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Creatività e sentimento

Nel documento Confini della creatività (pagine 136-140)

I confini dell’essere

6.5 Creatività e sentimento

Nell’esperienza artificiale attuale accade che, pur in una organizzazione sociale globale che farebbe immaginare una fitta trama di relazioni e di correlazioni non solo produttive, l’uomo crea solo e per sé. Ne è prova l’impersonalità di una produzione che non comunica, se non commercialmente e al solo fine consumistico.

Occorre, allora, recuperare la dimensione personale dell’agire creativo. Occorre fare dell’agire creativo un agire “sentito” e non sem- plicemente “appreso”. Occorre risvegliare un sentimento vero per l’uomo.

Se il recupero ha le sembianze del sentimento, non è immaginabile riabilitare la creatività alla scelta necessaria per una produzione di valore attraverso un esercizio che ne potenzi funzione ed effetti166.

Il recupero della funzione creativa della scelta non può rispondere al mal funzionamento delle tecniche operative proprie del sistema autoproduttivo con altre tecniche.

L’oggetto del recupero (la scelta) non è, infatti, funzione che possa essere esercitata in maniera deterministica. In quanto azione che incontra la verità, può essere educata soltanto da un ritrovato quanto rivisitato sentimento dell’infinito167, quale sentimento di una “misura”

universale delle cose.

166 La creatività che ha il proprio confine nell’essere dell’uomo non può essere

insegnata. Tutti gli sforzi impegnati in un suo insegnamento non fanno che ripetere quello che Jacques Maritain riconosceva come il settimo errore dell’educazione moderna: «Non è vero che tutto possa essere insegnato e che la gioventù debba ardentemente aspettarsi dai collegi e dalle università non solo corsi di cucina, di economia domestica, di puericoltura, di tecnica pubblicitaria, di fabbricazione e arte del cosmetico, di perfezionamento nelle vie e nei mezzi per far quattrini, di psicologia applicata all’arte di sposarsi bene, e di scienza della felicità nel matrimonio, ma anche – perché no? – corsi sui mezzi scientifici per acquistare il genio creativo nelle arti e nelle scienze, o per consolare chi soffre, o per diventare uomini generosi.(…) L’esperienza, che è il frutto incomunicabile della sofferenza e del ricordo, e attraverso la quale si compie la formazione dell’uomo, non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun corso» (J. MARITAIN, L’éducation à la

croisée des chemins [1947], trad. it. a cura di A. Agazzi, L’educazione al bivio, La

L’illimitato va rimisurato e consegnato nuovamente a un sentire capace non certo di spiegare o di definire, ma capace comunque di “provare” dell’uomo una dimensione “sacra”.

“Provare”: questo sentimento ha, infatti, il compito di richiamare a una azione precisa. Non si tratta, semplicemente, di riconoscere tale sacralità. Il sentimento che la prova ne richiama l’interpretazione168.

L’educazione che educa la forza creativa della scelta non interviene affinché l’uomo sia colto dalla meraviglia dell’essere uomo. Il compito educativo non si ferma a un atto conoscitivo: l’educazione della creatività non si riduce all’osservazione di “quanto” sia l’essere umano.

Il pensiero che crea non può semplicemente “vedere”, ma deve “s- legare” e “ri-legare” la realtà per poterla trasformare in una esperienza artificiale che della sacralità dell’uomo sia un atto di testimonianza, di rispetto e di celebrazione.

L’educazione ha così il compito di impegnare l’uomo in un lavoro di interpretazione e di ricerca dell’origine che solo il sentimento è capace di occasionare, perché solo il sentimento è in grado di far emergere, nell’immediatezza di cui è fatto, il presente della totalità dell’essere uomo169.

167 Non si tratta di un “vecchio” sentimento. Il sentimento dell’infinito a cui

l’educazione attuale avrebbe il compito di educare è un “nuovo sentimento”: «Il sentimento per l’ingenuità perduta, una acuta sensibilità per la salute che scaturisce appunto dalla malattia» (U. PERONE, La verità del sentimento, Guida Editore, Napoli 2008, p. 84).

168 L’interpretazione non è gesto soggettivistico, ma autentico e disciplinato

lavoro di traduzione: «Nell’interpretazione, rivelazione della verità ed espressione del tempo – scrive Luigi Pareyson – non sono in rapporto di contiguità o continuità o gradualità, ma di sintesi, nel senso che l’una è la forma dell’altra: se è vero che la rivelazione della verità non può essere che personale e storica, non è meno vero ch’essa, ed essa sola, contiene la verità anche del tempo e della persona; sì che l’interpretazione è tutta rivelativa e tutta espressiva, tutta insieme personale e ontologica» (L. PAREYSON, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971, p. 55).

169 Tale sentimento, che può essere ricondotto al “senso poetico” delle cose del

mondo, va educato in ogni uomo «quale sensibilizzazione e sintonizzazione» attraverso il linguaggio patetico: «Linguaggio patetico è quello che si distingue dal “descrittivo” – fondato sulla rilevazione diretta e analitica – e dallo “speculativo” - basato sulla riflessione logico-deduttiva. Il linguaggio patetico sgorga dalla tensione etica e dall’appassionarsi alla vita, tale da avvertire l’urgenza di rendere espressione

Ciò che l’educazione ha il compito di recuperare è l’“intenzione di durare”, quella virtù artistica che è «fede nella posterità e nel suo giudizio»170.

Non si tratta, tuttavia, di una educazione vaga, lasciata prima all’at- t e s a e poi all’improvvisazione del singolo momento colto da sentimento.

L’educazione che, attraverso il sentimento dell’umana sacralità, educa alla creatività in quanto scelta necessita di una “pianificazione” che le consenta di proporre e di promuovere un percorso educativo: la dimensione sentimentale ha, in questa prospettiva, chiaro e fermo ordine etico.

In quanto tale, è educazione di valore che ha il compito di compiersi quale educazione di carattere.

Ma il suo valore, il suo carattere e la sua pianificazione devono essere quelli di una educazione “unitaria”, una educazione che – seguendo il suggerimento, per certi versi sorprendente, del poeta- educatore Valéry – è possibile ritrovare nell’“idea sportiva”.

«Questa idea ci induce a portare al livello più alto alcune nostre qualità native, mantenendo però l’equilibrio di tutte le altre, poiché infatti uno sport che deforma colui che lo pratica è un cattivo sport. Ogni sport, che sia praticato con serietà, necessita delle prove, delle rinunce talvolta severe, una igiene, una tensione e una costanza misurabili attraverso i risultati; insomma una vera e propria morale dell’azione, che tende a sviluppare il tipo umano attraverso un allenamento basato sull’analisi delle proprie facoltà e sullo stimolo ragionato»171.

Come nello sport, l’attività di pensiero riesce a trasformare artificialmente la realtà, attraverso uno studio attento della realtà stessa e la coscienza delle proprie azioni, ma soprattutto attraverso la profonda e sincera volontà di raggiungere un vero, perché buono e onesto, nuovo traguardo umano.

manifesta l’impressione profonda e intima: è linguaggio intuitivo, sintetico e immaginifico. Per questo, si rende necessaria una educazione delle sensazioni» (G. MOLLO, La via del senso. Alla ricerca dei significati dell’esistenza per un’autentica

formazione culturale, La Scuola, Brescia 1996, pp. 239-240).

170 P. VALÉRY., La politica del pensiero, nostro sommo bene, cit., p. 80. 171 ID., Bilancio dell’intelligenza, cit., p. 130.

Sullo studio, sulla coscienza e sulla volontà l’educazione, complice il sentimento dell’umano, può e deve fare molto.

Sui contenuti del vero, del buono e dell’onesto, il sentimento e l’educazione non possono fare previsioni. Così rispondeva Paul Valéry nel 1932 a chi gli domandava «Fra vent’anni, cosa ne sarà di noi?»: «Diventa sempre più inutile, e anche sempre più pericoloso cercare di prevedere partendo dai dati desunti dalla vigilia o dall’antivigilia; ma sarebbe consigliabile tenersi pronti a tutto, o quasi a tutto. Dobbiamo conservare nelle nostre menti e nei nostri cuori la volontà di lucidità, la chiarezza dell’intelletto, l’idea di grandezza e di rischio, della straordinaria avventura nella quale il genere umano, allontanandosi forse in maniera smisurata dalle condizioni primordiali e naturali della specie, si è imbarcato, senza sapere dove va»172.

Non è possibile fare previsioni nei confini dell’essere. La creatività non è governata né governabile da obiettivi e da metodi che fanno del processo educativo un processo certo e garantito.

L’unica indicazione che può orientare tanto l’educazione quanto la creatività è, in realtà, un principio che ha la forza dell’imperativo: la responsabilità, quella responsabilità che agisce mossa da un “per che cosa”173.

172 ID., La politica del pensiero, nostro sommo bene, cit., p. 81, corsivo nostro. 173 Esiste un “per che cosa” che definisce e che distingue le possibilità proprie

dell’essere dell’uomo. Lo ricorda Hans Jonas: «Il “per che cosa” si trova fuori di me, anche se nell’ambito di influenza del mio potere, e ne dipende nel bene e nel male. Il “per che cosa” contrappone al mio potere il suo diritto di esistere a partire da ciò che è o può essere. La causa diventa mia, poiché il potere è mio e ha una relazione causale proprio con lei. (…) Il potere diventa oggettivamente responsabile per ciò che gli viene affidato» (H. JONAS, Das Prinzip Verantwortung [1979], trad. it. di R.

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