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Il coordinamento sistematico tra la buona fede oggettiva e la correttezza: le

CAPITOLO I La categoria degli obblighi di protezione e il suo fondamento

1.5 Il coordinamento sistematico tra la buona fede oggettiva e la correttezza: le

Appurato, dunque, secondo la ricostruzione sin qui proposta, come uno spazio ulteriore e altro rispetto alla prestazione possa rinvenirsi nella struttura dell’obbligazione, è necessario tentare di definire i contorni e le peculiarità di tale ambito, al fine di poterne comprendere le conseguenze sul piano strutturale e funzionale. Preliminarmente, dunque, sarà necessario muovere dalle clausole generali di buona fede e correttezza per confrontarle, in primis, fra di loro e, successivamente, nel corso della prima parte del presente lavoro, con quei concetti, quali ad esempio la diligenza e il principio espresso dal brocardo alterum non laedere, che spesso vengono tra di loro assimilati sino sovrapporre più o meno parzialmente le relative aree di incidenza. La

(85) Così CASTRONOVO, Obblighi di Protezione, cit., § 3.3, 3. (86) DI MAJO, Delle obbligazioni in generale, cit., 93.

33 difficoltà di segnare con precisione i confini tra le diverse clausole generali e il rapporto di queste con i principi generali dell’ordinamento si è tradotta, probabilmente, anche nella difficoltà nel pervenire ad un corretto inquadramento della categoria degli obblighi di protezione87.

Si premette come l’analisi di caratteristiche e relazioni delle suindicate clausole generali verrà condotta con riferimento alla teorica degli obblighi di protezione, e gli aspetti a questa connessi88, tralasciando ulteriori profili che

si ritengono in questa sede non rilevanti.

Muovendo, preliminarmente, dal rapporto tra la correttezza e la buona fede si segnala come il compito che ci si appresta ad affrontare risulterà non agevole in considerazione di quanto appaiano sfumati i contorni tra i due concetti.

Va evidenziato, in tal senso, come molti Autori abbiano, infatti, sottolineato la difficoltà nel riuscire a giungere ad una definizione appagante ed esaustiva della buona fede, difficoltà che ben può estendersi alla correttezza vista la contiguità dei due concetti89.

(87) E’ di facile intuizione come, mutando il fondamento sul quale basare la categoria degli

obblighi di protezione mutino, di conseguenza, anche le caratteristiche della categoria stessa; relativamente al c.d. problema della clausole generali, si veda il successivo par. 2.3.

(88) E in prospettiva, visto la rilevanza delle suddette tematiche, con riferimenti alla figura

del contratto con effetti protettivi nei confronti di terzi.

(89) BESSONE e D’ANGELO, Buona fede, in Enc. Giur. Treccani, V, Roma, 1988, 1 ss. «nel

tentativo di elaborare una definizione di buona fede, data anche la non menzione della stessa nell’art. 1374 c.c., tra le fonti di integrazione del contratto, si è generata, inoltre, una diffusa convinzione circa una sorta di ineffabilità del principio»; nello stesso senso si veda VILLANACCI, La buona fede oggettiva, Napoli, 2013, 54 che alla nota 76 riporta il medesimo pensiero da parte di diversi Autori: «sostiene «l’impossibilità di una definizione precisa ed aprioristica del contenuto normativo delle regole della correttezza e della buona fede» U. NATOLI,

L’attuazione del rapporto obbligatorio, cit., p. 129, il quale assume perfino che «della buona fede non si possa dare una definizione giuridica». Sul punto anche A. DI MAJO, Delle

obbligazioni, cit., p. 304, per il quale sono irrisolvibili i problemi di definizione del contenuto della stessa; S. RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto, cit. p. 189, sottolinea l’impossibilità di ridurre la buona fede e, in genere, le clausole generali, in «concetti definiti una volta per tutte»; G.CATTANEO, Buona fede obiettiva e abuso del diritto, cit. p. 618, giunge

a vedere nella regola una norma in bianco; C.M.BIANCA, Inadempimento delle obbligazioni,

in Comm. cod. civ. Scialoja e Branca, Art. 1218-1229, Bologna- Roma, 1980, p. 93, il quale dubita si possa stabilire «un sicuro significato di buona fede»; ID., La nozione di buona fede

quale regola di comportamento contrattuale, cit., p. 205 ss., ove l’Autore denuncia i fallimenti della dottrina nel tentativo di elaborare una definizione soddisfacente. In particolare questi sottolinea come «il tentativo dottrinario di dare al precetto di buona fede il contenuto dei principi generali dell’ordinamento o dei principi costituzionali non ha d’altro canto sortito alcun tangibile risultato in quanto il precetto è rimasto una formula in bianco, non sufficientemente determinata e quindi scarsamente utilizzabile come criterio di condotta e decisione»».

34 Un tentativo in questa direzione si rende, tuttavia, necessario; non tanto per l’importanza di giungere ad un conclusivo risultato definitorio90 in sé,

risultato che peraltro, come si avrà modo di evidenziare nel presente lavoro, costituisce una aspirazione non sempre condivisibile91, bensì per giungere a

sottolineare le differenze, ove se ne riscontrassero, tra le due clausole generali ma, soprattutto, ed è questo l’aspetto che conta veramente, il rapporto tra queste sotto il profilo funzionale e sistematico, alla luce del contributo fondante che i richiamati concetti possono dare alla categoria degli obblighi di protezione e al contratto con effetti protettivi nei confronti di terzi.

Muovendo dal rapporto tra la disposizione di cui all’art. 1175 e quella di cui all’art. 1375 c.c., un primo92 tentativo di distinzione è stato proposto

impiegando il criterio soggettivo.

Stabilito quale ambito di rilevanza il rapporto obbligatorio, si è affermato che la norma sulla correttezza avrebbe quale suo unico referente il creditore, mentre la seconda disposizione concretizzerebbe un obbligo di comportamento a carico del solo debitore93.

(90) Consci delle reali difficoltà segnalate della dottrina, così come riportate alla nota

precedente. Si veda anche, sul punto, PIRAINO, La buona fede in senso oggettivo, Torino, 2015, 8 ss.

(91) In merito alla non condivisibilità del voler ridurre una clausola generale ad una

definizione dommatica valevole una volta per tutte, si veda il par. 2.3.

(92) Non in senso cronologico, bensì secondo l’ordine d’analisi che qui si intende seguire. (93) Cfr. BIGLIAZZI GERI, Buona fede nel diritto civile, cit., 170 che nel riferirsi a quanto

sostenuto da NICCOLÒ (Adempimento, in Enc. dir., Milano, 1958, 554 ss.) afferma come «in un non meno grave equivoco è parsa, d’altra parte, cadere certa dottrina, quando nell’esaminare il fenomeno dal punto di vista dei soggetti, afferma – apparentemente fuorviata dalla lettera del § 242 BGB – che la buona fede ex art. 1375 c.c. riguarderebbe il solo debitore». Cfr. anche RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto,cit., 136, nota 49. V’è poi la posizione di chi, pur ritenendo gli obblighi derivanti dalla correttezza in astratto come riferibili ad entrambe le parti, ne afferma una maggiore cogenza in capo al creditore; in questo senso cfr. FALZEA, L’offerta reale e la liberazione coattiva del debitore, cit., 56-57 «commette cioè una violazione dei patti contrattuali e, con ciò stesso, del comando giuridico che attribuisce forza di legge a tali patti (1372 c.c.), nonché del comando giuridico che impone indistintamente al creditore, allo stesso modo che al debitore, il dovere di «comportarsi secondo le regole della correttezza» (art. 1175 c.c.): norma questa che indubbiamente assume un significato assai più intenso per il creditore, anziché per il debitore, la cui condotta è già vincolata dall’obbligo di prestazione che su di lui grava. Il suo contegno costituisce perciò un illecito da un duplice profilo: da una parte perché contraddice all’obbligo negativo di non ostacolare l’adempimento e dall’altra perché contraddice all’obbligo positivo di cooperarsi all’adempimento». Sostanzialmente nello stesso senso era già il pensiero di GIORGIANNI, L’obbligazione. La parte generale delle obbligazioni, cit., 148, il quale, a proposito dell’art. 1175, afferma: «a nostro avviso, questa norma ha lo scopo precipuo (scopo che appare, sia pure adombrato, nella Rel. al Re, n. 558) di non aggravare la posizione del debitore. Ed infatti, dato che la legge impone già a quest’ultimo l’obbligo di usare nell’adempimento dell’obbligazione una certa diligenza (cfr. soprattutto art. 1176), la norma dell’art. 1175, pur essendo

35 Tale tesi, però, non persuade sotto molteplici profili.

Innanzitutto, manca qualsivoglia profilo letterale o sistematico che possa indurre ad una conclusione in tal senso.

Ed anzi, l’art. 1175 recita che «il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza» prevedendo, dunque, esplicitamente, quali destinatari della propria previsione sia il creditore che il debitore.

Ed anche volgendo lo sguardo alla disciplina di cui all’art. 1375, in base alla quale «il contratto deve essere eseguito secondo buona fede» non si ottiene, di certo, alcune elemento utile a sostenere una qualche limitazione di operatività della norma sotto il profilo soggettivo.

Infatti, l’esecuzione del contratto è fenomeno, di per sé, riferibile ad entrambe le parti; inoltre, la portata della disposizione investe tutte le parti contrattuali, nonché in una corretta visione del rapporto obbligatorio, tutti gli effetti del contratto stesso, sia sotto il profilo dell’esecuzione della prestazione che del complesso di obblighi a questa collegata94.

Ferma la chiarezza del dato testuale, già di per sé probabilmente risolutiva, contro la tesi della differenziazione soggettiva di cui sopra, può richiamarsi, sinteticamente, anche la storia redazionale delle due disposizioni.

All’art. 73 del Progetto preliminare del libro delle obbligazioni del 1940 si era stabilito, in un primo momento, che l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nell’esecuzione della prestazione, dovesse porsi a carico (del solo) debitore. Ma, dagli atti della Commissione delle assemblee legislative95

emerge, invece, come venne immediatamente sottolineata la necessità che l’obbligo di conformarsi ai comportamenti derivanti dalla clausola generale

apparentemente diretta egualmente al debitore e al creditore, è in realtà diretta soprattutto al secondo di essi. Con questo non vogliamo dire che, rispetto al debitore, la norma dell’art. 1175 si debba considerare assorbita da quella che gli impone una certa diligenza nell’adempimento. Noi siamo invece convinti che le due norme devono considerarsi assolutamente autonome, ma vogliamo solo rilevare che il dovere di comportarsi secondo correttezza posto dall’art. 1175 acquista di gran lunga maggiore rilievo nei confronti del creditore, in quanto il debitore ha già un dovere di comportarsi, durante la vita dell’obbligazione, in un certo modo (art. 1176)».

(94) RODOTÀ,Le fonti di integrazione del contratto,cit., 136. Nello stesso senso, NATOLI,

L’attuazione del rapporto obbligatorio, cit.,9: «sarebbe d’altra parte, facile osservare che, parlando di esecuzione del contratto, l’art. 1375 comprende tutti gli effetti di esso e vale, quindi, non soltanto per l’adempimento dell’obbligazione, ma anche per l’esercizio dei corrispondenti diritti»; cfr., altresì, i riferimenti ivi indicati alla nota 19.

(95) Cfr. Atti della Commissione delle Assemblee legislativa chiamata a dare il proprio parere

36 di buona fede dovesse essere stabilito anche a carico del creditore, proprio per le inique conseguenze che ne sarebbero diversamente derivate.

Scartata, dunque, la disposizione nella sua originaria formulazione, perché non più rispondente ad una visione allargata, moderna e solidaristica del rapporto obbligatorio, venne redatto l’art. 1175 del codice civile nella sua odierna formulazione con lo scopo specifico di includere, quali propri destinatari, sia il creditore che il debitore.

Anche alla luce di tale circostanza, non possono pertanto più ritenersi condivisibili, in questo ed altri ambiti, quelle interpretazioni frutto di una visione incentrata esclusivamente sulla figura del debitore e sulla di lui prestazione.

Per comprendere correttamente il rapporto obbligatorio, così come configurabile nell’attuale ordinamento positivo, è necessario muovere, innanzitutto, da una «rivalutazione del ruolo proprio di entrambi i soggetti del rapporto obbligatorio»96.

Infatti, il fenomeno obbligatorio, colto nella sua interezza, non può non tenere conto unitamente della posizione del creditore e del debitore, e di come l’attività di entrambi possa avere ripercussioni non solo in merito all’adempimento della prestazione, ma anche sulle sfere giuridiche delle stesse parti.

Inoltre, la teoria in base alla quale il contenuto dell’art. 1175 sarebbe da riferirsi esclusivamente al creditore avrebbe una ulteriore conseguenza di non poco momento: l’unica norma riferibile al debitore rimarrebbe l’art. 1176, in tema di diligenza nell’adempimento.

Una tale affermazione sarebbe giustificabile, solo ove si ritenesse che la nozione di diligenza e quella di correttezza siano perfettamente sovrapponibili l’una all’altra97.

(96) Così RODOTÀ,Le fonti di integrazione del contratto, cit., 136.

(97) Cfr. BIGLIAZZI-GERI, Buona fede nel diritto civile, cit., 170: «e quanto all’art. 1175, per

espungere dal testo della norma, tamquam non esset, il riferimento al debitore, bisognerebbe dimostrare la sostanziale coincidenza tra correttezza e diligenza, sì da poter dire che un comportamento già passato al vaglio della seconda debba sfuggire, rendendolo inutile, ad un controllo da effettuare sulla scorta della prima. Dimostrazione impossibile, data la reale diversità (e conseguente infungibilità) tra criterio della correttezza (e della buona fede) e criterio di diligenza e l’ovvia (ma regolarmente ignorata) constatazione che, se un comportamento negligente

37 Ed infatti, al fine di sostenere tale tesi, l’unica giustificazione potrebbe fondarsi sulla circostanza che, in realtà, avuto riguardo alla posizione debitoria, la clausola generale di correttezza coinciderebbe col medesimo contenuto espresso dal concetto di diligenza.

In ogni altro caso, tale affermazione sarebbe insostenibile e urterebbe contro la previsione espressa delle due distinte norme.

Pur ripromettendosi di affrontare successivamente, in maniera più dettagliata, il problema dei rapporti tra buona fede e diligenza98 si può, sin da

subito, affermare come tale tesi non possa essere condivisa sotto alcun profilo e sia, probabilmente, da ricondursi nella sua genesi iniziale a quella visione unilaterale, ormai superata, del rapporto obbligatorio nella quale, di fatto, unico protagonista era il soggetto debitore e la prestazione da lui dovuta.

Accanto a tale ultima ragione di ordine storico-evolutivo del rapporto obbligatorio, in ogni caso, il dato testuale che indica chiaramente come destinatari del concetto di correttezza le parti e come destinatario della previsione di diligenza ex art. 1176 c.c. il solo debitore, appare davvero incontrovertibile.

Se quanto sin qui rilevato può ritenersi condivisibile, può escludersi che un’analisi condotta impiegando un criterio di tipo soggettivo sarà in grado di apportare elementi utili, nel chiarire i rapporti intercorrenti tra la correttezza e la buona fede. Pertanto, si dovrà ora procedere a verificare se, invece, mediante un’analisi condotta con l’ausilio di criteri oggettivi si potranno ottenere risultati più soddisfacenti. In tale prospettiva, un aspetto di differenziazione sarebbe da rinvenirsi nella circostanza che l’art. 1375 non sarebbe applicabile alle obbligazioni non contrattuali99. A fondamento di tale

assunto starebbe, in sostanza, la particolare collocazione topografica della disposizione, all’interno del codice civile.

A tale ricostruzione si è replicato che «nella sua accezione più comune, questa tesi implica l’esclusione delle sole obbligazioni legali dall’ambito di operatività

è scorretto, non sempre è vera la reciproca: un comportamento, pur improntato ad un massimo di diligenza, potrebbe infatti risultare, nelle circostanze del caso concreto, obiettivamente scorretto». Nello stesso senso, si veda RODOTÀ, Le fonti di integrazione, cit., 136 ss.

(98) Si veda, in particolare, il terzo capitolo della prima parte del presente lavoro. (99) Cfr. RODOTÀ,Le fonti di integrazione del contratto,cit., 138, nota 55.

38 dell’art. 1375; quest’ultimo, infatti, sarebbe applicabile a tutte le altre obbligazioni non contrattuali grazie al rinvio dell’art. 1324, la cui discussa interpretazione deve far propendere per la più ampia operatività»100.

In base ad una impostazione analoga a quella da ultimo considerata, la collocazione dell’art. 1375 nel sistema del codice civile e la sua riferibilità ai contratti comporterebbe che la portata di tale disposizione debba essere limitata «in primo luogo alle vicende di immediato ed esclusivo interesse contrattuale»101. Una tale affermazione non convince soprattutto per la

difficoltà (e non univocità) dell’individuare quali possano essere, in concreto, le vicende di «immediato ed esclusivo interesse contrattuale»102.

L’effetto ultimo di una tale impostazione, per quanto di interesse in questa sede, sarebbe quello di negare che alla clausola di buona fede possa ricondursi una qualunque valenza integrativa.

Pare, inoltre, che si sia trascurato, nella formulazione della teoria sopra riportata, la considerazione della clausola di buona fede così come disegnata all’interno di tutto il codice civile103, limitandosi all’interpretazione di una

norma e solo in base alla sua collocazione sistematica.

Ed infatti, i concetti di buona fede e correttezza dovrebbero essere analizzati alla luce della loro molteplice presenza all’interno del codice civile, al fine di giungere ad una visione coerente con tutto l’ordinamento nel quale

(100) Cfr. RODOTÀ,Le fonti di integrazione del contratto, cit., 138.

(101) Cfr. MANCINI, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano, 1957, 73.

Tale tesi, una volta applicata agli istituti previsti nel codice civile, risulterebbe, di fatto, riferibile agli artt. 1467 e ss., rispetto ai quali la buona fede secondo l’Autore ne costituirebbe il fondamento. Critici nei confronti della tesi di MANCINI sono RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto, cit., 140 (cfr. nota successiva nel testo) e DI MAJO, Delle Obbligazioni in generale, cit., 293 ss., il quale pur riconoscendo come l’indagine condotta da MANCINI abbia avuto il merito di cercare di spostare l’analisi sui contenuti sostanziali della correttezza e buona fede, osserva come la stessa argomentazione non convinca poiché «si capovolge in sostanza un trend evolutivo contrassegnato dalla codificazione del 1942, con riferimento alla recezione del principio di correttezza, quale regula aurea del diritto delle obbligazioni (art. 1175)».

(102) Ed inoltre, anche a voler concordare con la tesi riportata nel testo, in realtà il

fondamento della stessa dovrebbe essere ricercato altrove; RODOTÀ,Le fonti di integrazione del contratto, cit., 140, rileva come la «ratio degli artt. 1467 e ss. deve essere ricercata nell’equità, piuttosto che nella buona fede».

(103) Riporta, a proposito dell’ampio impiego della clausola di buona fede nel codice civile,

VILLANACCI, La buona fede oggettiva, cit., nota 110, come «già in tempi non recenti S. ROMANO, voce Buona fede, in Enc. Dir., V, Milano, 1959, p. 677, evidenziava che al pari della mala fede, la buona fede veniva richiamata nel codice civile circa settanta volte. Ad oggi vi è stato sinanche un incremento, tant’è che i richiami alla sola buona fede sono settantacinque».

39 gli stessi risultano calati e dal quale traggano le loro caratteristiche strutturali e funzionali104.

1.6 Le clausole generali di buona fede e correttezza quali fondamento della