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202 E. Sciacca, Riflessi del costituzionalismo europeo in Sicilia (1812-1815), cit., p. 46. 203 L’elettività dei consigli civici, introdotta dalla carta costituzionale siciliana, provocò delle vere e proprie lotte in ambito locale. Le forze borghesi, che avevano per la prima volta la possibilità di acquistare uno spazio pubblico da cui far sentire la propria voce, cercarono in ogni modo di conquistare la rappresentanza comunale. L’aristocrazia, la nobiltà di provincia denunciava – nel tentativo di difendere il monopolio del potere locale, tradizionalmente sua prerogativa – che nella designazione dei consiglieri comunali si mettesse in atto una deliberata esclusione del ceto nobiliare. I contrasti generatisi a livello locale per il controllo dei consigli comunali fecero sì che nell’isola si diffondesse un giudizio carico di allarmismo sull’operato dei consigli derivanti dal nuovo ordinamento costituzionale. «Gli attacchi de’ consigli civici sulla classe più possente dello stato furono diretti; […] I consigli civici opinandosi corpi legislativi indipendenti le più incendiarie proposte contro la proprietà avanzavano. […] era la classe de’ proprietarî in tale lotta attaccata ed il malcontento in essa magistrevolmente si diffuse. Considerando i componenti del consiglio civico come coloro, che nulla possedendo alle altrui proprietà col mendicato pretesto del ben pubblico voleano attentare» (F. Paternò Castello, Saggio storico e politico sulla Sicilia dal cominciamento del secolo XIX al 1830, cit., pp. 91-92).

Il parlamento costituente, convocato secondo l’antico rito, si sciolse il 4 novembre del 1812. La costituzione, le cui basi erano state approvate in un’atmosfera carica di speranze, finiva però per scontentare tutti. Su molte questioni, lo si è visto, i diversi bracci avevano espresso pareri discordanti e, una volta ultimati i lavori parlamentari, le diverse forze politiche anziché lasciare da parte i dissensi e operare per mettere in pratica quanto stabilito, si comportarono in modo tale da pregiudicare sul nascere il nuovo ordinamento che il parlamento, nell’insieme delle sue componenti, aveva decretato.

L’aristocrazia, il partito costituzionale, che avrebbe dovuto sostenere la nuova carta costituzionale si era spaccato sulla questione dei fedecommessi204; i contrasti tra il principe di Belmonte e lo zio, principe di Castelnuovo, oltre a diversità di vedute su questioni strettamente politiche, si alimentavano di una certa inquietudine e invidia che il nipote nutriva nei confronti dello zio, per la stima e la considerazione di cui questi godeva presso Lord Bentinck e in generale presso tutto il popolo di Sicilia. Lo stesso ministero cominciò a perdere unità politica, di vedute, poiché alcuni ministri appoggiavano le posizioni costituzional-aristocratiche di Belmonte, altri erano fedeli al Castelnuovo, e ci fu persino chi si riavvicinò alla monarchia205:

204 «Le funeste conseguenze che derivarono dall’accanita pugna pe’ fedecommessi, della quale si è parlato, furono quasi incalcolabili. Le acri inimicizie e le virulente querele e contese tra i baroni e gli altri due bracci, che immediatamente ne seguirono, non furono i maggiori mali che la medesima produsse; imperciocché quindi nacque o si fortificò un imponente partito contro la costituzione e il principe di Castelnuovo. […] il prefato ministro s’attirò la malevolenza di molti grandi, perché fu creduto autore e fautore dello scioglimento de’ fedecommessi decretato dal demanio e dagli ecclesiastici» (P. Balsamo, Memorie segrete, cit. p. 122).

205 «Il principe di Cassaro e il principe di Aci, essendosi in quei giorni distaccati dal partito costituzionale, s’erano apertamente schierati dalla parte regia o reazionaria. Il loro repentino voltafaccia se addolorò parecchi amatori di sincera libertà, non meravigliò coloro che conoscevano a fondo i due patrizi transfughi, i quali, lungo la loro non breve carriera politica, s’erano sempre mostrati volgari opportunisti mentre il loro recente patriottismo non era stato che una semplice maschera» (N. Niceforo, La Sicilia e la costituzione del 1812, in «Archivio Storico Siciliano» XLIV, (1922), p.

«Apparve allora in piena luce l’equivoco radicale che si nascondeva nel tentativo costituzionale di assegnare una funzione analoga a quella dell’aristocrazia liberale inglese al baronaggio siciliano: al quale mancava proprio quella capacità di autocontrollo e di autolimitazione attraverso la quale la nobiltà britannica, educata da una esperienza secolare alla sua funzione di classe dirigente, garantiva lo svolgimento e la libera affermazione di tutte le forze vive del paese»206.

La gran parte della nobiltà siciliana, che aveva accettato la costituzione e l’abolizione della feudalità non per intime convinzioni genuinamente liberali, ma perché sperava di trarne vantaggi personali, di classe – che andavano dal pieno possesso delle terre liberate da vincoli, aggravi e usi civici, alla facoltà di varare leggi concessa dalla nuova costituzione che stabiliva, come s’è detto, che il potere legislativo apparteneva al parlamento – fu delusa dalla situazione che si venne a creare dopo l’approvazione del documento costituzionale. I ceti dirigenti di importanti città come Catania e Messina reclamarono contro la costituzione che, a loro dire, sacrificava gli interessi dei comuni 207 . I fautori della Corte lamentavano che la nuova costituzione limitava enormemente le prerogative reali facendo del sovrano «un semplice salariato, un Re di mostra, senza le funzioni e la influenza della sovranità»208. Lo scontento generale nutrito nei confronti della nuova costituzione siciliana si doveva anche alla circostanza per cui durante i lavori del parlamento del ‘12 i punti fondamentali del documento non erano stati approvati all’unanimità dai tre bracci ma, su diverse questioni, la ratifica si era ottenuta malgrado la disapprovazione dell’uno o l’altro dei bracci. Il braccio demaniale si era opposto all’eversione del sistema feudale e all’inalienabilità dei beni

127). Cfr. anche N. Palmeri, Saggio storico e politico sulla Costituzione del Regno di Sicilia, cit. p. 175.

206 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, cit. p. 145. 207 F. Renda, La Sicilia nel 1812, cit. p. 274.

ecclesiastici; l’aristocrazia si era schierata, tra le altre misure approvate, contro l’abolizione dell’istituto fedecommissario, l’attribuzione della gestione delle finanze al ministero, la nuova organizzazione delle magistrature. Il braccio ecclesiastico si era opposto alla libertà di stampa e alla chiusura del tribunale della Chiesa209. Il dissenso verso la carta costituzionale210 venne a determinare una situazione per cui:

«a misura che si avvicinava l’apertura del Parlamento si rendeano più volgari le voci, che la costituzione era oscura, imperfetta, e fin contraddittoria in molti luoghi; che i ministri avrebbero potuto proporne una più libera e più democratica; che essa non bastava a tenere a freno il dispotismo, il quale dalle mani del re era passato in quelle de’ ministri»211.

A quanto si è appena detto si somma il fatto che mancava nell’isola un personale efficiente e preparato che potesse riorganizzare lo stato sulla base delle nuove disposizioni costituzionali. L’aristocrazia, l’unica classe sociale che fino a quel momento avesse “fatto politica” non era preparata per dirigere lo stato, la sua attività politica, precedentemente, era stata indirizzata contro lo stato, contro l’assolutismo borbonico. Mancavano alla classe dirigente isolana uomini che avessero la preparazione per governare. Tra gli stessi leaders del partito costituzionale inglese, Castelnuovo, altrove definito «il maggiore ingegno politico della Sicilia

209 F. Renda, La Sicilia nel 1812, cit. p. 279.

210 Vi furono, invero, diverse proposte di modifica della carta costituzionale, sia da parte dei costituzionali (il principe di Castelnuovo suggerì al vicario reale di non sanzionare gli articoli relativi all’organizzazione consigli civici), sia da parte di giuristi come Tommaso Natale; cfr. T. Natale, Memoria intorno alla nuova Costituzione del 1812, Biblioteca Comunale di Palermo, ms. del secolo XVIII, 2Qq G107, n. 4; il testo integrale della memoria in F. Guardione, Della efficacia e necessità delle pene ed altri scritti di Tommaso Natale, con uno studio critico di F. Guardione ed introduzione del prof. G. B. Impallomeni, Palermo, 1895; cfr. L. Genuardi, Tommaso Natale e la costituzione del 1812, in «Archivio Storico Siciliano», XLIII (1921), pp. 361-368. 211 N. Palmeri, Saggio storico e politico sulla Costituzione del Regno di Sicilia, cit. p. 204.

risorgimentale»212, «era più idoneo a dirigere un governo stabilito che a dare alla macchina politica l’impulso necessario in quella circostanza», Belmonte, a detta del Palmeri, «era più adatto a resistere al potere che a governare»213. Il Castelnuovo oltretutto attirò su di sé le critiche dei capi baroni a causa della sua apertura nei confronti delle forze democratiche messa in atto in previsione dell’inaugurazione del parlamento del 1813, convocato secondo le nuove disposizioni costituzionali. Quest’apertura si concretizzò nelle elezioni politiche del 1813, quando stabilito un accordo tra il democratico Vincenzo Gagliani e il principe di Castelnuovo, furono eletti in diversi collegi candidati costituzionali e democratici 214 . In quest’occasione al principe di Castelnuovo fu rimproverato, anche da parte di protagonisti dell’epoca a lui vicini215, di non aver voluto adoperarsi per garantirsi un solido partito nella camera dei comuni. Probabilmente a causa della sua inesperienza di governo, o perché mal consigliato, il principe finì

212 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, cit. p. 143.

213 N. Palmeri, Saggio storico e politico sulla Costituzione del Regno di Sicilia, cit. p. 202. Sulle difficoltà di organizzare il nuovo stato costituzionale cfr. F. Renda, Tra rivoluzione e restaurazione, cit. pp. 281-282.

214 Secondo Paolo Balsamo il principe di Castelnuovo era del tutto estraneo a questi accordi con il partito democratico, egli «poco esperto nella direzione e condotta di un’assemblea legislatrice aveva […] omesso di praticare qualunque influenza, per ottenere una camera di comuni che fusse nella maggior parte composta di rappresentanti, sul cui attaccamento alla costituzione e al governo si potesse veramente contare», traffici di tal sorta che apparivano indegni e criminali al principe, secondo l’abate furono messi in atto da amici suoi tra i quali Cesare Airoldi, Ruggero Settimo, Luigi Valguarnera, Gaetano Gioieni, i quali «formando un segreto club, fecero diverse pratiche affinché le rappresentanze de’ comuni cadessero sopra uomini di liberali principî e aderenti alla costituzione» (P. Balsamo, Memorie segrete, cit., p. 147).

215 Sia il Balsamo sia il Palmeri rilevano una certa dose di inesperienza nella condotta politica del Castelnuovo, il quale «non volle o non seppe farsi un partito nella nuova Camera de’ Comuni. S’immaginava egli che chiunque era come lui nemico del passato governo, e cupido di libertà, fosse necessariamente del suo partito. […] Certo si è, che in quella occasione il principe di Castelnuovo o fu indotto in quell’errore dalla sua inesperienza nel maneggio di un governo costituzionale, o fu mal servito dagli amici suoi, i quali s’adoperarono a far cadere le elezioni dei nuovi rappresentanti de’ Comuni sopra gli individui più noti per professare principî liberali», N. Palmeri, Saggio storico e politico sulla Costituzione del regno di Sicilia, cit., p. 203. Il Balsamo critica il principe che «anziché comprimere e guardarsi dai maniaci ammiratori del gallico repubblicanismo, mostrò in diverse occorrenze dell’inclinazione a proteggerli e ad accarezzarli» (P. Balsamo, Memorie segrete, cit., pp. 147-148).

per essere considerato in parte responsabile dell’ingresso in parlamento dei «più noti fra coloro che aveano […] professati i principî del giacobinismo francese»216. Superfluo sottolineare che «tale indirizzo non piacque ai capi baroni, anche perché si ebbe timore che in tal modo, più che verso il costituzionalismo, la Sicilia finisse con l’orientarsi per la democrazia»217. A questa situazione di disagio si aggiunse la circostanza della partenza di Lord Bentinck per la Spagna a capo di una spedizione anglo-sicula. Il fatto fu vissuto dai costituzionali come un grave episodio che avrebbe potuto minare le sorti dell’ancor fragile e nascente libertà siciliana218; l’atteggiamento assunto dal Castelnuovo e dai sui sostenitori testimonia dell’importanza dell’appoggio inglese a difesa del nuovo ordinamento costituzionale che, con la partenza del ministro britannico, veniva a perdere uno dei suoi più validi sostenitori. In quest’atmosfera di scontento e di sospetto che aleggiava attorno alla nuova costituzione si aprì il nuovo parlamento siciliano che, mentre avrebbe dovuto lavorare per portare a compimento quanto decretato nel precedente parlamento costituente, iniziò le attività in un clima carico di ostilità, incertezza e malcontento diffusi.

216 Ivi, p. 203.

217 F. Renda, La Sicilia nel 1812, cit., p. 289.

218 A proposito della partenza del Bentinck «Alcuno non vi fu tra gli amici e partigiani della Gran Brettagna e della buona causa che non avesse altamente riprovata questa imprudente risoluzione del prefato ministro e generale, e che non si fosse adoperato con ogni maniera di preghiere e di argomenti di dissuadernelo. Gli si faceva notare da tutti che “il fuoco non era spento, e che solo v’era sparsa sopra della cenere; che una scintilla, non compressa dalla sua presenza, avrebbe potuto eccitare un grand’incendio; che la libertà della Sicilia era una pianta tenera e nata in un terreno ingrato, e che avrebbe corso pericolo nel suo nascimento di essere soffocata, quando partendo lui fosse stata intempestivamente privata delle opportune cure dell’agricoltore», P. Balsamo, Memorie segrete, cit. p. 146. Al generale inglese furono inviate anche diverse lettere in Spagna al fine di esortarlo a ritornare nell’isola; tra queste anche una missiva del principe di Castelnuovo, che si rendeva conto di non poter fronteggiare l’attacco che da più parti gli veniva sferrato, riportata in F. Guardione, La Sicilia nella rigenarazione politica d’Italia 1795-1860, Palermo, 1912, pp. 139-140.