• Non ci sono risultati.

Nel clima di entusiastica esaltazione per il modello costituzionale inglese che contraddistingue il dibattito politico ideologico che porta alla carta costituzionale del 1812 qualche voce – per così dire – esce dal coro. Accanto al partito cosiddetto inglese, di cui s’è disegnata la variegata composizione interna, nei primi anni dell’Ottocento una vasta porzione degli intellettuali siciliani si distingue per il suo essere immune dal fascino esercitato dalla costituzione britannica e, anzi, si caratterizzerà come opposizione anti-inglese durante il travagliato triennio costituzionale.

La debolezza del partito costituzionale, al di là dei dissensi interni, viene fuori all’indomani delle elezioni per la camera dei Comuni avvenute nella primavera del 1813. Ai lavori del nuovo parlamento riunitosi l’8 luglio del 1813 prese parte un numeroso gruppo di rappresentanti eletti che formò il partito democratico. La presenza del nuovo schieramento turbò i pur precari equilibri del parlamento costituente del 1812. Il partito democratico era composto da individui di estrazione sociale differente rispetto ai membri del partito costituzionale e si faceva portavoce, in seno al parlamento, di interessi e richieste che non erano stati rappresentati nelle sessioni del parlamento costituente, si trattava «di deputati, che il secondare i ministri autori della libertà patria, aveano a vergogna. I membri de’

comuni chiamarono aristocratica la carta, gl’inglesi abborrivano, e ciò che era stata opera del parlamento del 1812 intendevano disapprovare»71 .

I membri più rappresentativi del partito democratico siciliano sono Vincenzo Gagliani72 ed Emanuele Rossi73, esponenti l’uno della corrente moderata, l’altro di una tendenza più decisamente radicale interne al partito. Nell’arena parlamentare i democratici scendevano decisi a contrastare l’orientamento generalmente conservatore – malgrado alcune punte progressiste, ma pur sempre contrarie alla democrazia in quanto appartenenti all’aristocrazia – del partito costituzionale, premendo in direzione di una democratizzazione degli ordinamenti costituzionali del 1812 e dunque di una riforma della carta siciliana considerata «oscura, imperfetta, e fin contraddittoria in molti luoghi (…) che (…) non bastava a tenere a freno il dispotismo, il quale dalle mani del re era passato in quelle de’ ministri»74. Sin dalle prime sedute parlamentari i democratici si scontrarono con i liberal-costituzionali circa la loro pretesa di affermare la superiorità politica del potere legislativo, cosa che non poteva nemmeno essere presa in considerazione dagli avversari che propendevano «secondo il tipico atteggiamento tory per una preminenza del gabinetto su tutto il sistema»75.

Questa corrente di pensiero politico, che tanta parte avrà nelle vicende parlamentati degli anni 1812-1815 si lega idealmente alle tesi di Rosario

71 F. Paternò Castello, Saggio storico e politico sulla Sicilia dal cominciamento del secolo XIX al 1830, Palermo, 1969, p. 92.

72 Cfr. E. Sciacca, Riflessi del costituzionalismo europeo in Sicilia (1812-1815), cit. pp.149-162; S. Tosto, Vincenzo Gagliani, in Giornale dell’Accademia Gioenia di Catania, Tomo I (1834), n.1, pp. 41-48.

73 Su E. Rossi cfr. E. Sciacca, Emanuele Rossi. Contributo alla storia del democratismo nel Risorgimento, in «Memorie e Rendiconti dell’Accademia degli Zelanti di Acireale», vol VI, (1966), pp. 235-316; Idem, Riflessi del costituzionalismo europeo in Sicilia (1812-1815), cit. pp. 162-174, nel medesimo volume è riportato nell’Appendice un opuscolo del Rossi intitolato Per l’abolizione dei fidecommessi, alle pagine 229-240. 74 N. Palmeri, Saggio storico e politico sulla Costituzione del regno di Sicilia, (1847), Palermo, 1972, p. 204.

Gregorio, il più grande intellettuale siciliano del Settecento. Il Gregorio, lo si è già detto, non era un sostenitore della nobiltà e dei suoi privilegi, nella sua grande opera sulla storia del diritto pubblico siciliano, analizza la tradizione giuridica e parlamentare della Sicilia, e anziché trarne argomenti a difesa dell’istituto parlamentare esalta il ruolo della monarchia che, in epoca normanna, «gli appariva sciolta da vincoli parlamentari, nel pieno controllo dei vassallaggi feudali, padrona di un’amministrazione che precorreva di secoli quella dei grandi Stati moderni»76.

Alle idee del Gregorio si riallaccia Vincenzo Gagliani che, nella sua opera più nota – Discorsi sopra lo Studio del Diritto pubblico di Sicilia – elabora una teoria del diritto pubblico siciliano radicalmente opposta alla tesi sostenuta da autori quali il Balsamo, il Palmeri e l’Aceto, convinti assertori della continuità della storia costituzionale siciliana dall’epoca normanna sino al periodo costituzionale del 1812. Nei Discorsi, pubblicati nel 1817, ad esperimento costituzionale concluso, Gagliani sostiene la compresenza nell’isola di due diversi ordinamenti giuridici: uno, il diritto pubblico, facente capo al potere centrale, l’altro, il diritto feudale chiaramente declinato in senso particolaristico, finalizzato alla tutela del potere baronale. È dunque chiaro, secondo quanto appena detto, che l’obiettivo del Gagliani è quello di metter in evidenza l’influenza negativa esercitata dal baronaggio «nel processo di formazione della vera “nazione siciliana” e a demistificare il “mito” della costituzione siciliana nata insieme alla fondazione della monarchia e rimasta incorrotta sino alla “riforma” costituzionale del 1812»77.

Rossi e Gagliani sono entrambi esponenti di quella generazione di giovani provenienti dalla piccola classe borghese che aveva iniziato a formarsi sul finire del secolo precedente nelle zone costiere della Sicilia

76 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, cit., p. 89.

77 E. Sciacca, La questione del giacobinismo in Sicilia. Alcune riflessioni preliminari, in AA. VV., Momenti di storia e pensiero politico in Sicilia. Scritti in ricordo di Ottavio Tortorici, Palermo, 1995, p. 74.

orientale78. Sulla costa ionica dell’isola, tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento, il frazionamento della proprietà terriera aveva permesso lo sviluppo di una varietà di attività economico-agricole, conferendo un maggiore dinamismo (rispetto alla parte occidentale dell’isola) all’economia in generale. Il fermento economico diede i suoi frutti anche in ambito sociale, portando nelle università giovani intelligenze che saranno sensibili alle suggestioni democratiche79. Proprio nell’area catanese si erano, con maggiore facilità, diffuse idee di matrice illuminista. Dopo lo scoppio della Rivoluzione in Francia, non furono in molti ad aderire al giacobinismo80 e ad organizzare gruppi, logge e clubs, tra questi Emanuele Rossi, Giovanni Gambino e Giovanni Ardizzone che a causa dello loro idee e attività cospirative furono costretti a fuggire in Francia o a Malta81; l’isola era allora una base strategica per le operazioni francesi nel Mediterraneo e per una possibile, più volte programmata, invasione della Sicilia.

Il democratismo siciliano però, ebbe forse il limite di non costituirsi come una forza autonoma decisa a scardinare l’ordine delle cose, esso piuttosto «si attendeva la realizzazione del suo programma dal riformismo

78 V. Casagrandi, Vincenzo Gagliani e il contributo di Catania e della Sicilia orientale alle riforme, in «Archivio storico per la Sicilia Orientale», XXI, (1925), pp. 153 ss. 79 «In generale però – ha scritto Romeo – accadeva che, passando rapidamente alla classe degli intellettuali, i figli dei borghesi arricchiti venivano staccandosi sempre più dalla terra e dai suoi problemi, ed agivano sempre più come borghesia intellettuale e sempre meno come rappresentanti dei nuovo patrimoni agricoli. Questo distacco dai problemi più concreti della vita del paese influenzerà anche la loro azione politica, che spesso rivelerà l’inconsistenza e la astrattezza dei suoi motivi ispiratori nella tendenza agli eccessi verbali e agli atteggiamenti faziosi, privi di vero significato rivoluzionario» (R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, cit., pp. 126-127).

80 Cfr., F. Scandone, Il giacobinismo in Sicilia (1792-1802), in «Archivio Storico Siciliano», XLIII, (1921), pp. 279-315, XLIV, (1922), pp. 266-364 ; C. Lo Forte, Sul giacobinismo di Sicilia, in «Archivio Storico per la Sicilia», VIII, (1942), pp. 285-368; R. Tufano, Il linguaggio della Rivoluzione francese in un catechismo politico siciliano del periodo costituzionale (1812-1815), in E. Pii (a cura di), I linguaggi politici della Rivoluzione in Europa, Firenze, 1992, pp. 349 ss.

81 M.P. Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), Napoli, 1992.

assolutistico, al quale era disposto a dare tutto il suo appoggio»82. Quindi piuttosto che a un rivolgimento totale dell’assetto sociale i principi d’ispirazione giacobina esercitarono – per le forze democratiche siciliane – la funzione di ideali ai quali ispirarsi per avanzare le proprie rivendicazioni, quando, mutata la politica del sovrano borbone dopo gli avvenimenti rivoluzionari, poterono esprimersi durante le brevi ma travagliate legislature del parlamento costituzionale siciliano.

In relazione alla partecipazione dei democratici siciliani alle vicende parlamentari del triennio costituzionale Antonino de Francesco, traccia un’interessante via interpretativa del democratismo isolano, per cui l’adesione al regime costituzionale di stampo inglese ben lungi dal rappresentare – negli anni dell’esperimento costituzionale (1812-1815) – la scelta di un «rassegnato abbandono dell’antico riferimento ideale alla matrice istituzionale di stampo francese», costituirebbe piuttosto «il solo terreno a disposizione dove dare forma concreta e pieno esercizio all’evoluzione in senso costituzionale conosciuta durante gli anni dell’Impero dal personale politico italiano (e non) d’origine giacobina»83. De Francesco sottolinea da un lato la continuità ideologica di quella generazione di uomini politici che, imbevuti delle dottrine rivoluzionarie avrebbero continuato a coltivarle malgrado l’apparente divaricazione politica rappresentata della partecipazione al parlamento costituzionale degli anni 1813-1815. Dall’altro – contestando un’affermata tradizione interpretativa secondo cui la Sicilia costituirebbe, negli anni rivoluzionari e napoleonici, una realtà distinta dalle coeve esperienze politiche italiane – traccia un percorso che consente di collegare le vicende degli anni giacobini alle «stagioni della costituzione inglese prima e di Spagna poi» e

82 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, cit. p. 127.

83 A. De Francesco, La Sicilia negli anni rivoluzionari e napoleonici, in E. Iachello (a cura di), I Borbone in Sicilia (1734-1860), Catania, 1998, p. 42.

colloca «il giacobinismo isolano in un contesto largamente italiano»84, non esente da contatti con le direttive rivoluzionarie francesi in merito alla politica estera.