Nel 1798 scoppia la guerra con la Francia, l’esercito napoletano, guidato dal generale austriaco barone Mack, dopo un successo iniziale e una breve incursione a Roma viene disperso dalla forza delle truppe francesi. Il sovrano Ferdinando di Borbone, III di Sicilia e IV di Napoli, sconfitto, il 18 dicembre si rifugia a Caserta98. Quindi non ritenendo abbastanza sicura la permanenza a Napoli, sotto la protezione della flotta inglese, sulla nave ammiraglia di Nelson, il 23 dicembre fugge dalla capitale e ripara in Sicilia. L’esercito francese, intanto, sotto il comando del generale Championnet, invadeva il regno.
Il conseguente trasferimento della corte e del governo napoletano a Palermo costituiscono un evento centrale nella storia del Regno e nei rapporti politico-istituzionali tra la capitale, Napoli, e la Sicilia. Si ha un’inversione dei rapporti rispetto al 1773, all’epoca della rivolta di Palermo. Nella capitale partenopea esplode la rivolta, i giacobini mettono al bando la monarchia borbonica e proclamano la repubblica99. A Palermo, invece, il re e la regina che non avevano mai messo piede in Sicilia furono accolti «se non entusiasticamente, certo con affetto e devozione»100. Le incertezze di Maria Carolina riguardo all’accoglienza che i palermitani le avrebbero riservato furono fugate allorquando la sovrana sbarcando dal
Vanguard chiese ai sudditi siciliani «ci volete fra voi figli miei?»101 e la folla gridando rispose di sì. Per la nobiltà palermitana il trasferimento del
98 Cfr. N. Niceforo (E. Del Cerro), La Sicilia e la costituzione del 1812, in «Archivio Storico Siciliano», XXXIX, 1914, p. 18; P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, (1834), 1967, vol. III.
99 F. Renda, Dalle riforme al periodo costituzionale (1734-1816), in Storia della Sicilia, Napoli, 1978, vol. VI, pp. 253- 294.
100 N. Niceforo, La Sicilia e la costituzione del 1812, cit., p. 274.
101 F. Paternò Castello, Saggio storico e politico sulla Sicilia dal cominciamento del secolo XIX al 1830, (Catania, 1848), Palermo, 1969,p. 44.
sovrano con la corte a Palermo rappresentava la possibilità che cessasse la dipendenza siciliana da Napoli, che l’isola riacquistasse la sua indipendenza e che, come avvenuto sotto i Normanni, ridiventasse la capitale del regno. Il sovrano da parte sua lusinga le speranze dei siciliani, chiamando i baroni a far parte del ministero; ma in cuor suo Ferdinando pensa solo a riconquistare la parte continentale del regno e a ritornare a Napoli.
I rapporti tra monarchia e baroni sono turbati dallo scoppio di una rivolta nell’isola102. Dopo quest’episodio era evidente al sovrano e alla sua corte che i baroni non controllavano il territorio. La classe baronale cominciò a perdere prestigio agli occhi della corte anche perché non si considerava realistica l’ipotesi che i baroni fossero all’oscuro di tutto. Le relazioni tra il sovrano e la nobiltà s’incrinarono, e da questo momento furono contraddistinte dal sospetto reciproco. Ferdinando continuava però ad alimentare le speranze della nobiltà siciliana di ritornare ai fasti che la capitale aveva conosciuto in epoca normanna. In occasione della convocazione del parlamento nel 1802 il sovrano – per bocca del protonotaro del Regno che lesse il discorso della Corona – si dispiaceva dei passati dissidi, ringraziava i sudditi siciliani per l’accoglienza che avevano
102 «I contorni di tale rivolta – ha scritto Renda – sono sempre stati e rimangono tuttora avvolti nella nebbia. Non si sa se vi sia stato un centro direttivo unitario. Si ignora chi ne siano stati gli effettivi dirigenti. Si sconosce persino il movente, posto che quello indicato dalla tradizione storiografica piuttosto reticente serve più a sviare che a favorire l’acquisizione della verità. Il solo dato certo è che ad impugnare le armi ed a scendere in piazza furono i soldati arruolati dal maresciallo Jauch, di stanza nei vari centri isolani. Fra i militari tuttavia, a muoversi furono gli strati inferiori, i sottufficiali, e qualche subalterno […] fra i civili, si affiancarono ai soldati in modo particolare gli artigiani. Ma si astennero le corporazioni di Palermo, di Messina e di Catania. Non risulta, invece, la parte avuta in tutta la vicenda dalle popolazioni contadine […] il processo celebrato, del quale si conservano tuttora gli atti, parla solo di imputati artigiani e militari. È vero, tuttavia, che le rivolte esplosero in comuni rurali, dove i contadini erano numericamente tutto, e gli altri ceti sociali nulla o quasi nulla. Difficile, quindi, immaginare una sollevazione di così vaste proporzioni senza una presenza contadina. In ogni caso, i contadini se non furono per la rivoluzione, non furono certamente contro la rivoluzione. Mancò, infatti, qualsiasi manifestazione di sanfedismo, anche se le parole d’ordine degli ammutinati sembrarono ispirate a motivi antigiacobini» (F. Renda, Dalle riforme al periodo costituzionale, cit., p. 268).
riservato a lui e alla corte, prometteva di far rifiorire il commercio, l’agricoltura e l’industria103; ed infine lusingava l’animo dei siciliani «con la promessa di mantenere in Sicilia una corte reale permanente, che poi scandalosamente non eseguì»104. Il re in verità non aveva nessun proposito di stabilire una corte permanente a Palermo ma, accarezzando la vanità dei baroni con il miraggio dell’autonomia del regno di Sicilia da quello di Napoli, riuscì a ottenere dal parlamento la concessione di un donativo straordinario di 150.000 once l’anno che avrebbero dovuto essere impiegate per il mantenimento della Corte permanente con un principe della famiglia reale a Palermo. Frattanto riconquistata Napoli, dopo essersi conclusa nel sangue la vicenda della repubblica partenopea, i sovrani rientrarono nella capitale105. Nell’isola non rimase alcun rappresentante della famiglia reale, fu nominato luogotenente generale l’arcivescovo di Palermo, il cardinale Pignatelli, napoletano.
Nel 1806, in seguito ai successi delle guerre napoleoniche, i Borbone furono espulsi dal loro regno, la corona fu attribuita a un fratello di Napoleone, Giuseppe Bonaparte. Anche in quest’occasione i sovrani trovarono rifugio in Sicilia, sotto la protezione inglese106. Certo, in questa
seconda occasione – dopo il deludente esito della precedente permanenza dei reali nell’isola – l’accoglienza fu meno calorosa. I siciliani mal tolleravano di dover sottostare ad un governo interamente composto di napoletani «malvisti dal popolo […] e certamente non troppo disposti – un
103 G. Bianco, La Sicilia durante l’occupazione inglese, Palermo, 1902, pp. 17 ss. Sul parlamento siciliano cfr. L. Genuardi, Parlamento siciliano, Bologna, 1924; V. D’Alessandro, Sulle Assemblee parlamentari della Sicilia medievale, in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», (ASSO) LXXX, 1984, pp. 5-17; V. Sciuti Russi, Parlamenti, baronaggio, ministero togato tra Cinque e Seicento, in ASSO, LXXX, 1984, pp. 19-42; C. Spoto, Crisi e trasformazioni dell’istituto parlamentare. Il Parlamento del 1790, in ASSO, LXXX, 1984, pp. 85-95.
104 P. Balsamo, Memorie segrete sulla istoria moderna del Regno di Sicilia, (1848), Palermo, 1969, p. 51.
105 B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, Bari 1914.
106 Cfr. R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, cit., p. 132 ss.; A. Capograssi, Gl’inglesi in Italia durante le campagne napoleoniche: Lord W. Bentinck, Bari 1949, pp. 53 ss.
po’ per la preparazione culturale e mentale assolutistica, un po’ per i pregiudizi regionalistici, che non mancavano neanche da parte dei napoletani – a tener conto delle aspirazioni e dei bisogni del paese»107. A differenza che nel 1799 il sovrano non invitò a far parte del governo nessun rappresentante della nobiltà siciliana: il contrasto fra la monarchia e il paese diventa sempre più acuto. Da una parte i Borbone pensavano solo a riconquistare la parte continentale del regno e si preoccupavano soprattutto di ottenere i fondi necessari alle operazioni militari; dall’altra i siciliani «soffrivano di mal animo che si spendesse tanto denaro per riacquistare un regno, che riunito alla medesima corona avrebbe nuovamente ridotto il proprio paese alla dura condizione di provincia»108. Nel parlamento del 1806 il sovrano non avanzò la richiesta di nuovi donativi, si limitò a confermare quelli precedenti; ben comprendendo che un’altra richiesta di denaro avrebbe provocato ulteriormente i siciliani. Data la nuova situazione internazionale sancita dai trattati di pace (Presburgo, Tilsit) le grandi potenze avevano accettato che Ferdinando fosse re del regno di Sicilia e Giuseppe Bonaparte re del regno di Napoli, quindi agli occhi dei siciliani venivano meno i presupposti stessi dell’esistenza di un governo napoletano, dei due regni. Le aspirazioni reali di riconquista della parte continentale del regno si scontravano del resto con la presenza francese sulla penisola; d’altra parte, malgrado il decreto napoleonico emanato a Baiona il 15 luglio del 1808 dichiarasse Gioacchino Murat re di Napoli e di Sicilia, la flotta inglese di stanza nell’isola vanificava le mire francesi sulla Sicilia109.
107 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, cit., p. 134. 108 P. Balsamo, Memorie segrete, cit., pp. 51-52.
109 «Il 30 marzo del 1808, – ha sostenuto Niceforo – tra il re delle Due Sicilie e quello del Regno Unito della Gran Bretagna e delle Irlanda fu conchiuso un trattato d’alleanza e di presidio, assumendo il reciproco impegno di darsi nella guerra contro la Francia, ogni soccorso ed assistenza in proporzione delle rispettive forze e allontanare di comune consenso tutto ciò che avrebbe potuto loro recare disturbo e danno» (N. Niceforo, La Sicilia e la costituzione del 1812, cit., p. 304). Su questo tema cfr. anche A. Valente, Giacchino Murat e l’Italia meridionale, Torino, 1965; U. Caldora, Calabria napoleonica (1806-1815), Napoli, 1960.
Per i baroni la corona avrebbe dovuto modificare la sua condotta nominando un parlamento costituito da siciliani e che pensasse alle esigenze dell’isola. Questa aspirazione dei siciliani cominciò a tradursi in un’idea politica allorché gli inglesi interessati a esser benvoluti nell’isola, cominciarono a rendersi conto che non potevano presentarsi come i campioni di libertà dinnanzi al dispotismo napoleonico e poi sostenere (anche economicamente) un re «che governava quell’isola col più antiliberale e antinazionale assolutismo»110.