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IL FASCINO DELL’ARRABAL

2.2 Rievocazioni e frammenti della Buenos Aires postribolare

2.2.2 Cortázar, o i mostri della milonga

Una visione altrettanto priva di sentimentalismo del mondo delle milonghe della capitale – locali da ballo che confinavano o coincidevano con quelli del vizio – l’aveva del resto già offerta Julio Cortázar, scrittore particolarmente sensibile al fascino dei personaggi eccentrici e marginali, in “Las puertas del cielo”, pubblicato nel 1951 all’interno della raccolta Bestiario.

La donna di cui parla il racconto è una ex prostituta e la narrazione si apre con la sua morte. Due elementi, il decesso della prostituta redenta – che sembra richiamare la ricorrente assenza del lieto fine per le mujeres de la vida, anche quando “la vita” scelgono di abbandonarla – e la sua causa, quella tisi che all’epoca affliggeva molte prostitute reali e romanzesche, collegano questa narrazione così diversa dalle altre (la si può annoverare infatti nella serie dei racconti fantastici di Cortázar) alla produzione analizzata finora. Ma l’accostamento è reso possibile soprattutto dall’accurata descrizione dell’ambiente delle milonghe offerta dal testo.

La prospettiva che propone il racconto è quella di un avvocato appartenente alla Buenos Aires “bene”, che per questioni lavorative entra in contatto con il popolano Mauro e sua moglie Celina – ragazza che questi ha riscattato da una milonga di bassa lega nella quale le ballerine erano costrette a prostituirsi – e si trova a trascorrere molto tempo con loro, nel tentativo di catturare frammenti di esistenze così diverse dalla sua.305

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Rileva infatti Florencia Abbate: «El autor fue pionero en sumergirse en la ciudad de Buenos Aires con la convicción de que ella es la más extraórdinaria fuente de múltiples ficciones, la mejor fábrica de personajes y argumentos y no meramente un lugar donde los hechos se “ambientan”», in “La exploración de las líneas heterodoxas. Enrique Wernicke, Bernardo Kordon, Arturo Cerretani, Alberto Vanasco”, in N. Jitrik (a cura di), Historia Crítica de la Literatura Argentina, vol. 9: El oficio se afirma, a cura di S. Saítta, Emecé, Buenos Aires 2004, p. 581.

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«Me gustaba salir con Mauro y Celina para asistir de costado a su dura y caliente felicidad. Cuanto más me reprochaban estas amistades, más me arrimaba a ellos (a mis días, a mis horas) para presenciar su existencia de la que ellos mismos no sabían nada», J. Cortázar, “Las puertas del cielo”, in Bestiario (1951), Santillana, Madrid 2001, p. 122.

Attraverso la voce di questo freddo legale che – al pari di un entomologo dedito a collezionare insetti di vario tipo – è solito compilare delle schede informative su personaggi e luoghi più o meno equivoci, Cortázar descrive l’anima milonguera di Celina, la quale fa fatica a distaccarsi dal mondo del ballo per abituarsi alla monotona vita del sobborgo. Le sue difficoltà nell’adattarsi non inducono però la ragazza a seguire l’esempio di altre milonguitas letterarie, che abbandonano la vita onesta per ritornare in un mondo al cui richiamo non riescono a sottrarsi. E, forse in linea con Tuñón – che almeno in apparenza appoggiava la scelta delle prostitute di intraprendere o tornare sulla strada del vizio –, Cortázar ritiene che sia stato un errore per Celina scegliere di vivere una quotidianità tranquilla ed un po’ grigia vicino al suo Mauro:

Irse con Mauro había sido un error. Lo aguantó porque lo quería y él la sacaba de la mugre de Kasidis, la promiscuidad y los vasitos de agua azucarada entre los primeros rodillazos y el aliento pesado de los clientes contra su cara, pero si no hubiera tenido que trabajar en las milongas a Celina le hubiera gustado quedarse. Se le veía en las caderas y en la boca, estaba armada para el tango, nacida de arriba abajo para la farra. Por eso era necesario que Mauro la llevara a los bailes, yo la había visto transfigurarse al entrar, con las primeras bocanadas de aire caliente y fuelles. A esta hora, metido sin vuelta en el Santa Fe, medí la grandeza de Celina, su coraje de pagarle a Mauro con unos años de cocina y mate dulce en el patio. Había renunciado a su cielo de milonga, a su caliente vocación de anís y valses criollos. Como condenándose a sabiendas, por Mauro y la vida de Mauro, forzando apenas su mundo para que él la sacara a veces a una fiesta.306

La distanza del narratore rispetto al mondo di Celina è evidente, ed emerge con prepotenza nella descrizione della milonga in cui egli si reca insieme a Mauro dopo la morte della donna.307 In questa occasione si ripresenta la metafora infernale di Gálvez, non più utilizzata però per denunciare le crudeltà a cui vengono sottoposte le prostitute, ma per sottolineare con una certa ironia il senso di estraneità provato da un

Tale atteggiamento caratterizzerà anche i protagonisti del già citato “El otro cielo” (1966) – da segnalare la ricorrenza della parola cielo, destinata però ad assumere diverse connotazioni, nel titolo di entrambi i racconti – e di “Diario para un cuento” (1982), che sarà analizzato nell’ultimo capitolo di questo studio.

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Ivi, pp. 132-133.

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Che si apre in questo modo: «En mis fichas tengo una buena descripción del Santa Fe Palace, que no se llama Santa Fe ni está en esa calle, aunque sí a un costado. Lástima que nada de eso pueda ser realmente descrito, ni la fachada modesta con sus carteles promisores y la turbia taquilla, menos todavía los junadores que hacen tiempo en la entrada y lo calan a uno de arriba abajo», ivi, pp. 128-129.

uomo appartenente alla buona società di fronte ad un ambiente che si presenta ai suoi occhi come «el caos, la confusión resolviéndose en un falso orden: el infierno y sus círculos. Un infierno de parque japonés a dos cincuenta la entrada y damas cero cincuenta».308 L’avvocato rivela inoltre che ciò che lo spinge ad addentrarsi in una simile bolgia è la possibilità di osservare da vicino i suoi frequentatori, da lui catalogati come “mostri”:

Me parece bueno decir aquí que yo iba a esa milonga por los monstruos, y que no sé de otra donde se den tantos juntos. Asoman con las once de la noche, bajan de regiones vagas de la ciudad, pausados y seguros de uno o de a dos, las mujeres casi enanas y achinadas, los tipos como javaneses o moscovíes, apretados en trajes a cuadros o negros, el pelo duro peinado con fatiga, brillantina en gotitas contra los reflejos azules y rosa, las mujeres con enormes peinados altos que las hacen más enanas, peinados duros y difíciles de los que les queda el cansancio y el orgullo.309

Interessante il fatto che, superata ormai l’ondata xenofoba di inizio Novecento che considerava gli immigrati ricettacolo di ogni vizio, bruttura e bassezza, il narratore classifichi la «achinada» Celina, e non il suo compagno Mauro – che vanta origini italiane –, come appartenente alla schiera dei mostri milongueros:

Mirando de reojo a Mauro yo estudiaba la diferencia entre su cara de rasgos italianos, la cara del porteño orillero sin mezcla negra ni provinciana, y me acordé de repente de Celina más próxima a los monstruos, mucho más cerca de ellos que Mauro y yo. Creo que Kasidis la había elegido para complacer a la parte achinada de su clientela, los pocos que entonces se animaban a su cabaré.310

Ma anche in “Las puertas del cielo” c’è spazio per la poesia ed il lirismo, riservati alla vera anima di questa «milonga rea», Celina, e veicolati dalle note di un tango in un’atmosfera fumosa che rende possibile il manifestarsi dell’evento fantastico – il materializzarsi della defunta sulla pista da ballo –, mostrando l’unico lieto fine possibile per l’ex prostituta:

308 Ivi, p. 129. 309 Ivi, p. 131. 310 Ivi, p. 132.

Celina seguía siempre ahí, sin vernos, bebiendo el tango con toda la cara que una luz amarilla de humo desdecía y alteraba. Cualquiera de las negras podría haberse parecido más a Celina que ella en ese momento, la felicidad la transformaba de un modo atroz, yo no hubiese podido tolerar a Celina como la veía en ese momento y ese tango. Me quedó inteligencia para medir la devastación de su felicidad, su cara arrobada y estúpida en el paraíso al fin logrado; así pudo ser ella en lo de Kasidis de no existir el trabajo y los clientes. Nada la ataba ahora en su cielo sólo de ella, se daba con toda la piel a la dicha y entraba otra vez en el orden donde Mauro no podía seguirla. Era su duro cielo conquistado, su tango vuelto a tocar para ella sola y sus iguales, hasta el aplauso de vidrios rotos que cerró el refrán de Anita, Celina de espaldas, Celina de perfil, otras parejas contra ella y el humo.311

Ma il povero Mauro, ancor più distante dal mondo dei mostri del narratore stesso, non riuscirà ad ignorare i vincoli e le leggi del mondo reale, liquidando lo straordinario evento appena verificatosi come un banale caso di somiglianza tra una sconosciuta ballerina e la sua sposa. Del resto nella narrativa di Cortázar i personaggi “normali” si rivelano solitamente incapaci di cogliere l’insolito, di oltrepassare la facciata della quotidianità per esplorare mondi diversi dal proprio... Per riuscire in una simile impresa ci vogliono i mostri, o chiunque abbia la capacità di usarli come mediatori.

Con “Las puertas del cielo”, dunque, all’opposizione tutta urbana e sociale tra centro e periferia si aggiunge quella tra terra e cielo, ed è proprio la prostituta Celina, finalmente restituita al suo ambiente, a poter aprire le porte di comunicazione con lo spazio ultraterreno. Nel finale della storia il narratore rimane allora a guardare – con quel senso di superiorità conferitogli dalla capacità di penetrare un mistero che la mente semplice di un popolano non può accettare (e ribadendo dunque ancora una volta la distanza tra i due mondi di appartenenza) – i tentativi di Mauro di ritrovare sulla pista da ballo quella che crede essere una sosia della sua Celina, «mirándolo ir y venir sabiendo que perdía su tiempo, que volvería agobiado y sediento sin haber encontrado las puertas del cielo entre ese humo y esa gente».312

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Ivi, p. 138.

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I testi analizzati finora dimostrano come nell’ambito della letteratura argentina narrazioni profondamente diverse tra loro abbiano costantemente – ed in diversi momenti storici – tentato di far rivivere la Buenos Aires del passato, e quanto sia forte l’ambiguo fascino esercitato sui loro autori dall’ormai remota epoca dell’auge postribolare della capitale. Questo particolare mondo continua infatti a riproporsi instancabilmente non solo nelle opere degli scrittori degli anni Venti e Trenta, ma anche in quelle degli anni Cinquanta e Sessanta, in un filone narrativo ricco di possibilità e capace di restituire al lettore esistenze che altrimenti sarebbero rapidamente cadute nell’oblio, e che si rivelano invece indispensabili per documentare le trasformazioni e le contraddizioni di una delle più grandi e complesse metropoli dell’America Latina.