«Le circostanze infelici di Europa, le quali non sono ignorate dai più oscuri abitatori delle campagne, imperiosamente mi obbligano ad avvertirvi che la difesa di questo Regno ha bisogno di straordinari e pronti soccorsi […] La causa che io difendo […] riguarda non solo la mia famiglia, ma la conservazione […] ed in generale tutte le costituzioni politiche di questo Regno a cui Voi siete con stretto vincolo d’amor patrio tenacemente attaccati»111. Così il sovrano annuncia al parlamento, convocato il 15 febbraio del 1810, la richiesta di un donativo straordinario di 360.000 onze l’anno per sopperire alle spese militari del governo. Artefice della condotta finanziaria della corona fu il ministro delle finanze Luigi de’ Medici, il quale oltre ad avanzare la richiesta relativa al donativo aveva in animo di proporre un piano di riforma fiscale112 con il quale «intendeva di rettificare
110 F. Renda, Dalle riforme al periodo costituzionale, cit., p. 271.
111 F. Paternò Castello, Saggio storico e politico sulla Sicilia dal cominciamento del secolo XIX al 1830, cit., p. 62; cfr. anche V. D’Alessandro-G. Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, in Storia d’Italia, Torino, 1989, pp. 641-649.
112 S. M. Ganci, Storia antologica della Autonomia siciliana, Palermo, 1981, vol I, p. 62.
le rate nella proporzione de’ contribuenti alle imposizioni, e, colle dottrine degli economisti francesi, di addossarne principalmente il peso ai possessori di beni stabili». Nella sostanza si trattava di privare i baroni della franchigia di cui godevano, alleggerendo il peso del contributo del popolo, peso che sarebbe andato a gravare sui patrimoni nobiliari.
L’obiettivo principale del Medici era di mettere in cattiva luce il baronaggio, sia agli occhi del popolo sia di fronte agli inglesi113. Il ministro delle finanze contava su di un netto rifiuto da parte dei baroni al donativo e alla riforma fiscale: ciò li avrebbe screditati dinnanzi al popolo che li avrebbe giudicati interessati esclusivamente al loro interesse e nella considerazione che ne avevano gli inglesi. Questi ultimi sostenevano il peso della difesa della Sicilia e avrebbero certamente gradito di dividere l’onere con i siciliani.
La condotta tenuta in questo frangente dalla nobiltà siciliana sbaragliò completamente il Medici e il suo disegno. I baroni non rifiutarono di pagare il donativo richiesto ma ne ridussero l’importo a 150.000 onze e in relazione alla riforma fiscale «l’abate Balsamo produsse […] un piano d’imposizioni che per la singolare novità e pe’ vantaggi che prometteva, s’attirò tutta l’attenzione de’ parlamentarî e del pubblico, e la tolse ai progetti da tanto tempo studiati del cavalier Medici»114.
Il progetto dell’abate – definito “strepitoso” dallo stesso Balsamo nelle sue Memorie segrete – aboliva la varietà dei vecchi donativi, ai quali secondo proporzioni diverse contribuivano i tre ceti dei nobili, degli ecclesiastici e del popolo; sostituiva ai donativi un dazio da applicarsi secondo il valore, stabilito da un nuovo catasto, a tutte le proprietà feudali, allodiali ed ecclesiastiche senza applicare distinzioni di sorta relative ai
113 Sulle idee e i propositi del ministro napoletano cfr. L. De’ Medici, Memorie dei miei tempi, Napoli, 1998.
proprietari delle terre e ai privilegi eventualmente goduti115. La nuova distribuzione del peso fiscale evitava le complicazioni derivanti dalle diverse forme di contribuzione e garantiva che «ogni siciliano con esatta giustizia veniva a pagare all’erario in ragione di quel che possedeva e consumava»116. La monarchia, rimasta “spiazzata” di fronte all’imprevista reazione del baronaggio, si pose il problema circa il comportamento da assumere e si diede il via ai “maneggi” della corte affinché la proposta del re non venisse respinta117.
I voti dei due bracci baronale ed ecclesiastico decretarono la vittoria della proposta che era stata presentata in parlamento dal principe di Belmonte. Restavano aperti i problemi sull’attuazione del piano di riforme. Riscuotere le imposte basandosi sul nuovo piano finanziario non era possibile in tempi brevi: l’ammontare dell’imposta avrebbe dovuto stabilirsi in base al catasto, ma questo non era ancora formulato. Come provvedere alle finanze dello Stato? Il vecchio sistema era abolito e il nuovo non era pronto. Il principe di Belmonte, durante un Consiglio dei ministri si fece promotore di una possibile soluzione proponendo al sovrano di accettare le decisioni del parlamento in merito alla questione dei donativi e di rimandare ad una nuova sessione parlamentare la scelta dei criteri di ripartizione delle entrate al fine di poterne effettuare la riscossione. Dopo l’esame della Giunta dei presidenti, che espresse parere positivo, suggerendo che si accettassero i donativi proposti dal parlamento e che per la loro riscossione, in via provvisoria, si seguissero i metodi abituali, il re convocò nuovamente il parlamento per l’8 agosto.
115 I donativi si dividevano in tredici ordinari, il cui peso gravava sulle classi meno abbienti, e in altri straordinari ai quali contribuivano anche i nobili. Per una dettagliata descrizione della nuova distribuzione del peso fiscale cfr. N. Niceforo, La Sicilia e la costituzione del 1812, cit., pp. 314 ss.
116 P. Balsamo, Memorie segrete, cit., p. 54.
Valutata l’inaspettata forza della reazione baronale la corte comprese di dover modificare la propria condotta politica: «non più intransigenza, ma malleabilità gesuitica, non più violenza, ma simulazione doveva adoperarsi per non darla vinta agli avversarî. Anche un tantino di corruzione non andava trascurata, e con essa un granellino d’incenso da bruciarsi dinnanzi alla vanità siciliana»118. La classe dirigente isolana lamentava da tempo di dover sottostare alle direttive di un governo composto esclusivamente da napoletani; il sovrano per smorzare i toni del contrasto decise di rivedere la composizione del Consiglio Privato inserendovi due consiglieri siciliani: il principe di Butera e il principe di Cassaro. Il principe di Trabia fu nominato ministro delle finanze. Ma il cambiamento di governo non apportò dei miglioramenti sostanziali: le difficoltà politiche e finanziarie rimasero insolute.
La situazione militare del regno di Sicilia, gravata dalla minaccia di un’invasione dell’isola da parte delle truppe di Giocchino Murat diede al sovrano l’occasione di emanare un decreto con il quale s’imponeva una tassa dell’uno per cento su qualsiasi pagamento effettuato tanto dallo Stato quanto dai privati119. Il 14 febbraio del 1811, oltre al su citato decreto la
corona ne emanò altri due con i quali si alienavano i beni dei Comuni e quelli ecclesiastici di regio patronato e s’indiceva una lotteria per la vendita dei beni stessi120. Alla pubblicazione dei decreti lo sdegno fu grande, il primo equivaleva ad un colpo di Stato, erano state violate infatti le prerogative del parlamento: in Sicilia qualsiasi imposta doveva essere
118 N. Niceforo, La Sicilia e la costituzione del 1812, cit., p.322.
119 Lo sbarco delle truppe franco-napoletane guidate dal generale Cavaignac effettivamente avvenne presso il villaggio di Santo Stefano. Ma le truppe, ridotte di numero perché non tutte avevano oltrepassato lo stretto e attaccate dagli inglesi e da bande armate, furono sconfitte. Cfr. F. Guardione, Giacchino Murat in Italia, Palermo, 1899, pp. 44 ss.
120 Per il testo dei decreti del 14 febbraio 1811 cfr. G. Bianco, La Sicilia durante l’occupazione inglese, cit., Appendice.
approvata in sede parlamentare121; malgrado ciò la Deputazione del Regno – che era preposta alla sorveglianza del rispetto delle costituzioni e dei diritti della nazione siciliana – non registrò alcuna violazione delle leggi fondamentali. Alcuni fra i baroni, tra i quali il principe di Castelnuovo, il principe di Villafranca, il principe di Aci, decisero di presentare una protesta alla Deputazione del regno122. La protesta raccolse le firme di quarantatré baroni e fu presentata alla deputazione del regno che «prese qualche tempo innanzi di deliberare sopra la protestazione dei baroni; ma poi la trasmise al re senza commento o raccomandazione veruna, e con ciò si procacciò la malevolenza di tutti i patrioti siciliani, i quali avrebbero desiderato che non tralignando dalla sua primiera istituzione, l’avesse con sua particolar rimostranza, e con ragioni ed esempî validamente sostenuta»123.
La protesta fu spedita dai baroni anche al governo di Londra e, giacché l’influenza inglese negli affari di Sicilia era abbastanza rilevante, i baroni cercarono di farsi alleati, nel loro scontro con la monarchia, i principali rappresentanti del governo britannico nell’isola: il generale Stuart, comandante supremo dell’esercito inglese nell’isola e Lord Amherst, ministro plenipotenziario britannico presso il governo siciliano124. I due
121 Al sovrano era stato consigliato, ai fini di rimanere nel rispetto delle prerogative parlamentari, di fare riferimento al Capitolo I di re Giacomo che consentiva alla corona di imporre tributi straordinari in caso di guerra senza la previa discussione in parlamento. Il Medici, come consigliere di Stato, aveva avanzato però seri dubbi circa il ricorso al detto Capitolo che si riferiva all’epoca feudale, e aveva espresso parere negativo.
122 Il testo della protesta e l’elenco dei baroni firmatari si leggono in N. Niceforo, La Sicilia e la costituzione del 1812, in «Archivio Storico Siciliano», XL, 1915, pp. 34-35. Luigi de’ Medici, si stupisce nel suo Diario della reazione dei baroni che preferirono l’aiuto straniero alla protesta di piazza; in realtà i baroni temendo che una protesta di tal genere avrebbe potuto degenerare verso esiti repubblicani, giacobini, quindi lontani dai loro interessi (essi rimanevano comunque monarchici), preferirono attuare una protesta che rimanesse nell’ambito della legalità; cfr. F. Renda, Dalle riforme al periodo costituzionale, cit., pp. 273-274.
123 P. Balsamo, Memorie segrete, cit., p. 79.
124 In merito alla decisione baronale di chiedere aiuto all’Inghilterra: «apparve loro come la soluzione più semplice e meno rischiosa, anche se comportava la sostanziale
rappresentanti del governo inglese – in procinto di partire per far ritorno in patria – risposero di non poter sostenere i baroni nella loro lotta contro la corte in quanto non avevano l’autorità per interferire negli affari interni di Sicilia, ma che avrebbero riferito le loro lamentele al proprio governo. La corte borbonica, nella persona della sovrana Maria Carolina, chiese alla Deputazione di esaminare il testo presentato dai baroni; il responso della deputazione, sottoscritto da undici dei dodici componenti, stabilì che i decreti reali del febbraio 1811 non avevano violato la costituzione dell’isola; «la maraviglia e lo sdegno occupò gli animi di tutti i siciliani, quando si seppe che questo corpo, il quale per procura del parlamento dovea proteggere e difendere i dritti inconcussi della nazione, avesse, di commissione della corona, con esecrando tradimento rappresentato alla stessa corona, che con l’imposizione dell’un per cento non s’erano violati i privilegi del paese»125.
La corona decide di far arrestare cinque dei baroni che avevano firmato la protesta: il principe di Castelnuovo, il principe di Belmonte, il principe di Aci, il duca d’Angiò e il principe di Villafranca. Nella notte tra il 19 e il 20 luglio del 1811, su indicazione del principe ereditario, i cinque nobili furono arrestati, imbarcati e deportati in diverse isole: Castelnuovo e Belmonte in due castelli a Favignana, Villafranca a Pantelleria, il principe d’Aci a Ustica e il duca d’Angiò a Marettimo126.
rinuncia all’indipendenza della Sicilia […] ciò che impedì alla nobiltà siciliana di apprezzare tutta la gravità di una tale scelta fu soprattutto la mancanza di una tradizione patriottica, e la lunga pratica di servilismo politico verso lo straniero» (F. Renda, La Sicilia nel 1812, cit., p. 180).
125 P. Balsamo, Memorie segrete, cit., p.79. Cfr. anche L. Bianchini, Della storia economica e civile della Sicilia, Palermo, 1841, vol. II, p. 81.
126 «La notizia – ha scritto Niceforo – dell’arresto dei cinque baroni, se costernò o sdegnò molti, non sollevò né la popolazione di Palermo, né quella d’altra città o terra dell’isola: il che prova come, in quel tempo, le idee liberali fossero poco diffuse nel paese. Il re, per le popolazioni, era sempre il loro legittimo sovrano e padrone» (N. Niceforo, La Sicilia e la costituzione del 1812, cit., XL, 1915, p. 271).