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Un fare divenuto essere: il soggetto di produzione

Nel documento Confini della creatività (pagine 114-118)

I confini del fare (atto secondo)

5.6 Un fare divenuto essere: il soggetto di produzione

Nonostante questa posizione abbia avuto inizio con il tentativo di impegnare le capacità creative in una direzione volta a costruire un nuovo modo di vita, di lavoro, di divertimento, nel tempo si è tradotta nella definizione di una tecnica che ha perso qualsiasi potere di decisione su quanto è chiamata a fare.

Poco o nulla viene lasciato alla possibilità (tanto meno alla necessità) di scorgervi una proposta che sia il confronto con una misura non quantitativa. In uno spazio marcato e regolato dalle esigenze proprie della legge della produzione, non esiste né può esistere margine capace di contenere e, poi, di comprendere la questione creativa all’interno di un discorso sull’origine e sulla destinazione dell’uomo.

Se esiste la possibilità di ricercare un senso e una destinazione per l’uomo, questa possibilità non riguarda il servizio creativo. Accreditata come “tecnica” pensata e ricercata quale “formula” e “garanzia” di successo, la creatività è così meramente inseguita per la sua capacità di produzione. Al bisogno di un avanzamento continuo, essa risponde producendo una sempre ulteriore novità che sia necessariamente diversa e che, quindi, conquisti nuovi “mercati”.

Quei tratti che – come da proposta deweyana – consentivano al pensiero creativo di partecipare, anticipandone nuovi fini, alla ricostruzione di un futuro che fosse esperienza di quell’organismo vitale che include natura e uomo, sono stati corretti e tarati per rispondere alla frenesia di un presente che, sempre insoddisfatto perché incapace di raccogliersi e di riconoscersi nel valore e nel significato della propria finitezza, non intende costruire (né decostruire) l’esperienza del futuro, ma unicamente avanzare, per un verso, producendo e, per l’altro, consumando.

Nel rispondere a un bisogno che ha in se stesso l’origine e il fine del proprio movimento, la creatività si presenta unicamente sotto una veste produttiva perché non potrebbe significare altro. Compresa alla luce di questo bisogno, la creatività si identifica nel prodotto con il quale risponde al bisogno riconosciuto.

“Ciò che vale”, secondo questa visione, non può certo essere considerato un elemento di riferimento immutabile capace di segnare e di orientare unitariamente l’attività di tutti e di chiunque, ma vale per il valore di novità e di diversità che apporta al processo di cambiamento.

“Ciò che vale” ha così una inevitabile scadenza che incontra nel momento in cui è superato da una realtà nuova, che a sua volta varrà non in se stessa ma in quanto nuova e che a sua volta perderà di valore una volta superata da una novità ulteriore.

Se ogni movimento del divenire viene ricercato come una continua e inarrestabile avanzata, come un continuo e inarrestabile oltrepassamento compiuto non in ragione o in nome di qualcosa ma in sé e per sé, se criterio di questo oltrepassamento può/deve essere unicamente la novità che esprime rispetto ciò che accade ed è accaduto, la quantità rimane l’unico criterio e l’unica misura per dare continuità e inesauribilità a questo movimento di cambiamento.

“Creativo” non sarà quindi unicamente il nuovo, ma soprattutto il

continuamente nuovo.

In questione non c’è, tuttavia, soltanto la scoperta di terreni di conquista sempre ulteriori. La domanda di creatività è coinvolta in una questione più profonda.

Si tratta, ben più radicalmente, di ripensare l’uomo in ragione dei tempi e degli spazi aperti dai cambiamenti stessi. L’immagine di un agire dell’uomo marcato dalla ricerca creativa, con l’implicita e conseguente implicazione di ordine e di senso, disegna e riordina margini e limiti componendo un insieme che fa dell’uomo

principalmente e necessariamente un “soggetto di produzione”124 che

gioca il duplice ruolo di produttore e di consumatore125.

Tale figura non è il principio della creatività, ma ne è la (inevitabile) conseguenza.

Il fare creativo con cui si misura l’attualità pone inesorabilmente la questione legata alle conseguenze.

Tra queste non c’è semplicemente l’ampiezza delle conseguenze del fare creativo. Il significato a cui la maniera produttiva può portare non è affare di quantità. Non si tratta soltanto di ridurre i consumi, o di riprogrammare la produzione per, secondo una economia anche solamente domestica, risparmiare e non sprecare le risorse più o meno limitate.

La (forse ancora solo possibile) conseguenza che fa dell’accezione produttiva del fare creativo una accezione minacciosa riguarda l’irre- versibilità del suo processo.

Il destino implicito nel “soggetto di produzione” può realmente segnare in modo irreversibile lo stato del mondo: «La nostra “maledizione” – che pone secondo Günther Anders una autentica scadenza – non consiste più, come fino a poco tempo fa, nel fatto, o anche solo nel fatto, che siamo condannati a una esistenza finita e quindi all’immortalità, ma consiste al contrario nel fatto (o anche nel fatto) che non possiamo arginare o recidere l’illimitatezza e l’immortalità (degli effetti del nostro agire). Per quanto ciò possa

124 Lo sviluppo continuo, ricercato e compiuto come autorealizzazione, ha portato

a uno stravolgimento dell’artificiale. Rovesciato l’ordine che ne faceva strumento di espansione, è divenuto fine: «L’azione del pensiero, creando accanitamente (come in un impeto cieco) dei mezzi estremamente potenti, ha dato origine a straordinari avvenimenti (…). Tutto ciò che sappiamo, e cioè tutto ciò che possiamo, ha finito per opporsi a ciò che siamo» (P. VALÉRY, Le Bilan de l’Intelligence [1935], trad. it.

di N. Agosti, Bilancio dell’intelligenza, in ID., La crisi del pensiero e altri «saggi

quasi politici», Il Mulino, Bologna 1994, pp. 109-110).

125 Il consumo è l’implicito necessario della produzione. È il “supermarket” il

luogo che meglio rappresenta questo episodio della storia dell’idea creativa: «Alle sei di sera la città cadeva in mano dei consumatori. Per tutta la giornata – scrive Italo Calvino nella novella Marcovaldo al supermarket del 1963 – il gran daffare della popolazione produttiva era il produrre: producevano beni di consumo. A una cert’ora, come per lo scatto d’un interruttore, smettevano la produzione e via! Si buttavano tutti a consumare» (I. CALVINO, Marcovaldo, ovvero le stagioni in città,

sembrare contraddittorio, ciò che ci limita (e ciò contro cui rimaniamo inermi) è l’illimitatezza degli effetti del nostro agire. L’onnipotenza è [diventato] il nostro più fatale difetto. L’imprevedibilità della nostra produzione di catastrofi non consiste solo nell’inestimabile effetto dell’utilizzo; essa inizia piuttosto già in uno stadio precedente, quello della produzione»126.

126 G. ANDERS, Gewald. Ja oder nein. Eine notwendige Diskussion (1987), trad.

it. a cura di L. Pizzighella, La resistenza atomica. Nuovi brani scelti sul tema «Stato

di necessità e legittima difesa, in G. ANDERS, Il mondo dopo l’uomo. Tecnica e

Nel documento Confini della creatività (pagine 114-118)