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Obiettivi della ricerca

II.3 Value-Based Management e creazione di “valore economico”

II.3.2 Creazione di valore, costo del capitale e rischio

La creazione di valore economico, come analizzato, è strettamente correlata tanto alla produzione di risultati quanto al costo del capitale impiegato per ottenerli. Nei paragrafi precedenti ci siamo imbattuti in due configurazioni del costo del capitale: il costo del capitale di proprietà e il costo medio ponderato del capitale. La necessità di ricorrere a queste due diverse configurazioni nasce dalla presenza di diversi modelli che possono essere impiegati al fine di misurare il valore economico del capitale e la conseguente creazione/distruzione di valore. Infatti, la valutazione deve possedere una coerenza intrinseca, ossia una coerenza “tra logiche valutative e metodologie, tra metodi e parmetri e nella scelta dei parametri delle diverse metodologie” (Gonnella, 2008: pp. 48-49), e dunque tra tassi e flussi. Come per la stima dei flussi, dunque, anche per i tassi è possibile impiegare due approcci: un approccio “equity side”, nel quale, data la necessità di scontare i flussi netti, è previsto l’impiego di un coerente tasso di attualizzazione/capitalizzazione rappresentato dal tasso di remunerazione normale del capitale di proprietà (o costo del capitale di proprietà); un approccio “equity side”, che prevede l’attualizzazzione dei flussi lordi, e dunque l’impiego del costo medio ponderato del capitale, calcolato come media ponderata del costo del capitale di proprietà e del costo del debito.

60 Premessa l’assoluta equivalenza dei risultati dal punto di vista dell’azionista, concentriamo l’attenzione sulle componenti del costo medio ponderato del capitale. La “teoria finanziaria” si basa sull’assunto secondo cui il capitale reperito (sia a titolo di debito che di rischio) ed investito in azienda ha un costo che non è rappresentato esclusivamente dal costo del debito dell’azienda, bensì comprende anche la remunerazione minima dovuta a chi conferisce capitale di rischio (Arnold, 2000). In particolare, presumibilmente ispirato dai lavori di economisti antecedenti100, nel 1890 Marshall promosse l’idea che le attese di ritorno dell’azionista rappresentino un requisito fondamentale per la valutazione dell’azienda e che, come tali, dovessero essere incluse nel costo del capitale complessivo (Marshall 1947)101. Questo principio fu ripreso in tempi più recentemente da Solomons (1965) il quale, ponendo la questione su quale fosse la misura migliore del successo dell’azienda, affermò come il profitto ed il rendimento fossero due misure incomplete e come il reddito residuale102 rappresentasse al contrario le reali performance aziendali (Solomons, 1965). Arnold (2000), riassume il dilemma di Solomons con l’esempio sottostante:

Tabella 11. Esempio di valutazione basata sul solo rendimento. Tratto da Arnold, 2000: p. 15

Azienda A Azienda B

Capitale Investito ($) 1000 5000

Utile Netto ($) 200 750

Tasso di rendimento del capitale ($) 20 15

Se il rendimento del capitale fosse impiegato come misura del successo dell’azienda allora l’azienda A sarebbe sicuramente migliore della B. Se prendiamo in considerazione il costo del capitale, notiamo che, ad un livello del 17,5%, l’azienda migliore risulta essere A, mentre, ad un livello del 12%, l’azienda B risulta più performante.

Tabella 12. Esempio di valutazione basata sul reddito residuale. Tratta da Arnold, 2000: pp. 15-16

Azienda A Azienda B

a) Capitale Investito ($) 1000 5000

b) Utile Netto ($) 200 750

c) Tasso di rendimento del capitale ($) 20 15

d) costo del capitale investito determinato considerando un tasso del 12%

120 600

e) Reddito residuale (b-e) 80 150

100

Tra gli altri ricordiamo Adam Smith, il quale, già nel 1776, sottolineò la necessità di consentire un adeguata remunerazione per i portatori di capitale: “the owner of this capital, thought he is thus discharged of almost all labour, still expect that his profits should bear a regular proportion to this capital.” (Smith, 1776)

101 “(…) profits above the interest (…) is the reward of his industry, and the compensation for his hazard. And, if the profit of his trade be

less than his stock would have yielded at common interest, he may properly account it a losing one” (Marshall, 1947: p. 246).

102 Il termine “residual income”, ossia la differenza tra i profitti netti e il costo del capitale, fu coniato originariamente dalla General Electric

61

Azienda A Azienda B

Capitale Investito ($) 1000 5000

Utile Netto ($) 200 750

Tasso di rendimento del capitale ($) 20 15

14% sul Capitale Investito 140 700

Reddito residuale 60 50

Data l’impossibilità di dare una risposta univoca su quale delle due abbia maggiore successo, Arnold conclude che non sia possibile trarre delle conclusioni solo sulla base del confronto tra tassi di rendimento (Arnold 2000)103. L’elemento critico nella valutazione delle perfomance diventa dunque la stima di un appropriato costo del capitale. A questo proposito, Solomons (1965) evidenzia due requisiti fondamentale per stimare un appropriato costo del capitale (o tasso di ritorno richiesto) per investimenti e valutazioni:

 Il costo del capitale di proprietà deve essere considerato un costo opportunità in quanto rappresentativo del sacrificio che l’investitore deve sostenere rinunciando ad altre opportunità di investimento104.

 imprese acquisiscono il capitale sotto varie forme, in generale rischio o debito, e dunque il calcolo del costo sia più correttamente rappresento da una media ponderata di questi” (Solomons, 1965: p. 158).

Ezra Solomon (1963), basandosi su importanti contributi di autori precedenti (Dean 1951; Durand 1952; Modigliani and Miller 1958), sviluppò formalmente l’applicazione del concetto della media ponderata al costo del capitale, detta WACC (o Weighted Average cost of capital), la quale prevede la determinazione di un tasso di capitalizzazione combinato, nato dalla media ponderata tra il costo del capitale proprio (ke) e del debito (Kd), dove i pesi sono rappresentati rispettivamente dalla quota

relativa del capitale proprio e del debito:

Dove W1 è la proporzione del totale valore di mercato (equity più debito) relativo al capitale apportato

a titolo di proprietà, mentre, W2 è relativo al debito. Ne consegue che il costo medio nasce dalla

miscela di tre elementi:

- il tasso di interesse (Kd) richiesto all’impresa dai finanziatori a titolo di debito, ridotto

dell’eventuale scudo fiscale offerto dal debito;

103 A tal proposito Solomons enuncia che “There is no simple ansie to the question of which venture is more successful in terms of the excess

of its earnings over the cost of capital it employs. While venture B is more successful at low rates of interest, A is more successful at high rates. A mere comparison of rates of return obscures this fact” (Solomons, 1965).

104 A tal proposito Solomons enuncia “The cost of capital (…) is its opportunity cost (…) the sacrifice which has to be made when any scarce

62 - il costo opportunità del capitale di rischio (Ke);

- il peso relativo con cui debito e vapitale di rischio concorrono a finanziare il capitale investito totale dell’azienda.

Il costo del capitale di debito (Kd) corrisponde al tasso di interesse richiesto all’impresa dai

finanziatori a titolo di credito. Le variabili che determinano la misura del costo di tale fonte di finanziamento sono rappresentate dal livello attuale dei tassi di interesse105, il rischio di default (o fallimento) dell’azienda specifica106

e il beneficio fiscale generato dallo scudo fiscale107 (Gonnella, 2008: pp. 111-113). Dunque il Kd può essere così determinato:

Dove:

Kd = costo dei mezzi di terzi t = aliquota d’imposta

KD = costo dei debiti onerosi (ossia il tasso d’interesse sul debito al lordo d’imposte).

Molto più complessa appare invece la stima del costo del capitale di rischio, ossia il costo opportunità per l’azionista, il rendimento che l’azionista potrebbe vedersi riconosciuto. Gli approcci alla stima del costo del capitale sono molteplici, e possono essere ricondotti a due categorie principali (Guatri, 2009: p. 306): quelli basati sui modelli teorici (CAPM, Fama French, MCAPM modificato, Build-Up Method) e quelli privi di teoria economica (Estrazione diretta dai prezzi correnti delle azioni, criteri empirici e criteri misti). Considerato che l’obiettivo di questo lavoro non è l’esame di tali approcci, si farà riferimento ai modelli teorici, ed in particolare al Capital Asset Pricing Model (o CAPM), data la sua diffusione nelle applicazione di VBM108. Secondo il CAPM, il rendimento di un’attività rischiosa (Ke) è esprimibile come somma del costo dei titoli free risk (Rf ) (titoli di stato, obbligazioni) e del

premio (S) richiesto dagli azionisti per il rischio non diversificabile (il rischio cioè che gli azionisti non possono neutralizzare semplicemente diversificando il proprio portafoglio azionario) per la specifica azienda.

Il tasso di rendimento delle attività prive di rischio (Rf), date certe condizioni spazio-temporali, è il

medesimo per qualsiasi investimento o azienda109. La componente S, ossia il premio per rischio,

105 Sulle differenti modalità di stima del costo del capitale di debito, si veda Pratt (2008: p. 126). 106

Per approfondimenti sulla determinazione del “rischio di default”, si veda Damodaran (2006: p. 66) e AA.VV. (1995: p. 236).

107 Con riferimento allo scudo fiscale, si veda Damodaran (2001: pp. 88 e ss.).

108 Sui pregi e difetti di ciascun criterio, si veda Guatri (2009: pp. 307-312). Sui diversi approcci alla determinazione del tasso, si veda

Galeotti (2000: pp. 73-91), Guatri (2009: pp. 312-350), Zanda et al. (2013: pp. 141-147 e 155-161), Massari e Zanetti (2008: pp. 121 e ss.), Donna (1999: pp. 129 e ss.), Pratt (2002: pp. 81 e ss)

109 Al variare delle condizioni spaziali varierà anche il tasso in questione. Per gli aggiustamenti su questo tasso dovuti al rischio paese, si

63 attiene al rischio economico generale110 e si riferisce al compenso aggiuntivo che l’investitore si aspetta di ricevere per avere impiegato i propri capitali nell’azienda specifica anziché in titoli considerati privi di rischio. Il CAPM è un modello rischio/rendimento che stima il rischio in termini di variabilità dei rendimenti aziedali rispetto a quelli medi del mercato secondo la seguente formula generale:

Dove:

- Rm = tasso di rendimento medio del mercato azionario;

- (Rm – Rf) = premio per il rischio generale di mercato (Equity Risk Premium)111;

- β = coefficiente di variabilità, o di rischiosità sistematica dell’azienda, che misura il rischio specifico della stessa in termini di variabilità del suo rendimento rispetto a quello generale di mercato tasso di rendimento del capitale.

Il coefficiente β, com’è noto, misura la variabilità delle quotazioni del titolo in oggetto rispetto all’andamento del mercato. Un β = 1 evidenzia che il rendimento del titolo azionario dell’impresa ha generalmente uguagliato le oscillazioni del mercato nel suo complesso, e quindi presenta il medesimo grado di rischio. Un β > 1, invece, significa che le azioni dell’impresa hanno avuto un andamento più volatile rispetto al mercato, e quindi sono giudicate dall’investitore come un investimento maggiormente rischio rispetto al mercato nel suo complesso. Infine, un β < 1 ha un significato opposto. Il coefficiente β, quindi, non misura il rischio totale connesso all’azienda specifica, ma è espressivo del rischio sistematico dell’azienda, ossia della sensibilità dei risultati aziedali ad eventi di carattere generale che influenzano il rendimento di tutte le aziende operanti in un determinato ambiente (ad esempio, l’andamento dell’inflazione, andamenti dell’economia, situazione politica e sociale dei paesi nei quali l’azienda opera, ecc.). In contrapposizione ad esso si individua il rischio specifico che è imputabile alle peculiarità operative della singola azienda che potrebbero influenzare in vario modo i flussi attesi (ad esempio, la dipendenza dei risultati dalle competenze di una o poche persone, la posizione competitiva attuale dell’azienda e la sua evoluzione in seguito a dei cambiamenti del sistema competitivo). Il rischio non sistematico non è considerato nella stima del costo del capitale proprio, in quanto, nell’ottica dell’investitore è possibile neutralizzare questa componente diversificando opportunamente il portafoglio investimenti.112 Rinviando alla vasta letteratura in materia la descrizione delle modalità e delle tecniche di stima del β113

, procediamo con

110 Per approfondimenti relativi al concetto di rischio, si veda Massari e Zanetti (2008: pp.121 e ss.). 111

Per approfondimenti sul tema, si veda: Pratt e Niculita (2008: pp. 184-185).

112 Bisogna osservare che la rimozione del rischio specifico richiede una serie di condizioni (diffusione dell’informazione, possibilità di

scambire i titoli dell’azienda, ecc.) che non sempre sono presenti. Qualora non sia possibile escludere questa componente (es. in aziende non quotate e di piccole dimensioni) sorge l’esigenza di adattare il CAPM al fine di catturare il rischio specifico. A tal proposito la dottrina e la pratica hanno sviluppato delle soluzioni operative: il CAPM modificato e il Build-Up Method. A tal proposito, si veda Gonnella (2008: pp. 106-111), Guatri (2009: pp. 320-326).

64 un’osservazione delle sue determinanti, per le quali (almeno con riferimento a quelle influenzabili dall’azione manageriale) è possibile prevedere un’azione da parte dell’azienda finalizzata al contenimento dei loro effetti. La rischiosità sistematica può essere classificata in operativa e finanziaria. La prima attiene alla variabilità dei flussi lordi (risultato operativo o flusso di cassa operativo), ossia alla variabilità dei che avrebbe l’investimento se fosse interamente finanziato con capitale proprio, mentre, la seconda attiene alla alla maggiore variabilità della remunerazione dell’azionista causata dall’indebitamento. Di conseguenza è possibile distinguere il β in “unlevered”, che considera la sola rischiosità operativa, e in “levered” che esprime la complessiva rischiosità aziendale, sia operativa che finanziaria.114 Le determinati principali dei due β possono essere schematizzate come segue:

114 Per approfondimenti, si veda Massari e Zanetti (2008: p. 150) e Zanda et al. (1991: pp. 119 e ss.).

RISCHIOSITÀ OPERATIVA Dimensione Aziendale

Ciclicità del settore

Prospettive di crescita

Grado di leva operativa

Grado di internazionalizzazione

Grado di diversificazione

Grado di leva finanziaria RISCHIOSITÀ

FINANZIARIA

β unlevered

β levered

65 III.4 Il Value-Based Management: da “Sistema di controllo manageriale” a “Sistema di gestione

delle performance”

La storia dell’evoluzione del VBM è la storia di accademici, consulenti, dirigenti che credono nella