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La storia dell’evoluzione del VBM è la storia di accademici, consulenti, dirigenti che credono nella creazione di valore come obiettivo primario dell’azienda e che, con i loro contributi, hanno tentato d

III.4.1.2 I fattori chiave di successo

Dovrebbe essere chiaro che le metriche non sono l’obiettivo del VBM, se così fosse si confonderebbero i mezzi con i fini. Un’azienda non crea valore attraverso la manipolazione finanziaria ma bensì attraverso strategie e piani operativi per l’azienda nel suo complesso e per le business unit. Sebbene la scelta degli obiettivi permetta di ritrarre efficacemente i risultati passati ed il processo di creazione di valore, essi non consentono di identificare le vere ragioni di tali risultati e, soprattutto, di predire lo sviluppo delle performance future (Copeland et al. , 2000). Come analizzato in precedenza,

80 il management per creare valore deve investire in business e processi che assicurino un rendimento del capitale che sia al di sopra del costo del capitale. Per perseguire questo obiettivo il management deve interrelate tra loro una serie di decisioni e azioni che permettono di attuare un business che crei valore. A tal proposito sono necessarie tre tipi di scelte fondamentali: strategiche, finanziarie e di corporate governance (Pellicelli, 2007: 137). Il denominatore comune di tutte queste scelte è capire quali siano le fonti del valore (o value drivers). In senso ampio, un "Value Drivers" può essere definito come “una variabile che influenza il valore dell’azienda" (Koller, 1994). La letteratura sul VBM propone un ampia gamma di schemi volti ad individuare le determinanti del valore (Rappaport, 1998: p. 171; Pellicelli, 2009: p. 137; Giannetti, 2013: pp. 227-232). Tra gli altri, Rappaport (1998: pp. 61 e ss.) descrive i value drivers da un punto di vista finanziario: tasso di sviluppo delle vendite, entità del reddito operativo, investimento nel capitale circolante, investimento nel capitale fisso, costo del capitale. Ciascuno di essi viene poi ricondotto a tattiche che supportano la strategia di differenziazione o leadership di costo. L’autore sottolinea inoltre che, per gestire le determinanti del valore sia necessario individuare le attività ad alto impatto di valore, l’attrattività del settore, il posizionamento competitivo e le opzioni strategiche. Ancora, Koller et al (2010: p. 431) distinguono i value drivers in finanziari (sviluppo nel lungo termine, rendimento del capitale, costo del capitale), di breve termine (produttività delle vendite, produttività dei costi operativi, produttività del capitale), di medio (capacità di sostenere o migliorare l’attuale sviluppo delle vendite, capacità di gestire i costi rispetto ai concorrenti, capacità di mantenere e sviluppare le proprie risorse materiali e immateriali) e di lungo termine (capacità di mantenere il presidio delle aree d’affari principali ed individuare nuove opportunità di sviluppo). Infine, Young and O’Byrne (2001: pp. 272 e ss.) distinguono tra value drivers finanziari (derivanti dalla scomposizione dell’EVA) e non-finanziari (utilizzati per fornire indizi utili per stimare la sostenibilità dei primi), utilizzando il Balanced Scorecard per identificare e collegare le due categorie. Tralasciando la descrizione delle altre proposte che presentano sia dei tratti in comune che elementi di unicità131, è utile sottolineare come “tutti gli approcci evidenziano la rilevanza di un’analisi delle determinanti del valore che vada oltre la scomposizione delle grandezze economico-finanziarie, indagando la strategia, l’operatività aziendale e altri elementi chiave dell’economicità aziendale (come il capitale intangibile)” (Giannetti, 2013: p. 230). Data l’emergente mancanza di una tassonomia prevalente e condivisa, ai fini di questo studio proponiamo una classificazione basta su tre tipologie di value drivers: finanziari, strategici e operativi. I "driver finanziari di valore" (o Financial Value Drivers o FVDS) sono i parametri finanziari che guidano i risultati, il capitale ed il costo del capitale, tratti dalle metriche impiegate come obiettivo di fondo dell’azienda, e che possono essere così schematizzati: 1) il capitale investito (e le sue variazioni); 2) il tasso di reinvestimento (IR), che determina a sua volta il tasso di crescita dei risultati; 3) il rendimento generato dal capitale investito (es. ROIC); 4) il costo del capitale (WACC); 5) il periodo di creazione

131 Per approfondire la tematica dei value drivers nell’ambito del VBM, si veda inoltre Olivotto (2000), Ittner e larker (2001), Donna (2000;

81 di valore, ossia il periodo nel quale il rendimento ottenuto è superiore al costo del capitale. Indipendentemente dai differenti approcci che possono essere utilizzati per lo sviluppo delle metriche atte ad evidenziare tali driver (Residual Income, Cash flow based o CFROI), questo tipo di drivers consente di evidenziare quale siano le regole di base che devono essere seguite per creare valore (Arnold e Devies, 2000):

1) Aumentare il rendimento dell’attuale capitale investito; 2) Ridurre il costo del capitale;

3) Aumentare gli investimenti nelle business unit con performance spread positivo; 4) Disinvestire dalle Business Unit (BU) con spread negativo;

5) Estendere la durata del periodo in cui vi è uno spread operativo.

I "value driver strategici" (SVD) sono le variabili che permettono di "collegare le determinanti strategiche fondamentali dell’attrattività del mercato e posizione competitiva ai driver del valore finanziario" (Rappaport, 1999); in particolare, essi rappresentano le determinati della fonte principale della creazione di valore, ossia il vantaggio competitivo (VC).

Infine, i “value driver operativi "(OVD), infine sono quelle variabili (qualitative o quantitative) derivate da una combinazione delle precedenti, che hanno un livello di dettaglio coerente con le variabili decisionali che sono direttamente sotto il controllo dei manager ai vari livelli e permettono all'azienda di assegnare responsabilità per il perseguimento di strategie e target.

Concentriamoci adesso sulle determinanti di tipo strategico, come detto il VC rappresenta il presupposto necessario per la creazione di valore economico, per la semplice ragione di consentire alla società di investire il suo capitale ad un tasso di rendimento superiore al costo del capitale (ROIC > WACC) (Domodaran, 2001, pag.139; Porter, 1980; Barney , 2002; Besanko et al, 2000). In particolare, la sua intensità e la sua durata (periodo di vantaggio competitivo) rappresentano i driver più diretti di creazione di valore per gli azionisti (Mauboussin e Johnson, 1997; Mauboussin e Bartholdson, 2002). Infatti, da un lato, l’intensità del vantaggio competitivo determina l’entità dello scarto tra il rendimento e il costo del capitale che l’azienda può ottenere da investimenti attuali (e quindi influenza le decisioni di mantenimento o disinvestimento) e futuri (e quindi influenza su decisioni di nuovi investimenti), mentre, dall’altro, la durata del vantaggio competitivo determina il periodo durante il quale l’azienda potrà investire il proprio capitale in modo da ottenere un rendimento maggiore del costo. Chiacchierini et al. (2008) sottolineano come l’attenzione alla durata del VC non dovrebbe essere soltanto focalizzata alla sola previsione di un orizzonte previsionale esplicito, ma bensì estesa alla previsione del periodo durante il quale si presume che l’azienda riuscirà ad ottenere un VC, introducendo così il concetto di “rigenerabilità del VC” (Teece, Pisano, Shuen, 1997)132

. La letteratura consolidata sul management strategico, volta ad individuare il modo in cui le imprese ottengono, mantengono e rinnovano il proprio vantaggio competitivo, individuano cinque fonti di

132 Molti autori sottolineano come, in molti settori, il VC è sempre più un concetto transitorio e, dunque, l’unica strategia da perseguire è

82 vantaggio competitivo: l'attrattività del settore (Porter (1980, 1985) e Schmalense (1985)); le risorse e la competenze distintive (Wernerfelt , B. (1984), Barney (1991, 2002)); le capacità dinamiche (vedi Teece, D., Pisano, G. e Shuen, A. (1997)); i network strategici (cfr. Gulati Nohria e Zaheer (2000), Dyer e Singh (1998)); e le sinergie (Makadok, 2001).133

Se definiamo i fattori chiave di successo (o Key Success Factors o KSFs) come "le variabili che il management può influenzare con le sue decisioni e che determinano in modo significativo la posizione competitiva delle imprese in un settore nel lungo periodo" (Hofer e Schendel, 1977)134, l’azienda, esaminando le diverse fonti di vantaggio competitivo, deve identificare quali di queste e quali aspetti possano agire sui KSF, ossia un fattore critico di successo in un particolare settore/mercato, nonché prevedere come questi si evolveranno in futuro, al fine di definire delle strategie atte ad agire a creare un “fit” tra l’offerta di prodotti, risorse e capacità ed i KSFs, un fit che determinerà il successo competitivo, e poi finanziario, dell’azienda.

III.4.1.3 Le Strategie

Il terzo passo riguarda la formulazione della strategia, ossia “la direzione che l’organizzazione persegue nel lungo termine” (Johnson et al., 2005; Thompson and Strickland, 2003) per far si che l’azienda possa raggiungere gli obiettivi prefissati. In particolare, utilizzando i KSFs del settore come "pietra angolare", una società dovrebbe progettare una strategia per ottenere un vantaggio competitivo sostenibile, eccellendo in uno o più KSFs (Thompson e Strickland, 2003; Ansoff, 1965; Porter, 1980). “Che cos’è una strategia e come questa viene sviluppata?” rappresenta una delle domande più controverse e discusse tra i ricercatori nel campo dello “Strategic Management” (Mintzberg, 1998). Mintzberg (1998) distingue tra strategia “intended”, ossia progettata dal top management al fine di raggiungere i risultati (questa strategia può essere poi realizzata, e quindi diventare deliberata”, oppure non realizzata), e strategie “emergenti”, ossia una strategia nata da un comportamento realizzato che non era deciso a preventivo. Nonostante La classificazione di Mintzberg abbia un rilevante valore pratico, l'approccio di questa tesi, come già indirettamente espresso, è basato sul “planning model” secondo l’originario approccio di Ansoff (1965).

In questo contesto, la scelta degli investimenti strategici appare un momento di primaria importanza per il VBM, in quanto, per massimizzare il valore aggregato dell’azienda risulta è necessario investire i capitali reperiti in modo che il rendimento sia superiore al costo dei capitali stessi. Dunque, in questo ambito, il problema del management è quello di scegliere un mix ottimale di investimenti e finanziamenti che renda più alto contributo al valore organizzativo, e quindi la creazione del valore per gli azionisti. A tal riguardo, la letteratura sul VBM si limita ad offrire una serie di strumenti atti a

133 Per un approfondimento sulla relazione tra le fonti di vantaggio competitivo e i driver finanziari del valore vedere Chiacchierini et al.

(2008).

83 collegare le scelte strategiche al valore per gli azionisti (tra gli altri Porter , 1998; Rappaport , 1999; McTaggart , 1994; Copeland , 2000). Sebbene la letteratura sul tema del capital budgeting offra una vasta gamma di tecniche atte ad analizzare il contributo degli investimenti alle performance aziendali (Lee, 1985; Pike, 1996; Carr and Tomkins, 1998; Rappaport, 1998; Arnold and Hatzopoulos, 2000; Graham and Harvey, 2001; Alkaraan and Northcott, 2006; Verbeeten, 2006; Haka, 2007), ai fini del VBM, le tecniche che producono risultati allineati con l’obiettivo del VBM sono rappresentati da:

1. Il Net Present Value (NPV) (o Valore Attuale Netto o VAN), anche conosciuto come Discount Cash Flow (DCF); Il NPV corrisponde al risultato finanziario complessivo determinate quale somma algebrica dei flussi di cassa in entrata e in uscita, resi finanziariamente omogenei in riferimento alla data iniziale dell’investimento. Matematicamente, supponendo un investimento “a” di durata N e con flusso di cassa pari a Fn,

la formula per calcolare il NPV è la seguente (Brealey, 2011):

2. Internal Rate of Return (IRR) (o Tasso Interno di Rendimento). L’IRR assume il significato di rendimento medio del capitale investito per realizzare l’investimento. Esso può essere definito come il tasso che consente di rendere nullo il Valore attuale netto (Brealey et al., 2011):

Il tasso interno di rendimento non deve essere confuso con il costo opportunità del capitale anche se entrambi appaiono nella formula citata, il primo è una misura di redditività che dipende unicamente dall’ammontare e dalla collocazione temporale dei flussi di cassa del progetto, mentre, il secondo, rappresenta il tasso di rendimento offerto da altre attività con rischio equivalente al progetto in esame.

Sebbene i criteri del NPV e del IRR siano equivalenti, questo secondo metodo presenta alcune trappole (Brealey e Mayer, 2011): tassi di rendimento multipli, in quanto se c’è un cambiamento di segno dei flussi di cassa, il progetto può avere numerosi TIR o nessuno; nel caso di progetti alternativi aventi una vita economica differente o con diverso ammontare di investimento iniziale, l’applicazione del IRR potrebbe condurre ad una classificazione errata in termini di convenienza; infine, l’applicazione del metodo del IRR obbliga a confrontare quest’ultimo con il costo opportunità del capitale, il che non risulta possibile nel caso in cui vi sia un costo del capitale differente per i diversi periodi (i tassi di interesse di breve potrebbero essere diversi da quelli di lungo).

84 Sebbene il NPV e l’IRR siano due tecniche coerenti con il VBM, studi dimostrano che a livello aziendale le tecniche impiegate siano molteplici. Un recente studio di AlKaraan e Northcott (2006) ha rilevato come altri strumenti, come il Payback Period (PB) (utilizzato dal 96% dei rispondenti) e l’Accounting rate of Return (ARR) (utilizzato dal 60% dei rispondenti), sono frequentemente utilizzati nella valutazione degli investimenti. In particolare, il PB può essere definito come il numero di anni necessario affinché i flussi di cassa di un progetto recuperino l’investimento iniziale, e dunque che il tasso di profittabilità diventa positivo. La regola del tempo di recupero, sebbene molto semplice per descrivere i progetti di investimento, da punto di vista pratico, può fornire risposte falsate per due ordini di motivi: ignora tutti i flussi di cassa successivi al “cut off period” e considera allo stesso modo tutti i flussi di cassa all’interno del cut off period, senza considerare la disposizione temporale di questi ultimi. Per quanto riguarda l’ARR (o Tasso di rendimento contabile) esso nasce dal confronto tra il reddito contabile previsto con il valore contabile delle attività che l’azienda si propone di acquistare:

Esso presenta naturalmente i limiti che possono essere attribuiti alle misure contabili utilizzate per la valutazione dei risultati finanziari.

A queste misure tradizionali si affiancano anche alcune delle metriche analizzate in precedenza. In particolare, uno strumento molto utile per valutare l’azienda è rappresentato dallo SVA, il quale come visto si basa sulla logica consolidata del DCF. Inoltre, sebbene basati su dati contabili, Cornelius e Davies (1997) considerano l’Economic Profit e l’Economic Value Added (EVA) strumenti efficaci per la valutazione delle strategie.