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La relativa facilità con la quale i rivoluzionari nel regno delle Due Sicilie

332 A. Scirocco, L’Italia del Risorgimento, cit., p. 99. 333 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, cit., p. 170.

(ma anche in Piemonte) erano riusciti, nella fase iniziale dei moti, a imporre le loro richieste era indice dell’instabilità e della fragilità interna della monarchia restaurata. I provvedimenti applicati sul territorio del regno unito non avevano ancora avuto il tempo per dimostrare la loro validità, né tutte le componenti sociali del regno apprezzavano la spinta monarchico-governativa in direzione della modernità, lo si è visto, per esempio, a proposito delle “maestranze” palermitane direttrici dei tumulti cittadini del ‘20. Il pronto intervento straniero e il ristabilimento di quanto deciso a Vienna collocava ancora una volta i fatti d’Italia, o di alcuni stati della penisola, nell’ambito della decisioni politiche straniere, vanificando i tentativi di quanti avevano potuto credere possibile una progressione in senso costituzionale in seguito all’iniziativa di gruppi isolati. I moti del 1820-1821, e ciò che ne venne dietro, spinsero i sovrani ad abbandonare i tentativi di conciliazione che durante gli anni della Restaurazione avevano escluso il ricorso a provvedimenti punitivi o eccessivamente reazionari. Le misure repressive che non si erano adottate dopo la Restaurazione furono applicate adesso. A Napoli la repressione fi particolarmente dura, l’epurazione del personale sospetto, malvisto, fu eseguita in tutti i settori dell’apparato statale, dalla magistratura all’esercito, alla burocrazia. Delle apposite “giunte di scrutinio” giudicarono gran parte del personale della pubblica amministrazione, eseguendo procedimenti di esonero spesso arbitrari. L’esercito, che tanta parte aveva avuto nella rivoluzione, fu sciolto nel marzo del 1821, molti ufficiali furono esiliati.

Il ritorno dell’assolutismo e delle divisioni territoriali stabilite dal congresso di Vienna mise in chiaro l’impossibilità

«che in Italia tutto potesse essere rimesso in movimento da iniziative locali. A Napoli e a Torino il vero limite delle rivoluzioni non era consistito tanto nell’angustia degli interessi borghesi e nobiliari espressi dai promotori, quanto nella illusione che bastasse ottenere l’assenso dei sovrani per mutare le basi

politiche del potere, senza tener conto degli equilibri internazionali in cui l’Italia era inserita»334.

A Lubiana il Metternich – il quale aveva compreso che nei vari stati il vero problema era un malcontento diffuso originato dalla mancanza, all’interno dei diversi governi, d’istituzioni rappresentative che potessero dar voce alle nuove classi dirigenti – aveva “suggerito” a Ferdinando I di introdurre nel proprio regno degli organi consultivi, composti a nomina reale. L’idea del cancelliere austriaco era di istituire una sorta di Senato preposto alla tutela e al rispetto delle leggi, all’esame del bilancio preventivo dello stato e al giudizio consultivo sulle proposte di legge. I membri di tale istituto sarebbero stati scelti dal sovrano – in base a liste compilate dai consigli provinciali – tra i notabili delle varie provincie. In Sicilia, per la quale il Metternich chiedeva l’autonomia amministrativa, si sarebbe istituita un’istituzione analoga a quella della capitale. Il «nuovamente assolutista Ferdinando»335, però, non intendeva dare troppo spazio a organismi rappresentativi né ripristinare forme di separazione tra le due parti del suo regno. Alla fine si giunse ad una soluzione che conciliava i diversi interessi. L’Austria riuscì ad imporre al sovrano Borbone tre condizioni fondamentali nel riordino del suo governo: la separazione amministrativa tra Napoli e la Sicilia (pur nell’unità del regno), la riforma dei Consigli provinciali e delle amministrazioni comunali, l’istituzione di due consulte, a Napoli e a Palermo336.

Il decreto del 26 maggio del 1821 stabiliva un riordino degli organi del governo per cui nel regno veniva istituito un Consiglio ordinario di Stato, formato dai ministri del governo e da consiglieri nominati dal sovrano, per la cura degli affari del regno. Si decretava la separazione amministrativa

334 A. Scirocco, L’Italia del Risorgimento, cit., p. 110. 335 G. Cingari, Gli ultimi Borboni, cit., p. 18.

336 R. Moscati (a cura di), Il Regno delle Due Sicilie e l’Austria. Documenti dal marzo 1821 al novembre 1830, Napoli, 1937, Introduzione, pp. XLVII-LIII.

della Sicilia che, governata da un luogotenente, sarebbe stata rappresentata da un segretario di Stato siciliano al Consiglio ordinario. Si sancì, inoltre, l’istituzione delle Consulte; una nella capitale formata da trenta componenti, l’altra a Palermo con diciotto membri. I consultori erano nominati direttamente dal sovrano che sceglieva tra i principali possidenti delle varie provincie, tra i funzionari ecclesiastici, amministrativi, militari e civili. Le Consulte esprimevano il loro parere sui bilanci dello Stato, sui progetti di legge, sull’amministrazione e l’ammortizzazione del debito pubblico, sulla gestione dei beni demaniali. All’insegna del decentramento i compiti dei consigli, comunali e provinciali, formati dai possidenti più facoltosi. I Consigli provinciali, in attesa dell’istituzione di un catasto generale, avrebbero provveduto a ripartire tra i vari comuni la quota di imposte gravante sulla provincia; ai Consigli comunali il compito di amministrare i beni, la determinazione e l’utilizzo del tributo annuo337. Lo spirito del governo napoletano era ben diverso da quello del ’15, i fatti rivoluzionari suggerivano la via della repressione; lo stesso Medici ritornato al governo, «col consenso delle Potenze più dello stesso Ferdinando interessate a spezzare l’esperimento reazionario del principe di Canosa»338, non applicò più la sua politica dell’ “amalgama”. Il governo centrale costretto a decretare i nuovi ordinamenti dall’Austria, s’impegnò a vanificarne l’applicazione. Di fatto la Sicilia rimase sotto il controllo del governo della capitale di cui il luogotenente nell’isola applicava le direttive. Le disposizioni sulle nuove funzioni dei Consigli non furono applicate. Il governo napoletano era anche contrario all’istituzione delle Consulte che, a suo giudizio, rischiavano di trasformarsi in veri e propri parlamenti. Con l’introduzione di un tale organismo nell’isola, inoltre,

337 Cfr., G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, cit., p. 692; A. Scirocco, L’Italia del Risorgimento, cit., p. 118.

«la separazione dell’amministrazione di Napoli da quella della Sicilia si sarebbe estesa sino al punto centrale del governo e avrebbe prodotto non solo una continua oscillazione e divergenza di principî governativi, ma molte altre fatali conseguenze che avrebbero maggiormente sviluppata una tendenza capace di distruggere i legami che univano le due parti del Regno sotto un medesimo scettro»339.

Sul finire del 1822, al congresso di Verona, il sovrano Borbone ebbe la meglio: le Consulte avrebbero avuto entrambe sede a Napoli. Nel 1824, addirittura, il numero dei consultori venne dimezzato stabilendo sedici membri per Napoli e otto per la Sicilia componenti un’unica Consulta, con semplici mansioni di controllo burocratico. Veniva a cadere dunque la possibilità per le realtà locali di essere tutte rappresentate, in Sicilia malgrado quanto detto a Lubiana non mutava lo stato delle cose vigente dal quinquennio: fu soppressa la segreteria di Stato istituita nel ‘21, il potere era saldamente in mano del luogotenente che aveva adesso più vaste responsabilità amministrative, ma rimaneva pedina del governo centrale, nessuna intermediazione tra classe dirigente locale e centro.

Nell’isola il decennio dal 1821 al 1830 si svolse all’insegna di una gravissima depressione che colpì tutti i settori della vita sociale, dall’economia alla cultura 340 . L’economia già dagli anni della

339 R. Moscati (a cura di), Il Regno delle Due Sicilie e l’Austria. Documenti dal marzo 1821 al novembre 1830, cit., vol. I, p. 48. La questione delle Consulte «riguardava il più generale problema politico della loro struttura, delle loro funzioni, della natura dei loro pareri e del modo di proposta al Re […]; e coinvolgeva Napoletano e Sicilia nell’alternativa che vi era sottesa, cioè se evolvere il decreto di Lubiana nel senso di accordare al paese una voce legale con rappresentanti non scelti nell’oligarchia cortigiana ma tra le superiorità di ciascuna provincia […] o se, al contrario, restringerlo fino a svuotarlo di ogni contenuto politico», G. Cingari, Gli ultimi Borboni, cit., p. 20. 340 In tutto il Mezzogiorno, nonché in altri stati d’Italia, la cultura fu particolarmente colpita dalla repressione. La restaurazione dell’assolutismo si contraddistinse per le norme severe applicate nel controllo dei docenti(universitari e scolastici), per la compilazione di indici dei libri proibiti, ecc. Cfr. A. Scirocco, L’Italia del Risorgimento, cit., pp. 121-123. Per lo stato degli studi in Sicilia in quegli anni cfr. A. Sammartino, Sull’attuale stato del sapere in Sicilia, in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», serie 2a, XI, 1935, pp. 113-125; AA.VV., Prospetto succinto dello stato della pubblica

Restaurazione versava in non floride condizioni, per di più il peso fiscale esercitato dalla monarchia amministrativa gravava il tessuto sociale che non comprendeva le novità introdotte dal governo centrale delle quali, per motivi temporali, non era ancora in grado di valutare gli effetti positivi. Il problema di fondo in Sicilia era quello della proprietà della terra strettamente connesso alla distribuzione di quest’ultima tra le masse contadine.

Malgrado i vari provvedimenti legislativi di cui s’ già detto non si era realizzata nell’isola una partizione della proprietà fondiaria in grado di scardinare i vecchi assetti sociali (con l’attribuzione di terre ai contadini) e di dinamizzare le tecniche produttive341. Il governo centrale adottò delle misure finalizzate a migliorare la situazione ma i risultati non apportarono modifiche sostanziali. La legge del 10 febbraio 1824 sulle soggiogazioni, ovvero i debiti gravanti sulle grosse proprietà terriere, stabiliva l’assegnazione forzosa di terre ai creditori, redistribuendo dunque i terreni. In realtà l’attribuzione forzosa delle terre determinò sì

«una vasta redistribuzione della terra, che rimase però in gran parte circoscritta nell’ambito delle vecchie classi proprietarie, pur favorendone in modo particolare taluni settori, come la Chiesa e, entro limiti più ristretti, la nobiltà minore o provinciale»342.

Le istruzioni dell’11 settembre del 1825 sullo scioglimento delle promiscuità (relative al decreto dell’ottobre 1817) furono del tutto inefficaci per una serie di motivi; non ultima la difficoltà di discernere tra i diversi interessi relativi a estensioni territoriali «in cui uno è padrone della

coltura in Sicilia dal 1800 fino al corrente anno, in «Giornale di scienze, lettere ed arti per la Sicilia», I (1823), II (1824).

341 Cfr. R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, cit., pp. 176-202; G. Cingari, Gli ultimi Borboni, cit., pp. 21-22.

342 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, cit., p. 181. Data l’epoca in cui i debiti erano stati contratti i nobili e la Chiesa risultavano essere i creditori.

terra, un altro degli alberi, un terzo ha il diritto di devastarli per trarne legna, ed un quarto ha quello di menare il suo bestiame a pascere in quel suolo»343. Risultava difficile in una situazione così ingarbugliata risalire ai diritti delle diverse parti interessate, operare un’equa valutazione della perdita e del relativo risarcimento. La nobiltà da una parte e la borghesia dall’altra – appoggiate dai comuni la prima, di cui spesso ne controllava le amministrazioni, e dalle intendenze borboniche la seconda – miravano alle terre liberate dagli usi civici, ma per i loro interessi non certo per il benessere dei contadini i quali alle lunghe (la legislazione in merito mise in atto diversi procedimenti nel 1838 e nel 1841, ma strascichi della questione si avranno anche dopo il 1860) subirono «una colossale spoliazione» in seguito alla quale «perdettero un patrimonio antichissimo, che li aveva aiutati a soddisfare i bisogni più elementari ed urgenti»344.

Alle arcaiche tecniche di agricole si univa a peggiorare le condizioni economiche la ridotta circolazione commerciale delle merci che, a causa della mancanza di strade, erano spesso riservate al commercio locale, quando non all’autoconsumo345. Il governo centrale cercò di operare dei cambiamenti per migliorare l’economia, ma le misure adottate finirono per avvantaggiare gli interessi napoletani come nel caso dei provvedimenti doganali. Furono adottate delle misure protezionistiche (decreti del 1823- 1824) e fu stabilità la libertà di commercio, il cabotaggio, tra le due parti del regno. Si ridussero i dazi di esportazione dei prodotti interni e d’importazione su quelli stranieri che servivano alle industrie del regno. S’introdusse il divieto di esportazione sulle materie prime necessarie alle industrie; per favorire la marineria nazionale si estese la riduzione del 10%, sui prodotti importati ed esportati, di cui godevano Francia, Inghilterra e

343 N. Palmeri, Saggio sulle cause e i rimedi delle angustie attuali dell’economia agraria di Sicilia, Palermo, 1826, p. 56.

344 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, cit., p. 187.

345 R. Giuffrida, Il problema delle strade in Sicilia e la Cassa di soccorso per le opere pubbliche dal 1843 al 1888, in «Economia e storia», I, 1968.

Spagna «in sostituzione degli antichi diritti di bandiera»346. I risultati non furono quelli che la monarchia immaginava anche perché

«gli Stati danneggiati dai provvedimenti del governo borbonico adottarono misure di rappresaglia o abbandonarono i mercati di Mezzogiorno e Sicilia, trovando più conveniente commerciare con altri Paesi»347.

Le misure adottate inoltre avvantaggiavano l’industria a danno dell’agricoltura (il cui commercio era già colpito dalla reazione straniera). E in Sicilia dove povera era la realtà industriale si avvertirono i danni maggiori. In verità negli anni seguenti si registrò un notevole incremento delle esportazioni di prodotti agricoli ma nell’immediato si misurarono i danni, non i futuri benefici348.

Il governo centrale in questo caso privilegiò gli interessi del Mezzogiorno che vantava una realtà industriale più progredita di quella di Sicilia, il cui territorio divenne mercato dei prodotti napoletani a ulteriore detrimento della piccola industria locale.

Gli anni dal 1821 al 1830, quindi, furono contrassegnati in Sicilia da una gravissima depressione economica e sociale che come s’è visto non risparmiava nessun settore della vita civile. La bontà di taluni provvedimenti legislativi era offuscata dalla lentezza dell’applicazione e dalla contrarietà per il gravoso peso fiscale del governo centrale; l’amministrazione non decollava erano numerosissimi i contrasti tra i funzionari dello stato e i comuni; spesso il governo del luogotenente e vissuto dai siciliani come dispotico sottolineando dunque l’incomunicabilità tra amministrazione centrale e periferie349.

346 G. Cingari, Gli ultimi Borboni, cit., p. 23. Cfr. Idem, Mezzogiorno e risorgimento, Bari, 19762, p. 160.

347 A. Scirocco, L’Italia del Risorgimento, cit., pp. 131-132. 348 G. Cingari, Gli ultimi Borboni, cit., p. 24.

349 F. Paternò Castello su Pietro Ugo marchese delle Favare, luogotenente in Sicilia nel 1824 scrive che era ritornato in Sicilia «per esercitare il più atroce dispotismo. Per

Crebbe, nell’isola, il sentimento antinapoletano e, in quegli anni, diverse furono la congiure di matrice carbonara350. In generale però

«mancavano totalmente idee chiare e senso della realtà politica: si organizzavano congiure senza un preciso programma, sperando in fantastici appoggi dall’estero e persino dalla corte papale, e accanto ai propositi di rinnovamento democratico si riprendevano aspirazioni di origine aristocratica, come l’indipendenza da Napoli; quando la Carboneria non serviva addirittura da pretesto per l’organizzazione di delinquenti comuni»351.