennali promossi dai governi giapponesi a partire dal 1955, volti a limitare il più possibile le importazioni e stimolare invece le esportazioni12, favorirono il “miracolo economico giapponese”, per parafrasare il titolo di un celebre saggio di Hubert Brochier del 196513.

Mediante una politica di contenimento dei salari, che rendeva le merci giapponesi altamente competitive a livello mondiale, e anche attraverso il ricorso al dumping, ovvero la vendita all’estero di merci sottocosto per penetrare il mercato straniero14, il Giappone riuscì a invadere i mercati internazionali con una grande quantità di articoli, tra cui televisori, macchine fotografiche e i primi prodotti della nascente industria elettronica (radio, calcolatori tascabili), che si sarebbe poi specializzata nella produzione di computers15. Inoltre nel 1951 venne istituita l’Organizzazione Giapponese di Ricerca del Commercio e delle Esportazioni, nota come JETRO, a sostegno delle esportazioni giapponesi16.

Alcuni dati sono utili per comprendere l’impressionante crescita economica del Giappone in quegli anni: il livello dei consumi, che già nel 1954 era ritornato a quello pre-bellico, nel 1957 lo superava del 27,1%17; il tasso di crescita del Giappone nel decennio 1962-72 è stato tre volte più rapido di

10 Ivi, p. 126. 11 Ivi, p. 129.

12 Ivi, pp. 133-142 e R.Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, op. cit., pp. 224-231. 13 Cfr. H. Brochier, Le miracle économique japonais 1950 – 1970, 1970 [1 a ed. 1965]. 14

Cfr. F. Gatti, Storia del Giappone contemporaneo, op. cit., p. 136.

15

P. Corradini, Il Giappone e la sua storia, 1999, p. 401.

16 K. B. Hiesinger, Il Design Giapponese: Una Storia dal 1950, in Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., pp.

14-19:14.

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quello delle potenze occidentali e il suo PNL è raddoppiato dal 1960 al 1965, e poi ancora tra il 1966 e il 197018; tra il 1960 e il 1980 il PNL pro capite è cresciuto in Giappone in termini reali al tasso medio annuo più elevato al mondo (7,1%) dopo quello di Singapore (7,5%)19.

Il Giappone è diventato così protagonista di una straordinaria ripresa economica, che l’ha portato a diventare negli anni Ottanta la seconda potenza economica mondiale dopo gli Stati Uniti20.

La sua ascesa si è conclusa all’inizio degli anni Novanta con lo scoppio della baburu economi (“economia della bolla”), che aveva portato negli anni Ottanta il Giappone ad una crescita economica rapidissima ma fragile, in quanto basata su speculazioni nell’ambito della borsa e dei mercati immobiliari21.

Ad ogni modo, il progresso nipponico degli anni Cinquanta e Sessanta fu tale che nel 1984 l’economista americano Jean Pierre Lehmann coniò l’espressione New Japonisme per indicare la rinnovata passione dell’Occidente per il Paese del Sol Levante nel terzo quarto del XX secolo, dopo il cosiddetto Old Japonisme tardo-ottocentesco22. Secondo Lehmann i tratti principali del New

Japonisme consistevano nel fatto che questo fenomeno si basava sul mondo dell’industria e trovava

espressione principalmente negli annali di management23. Tuttavia, come avremo modo di vedere in questo capitolo, l’interesse per il Giappone in Italia e in Europa non si limitò alla sfera economica, ma coinvolse diversi ambiti culturali, tanto che la produzione di alcuni designers e architetti italiani come Bruno Munari e Carlo Scarpa risentì di influenze giapponesi.

Dall’imitazione del sistema economico e produttivo occidentale al revanchismo culturale giapponese

Nel secondo dopoguerra il Giappone, storicamente abituato ad assimilare e a valorizzare le influenze straniere - basti pensare al suo incontro con la civiltà occidentale durante il periodo Meiji -, guardò all’Occidente e in particolar modo agli Stati Uniti come a un modello economico e culturale.

Come ricordato dal designer giapponese Yusaku Kamekura, “noi Giapponesi, in quel momento, credevamo fermamente che il solo modo per districarci dalle devastazioni causate dalla sconfitta e quindi per ricostruire il nostro paese, fosse quello di introdurre le moderne strutture sociali dell’Occidente. Credevamo che se non avessimo percorso una strada verso la democrazia e il capitalismo moderno, non saremmo rimasti che una nazione feudale e retrograda alla mercé dell’“estremo” oriente. Pertanto scegliemmo di procedere in direzione della modernizzazione di stile occidentale, con aggressività e a ritmi vertiginosi”24.

Lo stesso concetto è stato espresso dal critico di design Masaru Katsumie, il quale ha affermato che “agli occhi del pubblico giapponese [..] tutti gli articoli che giungevano dagli Stati Uniti apparivano sorprendentemente nuovi ed erano considerati simbolo di civiltà”25.

18

J.M. Bouissou, Storia del Giappone contemporaneo, 2003, p. 139.

19 G. Fodella, Dove va l’economia giapponese. L’Estasia verso l’egemonia economica mondiale, 1989, p. 28. 20 Ivi, p. 26.

21 Cfr. A. Tollini, Postfazione, in P. Beonio-Brocchieri, Storia del Giappone, op. cit., p. 137; F. Mazzei, V. Volpi, Asia

al centro, 2006, p. 95; F. Gatti, La fabbrica dei samurai. Il Giappone nel Novecento, op. cit., pp. 112-116 e R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, op. cit., pp. 235-37.

22

J.P. Lehmann, Old and New Japonisme: The Tokugawa Legacy and Modern European Images of Japan, op. cit..

23 Ivi, p. 758.

24 Y. Kamekura, Grafica, in Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., p. 39. 25 K. B. Hiesinger, Il Design Giapponese: Una Storia dal 1950, op. cit., p. 15.

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Dall’emulazione all’imitazione il passo fu breve. Nell’imitare il sistema economico e tecnologico occidentale, il Giappone ne copiò anche i prodotti. Ad esempio gli apparecchi fotografici giapponesi della Nikon e della Canon si basavano sui modelli tedeschi della Contax e della Leica, così come alcune automobili della Honda su quelle britanniche della MG e Austin-Healy26. Numerosi studenti giapponesi di design ed ingegneria si recarono in Europa e in America per studiarne direttamente il sistema produttivo27; inoltre noti progettisti americani furono invitati in Giappone28.

Se nella cultura giapponese l’imitazione non è considerata deprecabile poiché l’apprendimento è valutato più positivamente rispetto all’originalità e alla creatività29, in Europa e in America l’attitudine dei giapponesi alla copiatura sollevò non poche proteste, tanto che nel 1958 al designer industriale giapponese Mosuke Yoshitake fu impedito di visitare alcune ditte in Svezia, poiché in Giappone erano state realizzate circa trenta copie quasi identiche di altrettanti prodotti svedesi30. Vi furono tuttavia anche prodotti inventati e realizzati dai giapponesi che riscossero un grande successo internazionale, come la prima radio a transistor portatile e il primo televisore a transistor, prodotti dalla Sony rispettivamente nel 1958 e nel 195931.

Progressivamente si affermò tra i designers giapponesi la necessità di sottrarsi alla sudditanza nei confronti dell’Europa e degli Stati Uniti. Isamu Kenmochi, uno dei primi designers nipponici che si recò all’estero nel dopoguerra, al suo ritorno dagli Stati Uniti dichiarò, nel 1955: “Abbiamo prestato troppa attenzione a ciò che è straniero e abbiamo dimenticato le nostro origini. Abbiamo ancora bisogno di imparare alcune tecniche dall’Occidente, ma in termini di concetti non abbiamo motivo di imitare”32. La medesima necessità di “rivalutare i nostri tesori tradizionali e riportarli alla vita” per creare uno stile Moderno Giapponese venne sostenuta anche dal già citato Masaru Katsumie33. Proprio in quegli anni alcuni designers giapponesi, nello sviluppare un “nuovo stile giapponese”34, trassero ispirazione dall’architettura e dagli oggetti d’uso tradizionali nipponici per realizzare le loro opere.

Ad esempio nel 1951 Isamu Noguchi creò delle lampade in carta, con un sostegno in ferro e bambù che si ispiravano alle lanterne di carta (chōchin) usate tradizionalmente in Giappone per la pesca notturna sin dal XVI secolo (FIG.2)35. Analogamente, nel 1953 Zenichi Mano realizzò per la Matsushita Electric Industrial Company di Osaka una radio la cui struttura richiamava evidentemente la celebre villa imperiale Katsura a Kyoto (FIG. 3)36.

26 Ivi, p. 18 e S. Habara, Design Industriale, in Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., pp. 30-31:30. 27 K. B. Hiesinger, Il Design Giapponese: Una Storia dal 1950, op. cit., pp. 14-19:14 e 17.

28 Ivi, p. 15. 29

S. Habara, Design Industriale, in Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., 1995, pp. 30-31:31.

30 K. B. Hiesinger, Il Design Giapponese: Una Storia dal 1950, op. cit., pp.14-19:14.

31 La radio e il televisore sono stati pubblicati in Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., n. 32 p. 66 e n. 44, p.

72.

32 K. B. Hiesinger, Il Design Giapponese: Una Storia dal 1950, op. cit., pp.14-19:16-17. 33

Ivi, pp. 16-17.

34

Y. Kamekura, Grafica, in Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., pp. 39-41:40.

35 R. Menegazzo, S. Piotti, Wa. The essence of Japanese Design, 2014, p. 177, fig. p. 197.

36 K. B. Hiesinger, Il Design Giapponese: Una Storia dal 1950, op. cit., pp.14-19:17 e Design giapponese. Una storia

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Ancora, nel 1956 Riki Watanabe e Sori Yanagi progettarono due sgabelli, chiamati rispettivamente “Torii” e “Butterfly” i quali, nella loro calligrafica eleganza, si ispirano alle linee curve di un Torii, ovvero di uno dei tradizionali portali giapponesi che introducono ad un area sacra (FIG. 4)37.

FIG. 2. A sinistra: lampada in carta, ferro e bambù progettata nel 1951 da Isamu Noguchi. A destra: lanterna di carta (chōchin) del XVI secolo, usata tradizionalmente in Giappone per la pesca notturna.

FIG. 3. A sinistra: Radio National progettata da Zenichi Mano nel 1953. A destra: la villa imperiale Katsura a Kyoto. La parte sinistra della radio richiama il reticolato ligneo delle imposte della villa, mentre la parte destra i bianchi pannelli scorrevoli delle porte.

37 Lo sgabello Torii e il Butterfly sono stati pubblicati in R. Menegazzo, S. Piotti, Wa. The essence of Japanese Design,

op. cit., p. 177, fig. p. 30 e 29, mentre il Torii del santuario di Itsukushima a p. 27. Entrambi gli sgabelli sono stati pubblicati in molti altri volumi, tra cui Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., n. 26, p. 63 e n. 27, p. 64.

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FIG. 4. A sinistra: Sgabello “Torii” in rattan progettato da Riki Watanabe nel 1956. A destra lo sgabello “Butterfly” in compensato e metallo, progettato da Sori Yanagi nel 1956. Entrambi gli sgabelli si ispirano al ligneo Torii ‘galleggiante’ del santuario di Itsukushima, originario del VI sec. d.C. (ricostruito nel 1168 e rinnovato nel 1875), riprodotto nella fotografia al centro.

Si cominciarono a delineare così i tratti peculiari del nuovo design giapponese, che sono stati spesso riassunti nell’espressione giapponese wa. Questo termine allude non solo al concetto di ‘armonia e pace’, ma anche al Giappone stesso e alla cultura giapponese38. Se da un lato l’essenzialità e la funzionalità erano caratteristiche che accomunavano il nuovo design giapponese al moderno design occidentale, dall’altro l’amore per l’imperfezione, l’irregolarità e l’asimmetria - che può essere sintetizzato con l’espressione giapponese wabi-sabi39-, era invece sconosciuto in Europa e in

America40.

In questi continenti l’originalità del nuovo design giapponese venne sempre più apprezzata, tanto che è possibile riscontrare l’influenza sia della cultura tradizionale giapponese, sia del nuovo design giapponese in alcuni oggetti di design prodotti in Occidente a partire dagli anni Sessanta.

Tuttavia il grande successo internazionale del design (e della moda) giapponese si affermò soprattutto tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, quando si diffuse il cosiddetto ‘minimalismo’: l’essenzialità e il vuoto, che già erano dei valori per i designers giapponesi, furono perseguiti anche da quelli occidentali.

Ritornando agli anni Cinquanta e Sessanta, occorre precisare che diversi aspetti della cultura giapponese – non solo il design, ma anche il cinema, la letteratura, le arti figurative, l’architettura e la moda - suscitarono interesse in Europa e negli Stati Uniti, dove si registrava sempre maggiore curiosità nei confronti di un Paese che da nemico annientato stava diventando un pericoloso

competitor economico. Cresceva in Occidente inoltre la consapevolezza che poco si sapeva della

cultura giapponese, oltre che di altre culture orientali, come stava ampiamente dimostrando la catastrofica esperienza della guerra in Vietnam (1960-1975).

38

Sul concetto di Wa cfr. R. Menegazzo, S. Piotti, Wa. The essence of Japanese Design, op. cit., p. 9 e F. Fischer, Il Design Giapponese: dal Meiji al Moderno, in Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., pp.8-13:13.

39 Sul concetto di wabi-sabi cfr. A. Fukai, Moda, in Design giapponese. Una storia dal 1950, op. cit., p. 37 e F. Ostuzzi,

Giuseppe Salvia, V. Rognoli, M. Levi, Il valore dell’imperfezione. L’approccio wabi-sabi al design, 2011.

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Dal côté giapponese, invece, vi era un evidente spirito revanchista. Il Giappone desiderava infatti non solo mostrare al mondo intero il proprio progresso economico, ma anche ricordare la profondità e la ricchezza della propria civiltà millenaria, oltre che la vivacità della sua cultura contemporanea. Si potrebbe affermare che proprio nel secondo dopoguerra il Giappone iniziò progressivamente ad esercitare all’estero una forma di soft power41 grazie al quale, con il passare degli anni, questo Paese non venne più associato solo ai prodotti che esportava, ma anche a raffinate espressioni artistiche, tra cui la moda, che divennero oggetto di studio e di imitazione.

Uno dei canali attraverso cui il Giappone mostrò al mondo la propria condizione di Paese ‘risorto’ dalle ceneri della guerra ed ormai economicamente avanzato furono le Diciottesime Olimpiadi, svoltesi a Tokyo nel 196442.

2. LA DIFFUSIONE IN ITALIA DELLA CONOSCENZA DELLA CULTURA