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Crisi politica e crisi culturale

La crisi dinastico-politica che investì il Regno di Napoli nell‟ultimo decennio del Quattrocento, estendendosi sino ai primi anni del secolo successivo, aprendo di fatto la stagione delle guerre d‟Italia, venne percepita dai contemporanei come un episodio straordinario, facilmente immaginabile leggendo le pagine con cui Giucciardini, a distanza di circa un quarantennio, aveva ripercorso quegli anni. Con parole dense di amarezza, lo storico cercava di ricapitolare la situazione italiana a partire proprio dal 1494, inteso come momento di passaggio e di svolta per la civiltà europea:

Incominciò in tale disposizione di animi, e in tale confusione delle cose tanto inclinate a nuove perturbazioni, l‟anno mille quattrocento novantaquattro (io piglio il principio secondo l‟uso romano), anno infelicissimo a Italia, e in verità anno principio degli anni miserabili, perché aperse la porta a innumerevoli e orribili calamità, delle quali si può dire che per diversi accidenti abbia di poi partecipato una parte grande del mondo1.

Non era la prima volta che un sovrano a capo di un esercito straniero invadeva l‟Italia e non era certo la prima volta che la corona del regno meridionale nel giro di pochissimi decenni passasse nelle mani di una nuova dinastia straniera; nuovo era però il clima che si respirava, la consapevolezza della debolezza degli stati italiani dinanzi alle forti monarchie europee che proprio in quegli anni si andavano costituendo o rafforzando. Quando nel 1494 Carlo VIII decise di invadere l‟Italia con il fine di riconquistare i territori dell‟Italia meridionale, muovendo da pretese dinastiche con radici antiche ed in parte legittime2, quella discesa palesò davanti agli occhi di tutto il continente una crisi da tempo latente: si apriva così una nuova epoca per la civiltà europea e specialmente italiana, che ora mostrava appieno il disfacimento del suo sistema politico, il cui precario equilibrio, messo a dura prova

1 F.GUICCIARDINI, Storia d‟Italia, I, VI.

2 Legate agli antenati angioini che con Carlo d‟Angiò nel 1266, con il consenso papale, acquistarono il

governo del regno fino all‟instaurazione sul trono della monarchia spagnola. Cfr. ARCHI, Gli

Aragona… cit., pp. 7-34, ma anche PONTIERI, Dinastia, Regno e Capitale… cit.,vol. IV, to. 1, pp. 3- 230; G. GALASSO, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese, Utet, Torino 1992.

65 dopo la morte del Magnifico, rendeva la Penisola facile preda delle ambizioni straniere3.

Il Regno di Napoli, dopo appena cinquant‟anni dall‟instaurazione della monarchia aragonese e dalla conclusione delle vicende belliche che avevano portato alla deposizione degli angioini, si trovava coinvolto in un‟altra guerra dinastica che questa volta vedeva fronteggiarsi, contro gli Aragonesi, Francesi e Spagnoli, legati dal segreto accordo di Granada. In questo gioco di interessi, tramati contro la dinastia aragonese, alla fine ebbe la meglio la Spagna che, dopo una lunga guerriglia, riuscì ad imporre il suo dominio, con l‟instaurazione del vicereame nel 1503, affidato al Gran Capitano Gonzalo Fernández de Cordova4.

Ma la crisi politica del napoletano non rimase circoscritta ai soli territori meridionali. Anche a Firenze la cittadinanza, fomentata dalle parole di Girolamo Savonarola, era insorta contro i Medici, proprio in concomitanza con la discesa del re Carlo. Milano, Venezia, lo stesso Stato Pontificio si dimostrarono impotenti dinanzi alla minaccia del terribile esercito angioino, che dopo la facile conquista del Meridione, costringeva i piccoli stati italiani a compromessi e accordi poco favorevoli5.

Contemporaneamente alla decadenza politica, la guerra di fine secolo aveva portato alla luce una crisi sociale e culturale ben più profonda. Una splendida epoca, quella umanistico-rinascimentale, era giunta a maturazione e l‟intera civiltà europea, consapevole di attraversare un momento di trapasso, si preparava a vivere grandi cambiamenti: con le scoperte geografiche si aprivano nuovi orizzonti, così come con le scoperte tecniche o scientifiche cambiava la vita quotidiana e la stessa percezione della realtà. Anche la guerra, o meglio le stesse modalità del combattere erano

3 L‟invasione dei Francesi nell‟Italia meridionale e i molti disordini e guerre, che seguirono per circa

un decennio, frantumarono il fragile clima politico istauratosi dopo la pace di Lodi nel 1454: con la morte di Lorenzo le intricate situazioni dei principati italiani vennero esacerbandosi sino all‟invasione di Carlo VIII, che scombussolò nuovamente il quadro politico, così difficilmente formatosi. Per un inquadramento generale della politica italiana di questo secolo cfr. G. PILLININI, Il sistema degli

stati italiani 1454-1494, Libreria universitaria, Venezia 1970.

4 Cfr. NUOVO, Il mito del gran capitano…cit.

5 Per la situazione dell‟Italia nel Quattrocento cfr. A.TENENTI, L‟Italia del Quattrocento. Economia e

società, Laterza, Roma-Bari, 1990; R.FUBINI, Italia Quattrocentesca. Politica e diplomazia nell‟età

66 rapidamente mutate, e le circostanze del singolo stato, potevano, nel giro di pochissime battute, incrinare seriamente la stabilità dell‟intera Penisola6.

Pertanto a Napoli, come nel resto d‟Italia, alla crisi politica corrispose una profonda crisi culturale, aggravata dalla particolare struttura politica-amministrativa del Regno, le cui più alte cariche erano state affidate direttamente dai sovrani agli umanisti, che si trovavano spesso nella condizione di ricoprire contemporaneamente i ruoli di letterati, cortigiani e funzionari regi7. La corte e l‟accademia costituivano, quindi, i due poli in cui gravitava la compagine culturale della Napoli cinquecentesca8: entrata in crisi la corte era inevitabile che l‟accademia non venisse inglobata nel medesimo processo degenerativo. Lo stretto nesso tra corte ed

entourage intellettuale sembra anche motivare il carattere stesso della produzione

meridionale, sin dai tempi di Alfonso più attenta all‟aspetto politico, celebrativo ed educativo, come dimostrano le opere del Panormita, di Bracciolini, o di Valla, per citare solo alcuni degli umanisti al servizio del Re9. La stretta aderenza della produzione culturale alla committenza cortigiana fece sì che a Napoli, accanto ad una scrittura meno impegnata o più accademica, i letterati si interrogassero profondamente sulle ragioni e sulle conseguenze di tale crisi, spesso cercando di proporre soluzioni o denunciando chiaramente situazioni di degrado morale e civile, come lasciano intendere alcuni brani dei tardi dialoghi pontaniani10.

6 Guicciardini, acutamente, aveva registrato questo cambiamento proprio in concomitanza con l‟arrivo

dei Francesi. Si legge in Ricordi, 64: «Innanzi al 1494 erano le guerre lunghe, le giornate non sanguinose, e modi dello espugnare terre lenti e difficili; e se bene erano già in uso le artiglierie si maneggiavano con sì poca attitudine che non offendevano molto: in modo che, chi aveva uno stato, era quasi impossibile lo perdessi. Vennono e Franzesi in Italia e, introdussono nella guerra tanta vivezza, in modo che insino al ‟21, perduta la campagna, era perduto lo stato».

7 Cfr. l‟Introduzione dell‟edizione cura di M.CORTI, a P.J. De Jennaro, Rime e lettere, Commissione

per i testi di lingua, Bologna 1956, p. II.

8 Cfr. N. DE BLASI, A. VARVARO, Napoli e l‟Italia meridionale, in Letteratura Italiana. Storia e

geografia, diretta da A.ASOR ROSA, Einaudi, Torino 1988, vol. VIII, to. 1, pp. 295-414: 305.

9 Per una disamina sul rapporto tra intellettuali e principi cfr. G.M. CAPPELLI, Introduzione a G.

Pontano, De principe, Salerno, Roma 2003, pp. XI-CXXI; Id., “Corpus est res publica”, La struttura

della comunità secondo l‟umanesimo politico, in Principi prima del Principe, a cura di L. GERI, Bulzoni, Roma 2012, pp. 117-131; Id., L‟umanista e il principe nell‟Italia del Quattrocento, in «Cuadernos de Filologia italiana», XV, 2008, pp. 73-91; C. VECCE, Il principe e l‟umanista nella

Napoli del Rinascimento, in «Critica letteraria», 115, 2002, pp. 343-351; D. CANFORA, Prima di Machiavelli. Politica e cultura in età umanistica, Laterza, Bari 2005.

10 Cfr. il De magnanimitate e il De immanitate, i trattati scritti da Pontano negli anni successivi

all‟occupazione francese. I.I. Pontani, De magnanimitate, a cura di F.TATEO, Istituto nazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze 1969; Id., De immanitate liber, a cura di L.MONTI SABIA, Loffredo, Napoli 1970; In questi testi la riflessione dell‟umanista si fa più cupa di fronte alla constatazione di un progressivo degenerare del mondo, a cui Pontano si oppone con un netto distacco dalla politica, rifiutando ogni diretto coinvolgimento con le questioni attuali e optando per un tipo di vita

67 Gli intellettuali napoletani, coinvolti direttamente nella caduta del Regno, registrarono con grande tragicità gli avvenimenti di quegli anni: il crollo della monarchia comportava la fine di quell‟ambiente che aveva visto fiorire, con la sapiente politica culturale condotta dal Magnanimo e proseguita dai suoi successori, l‟Accademia napoletana. Ora, quel mondo idillico, in cui si era respirata l‟aria dei fasti antichi, andava improvvisamente in frantumi, proprio come era già avvenuto nei secoli precedenti con la fine dell‟età classica, terminata con le invasioni barbariche. Ora, nuovi barbari valicavano ancora le alpi, ponendo fine a quella che era sembrata una rediviva “età dell‟oro” ed aprendo di fatto un nuovo periodo di barbarie, ritratto così bene nelle pagine conclusive dell‟Arcadia o nelle opere tarde del Pontano11. Varie e diverse furono le reazioni dei letterati dell‟ultimo Umanesimo: alcuni si limitarono a registrare gli eventi, altri travestirono e trasfigurarono la brutalità di quegli episodi nei loro testi, altri ancora coltivarono, dietro un apparente quanto illusorio disinteresse, una letteratura dal più spiccato carattere umanistico, forse proprio con l‟intenzione di sfuggire, almeno sulla pagina, alla crudeltà di quei giorni e di quelle vicende. Cariteo, come si è visto nel capitolo precedente, per la sua vicinanza agli Aragona, fu coinvolto in prima persona nella rovina del Regno, arrivando addirittura a dover abbandonare per due volte Napoli, nel 1494 e, per un periodo più lungo, nel 1501, facendovi ritorno solo nel 1503, quando ormai la città, in prossimità della firma del trattato di Lione, ratificato solo il 31 marzo del 1504, stava per diventare un vicereame dell‟impero spagnolo. Tracce interessanti di questi anni si riscontrano ampiamente nella produzione cariteana, nell‟Endimione, dove

contemplativa. La scelta del Pontano non fu affatto isolata; anche Cariteo e Sannazaro, tornati dai rispettivi esili, si distaccarono dalle questioni politico-amministrative del Regno, dedicandosi alla revisione e pubblicazione della loro produzione precedente e rifugiandosi in un tipo di scrittura diversa, come la letteratura sacra. Tale atteggiamento, che costituisce la risposta più autentica degli umanisti alla crisi del loro tempo, è stato interpretato da Tateo come l‟acquisizione della consapevolezza del «fallimento di un processo politico accompagnato con fervore dall‟entusiasmo dei letterati e rivelatosi inconsistente», in quanto «il travolgimento politico si configurava giustamente ai loro occhi come l‟irrimediabile fine del sogno di costruire sulle basi degli ideali umanistici una società nuova, una società civile, che proprio dall‟Umanesimo promuoveva con la sua nuova etica. Donde l‟isolamento dei letterati e il loro ritorno a forme culturali preumanistiche». Cfr. F.TATEO, La crisi

dell‟Umanesimo nella coscienza degli scrittori del regno aragonese, in Atti del congresso internazionale di studi sull‟età aragonese (Bari, 15-18 dicembre 1968), Adriatica ed., Bari 1970, pp.

264-274: 268 e 274.

11 Cfr.S.VALERIO, L‟immagine della decadenza negli umanisti meridionali, in La Letteratura degli

Italiani. Rotte, confini, paesaggi (Associazione degli Italianisti, XIV Congresso Nazionale, Genova

15-18 settembre 2010), a cura di A.BENISCELLI,Q.MARINI,L.SURDICH, Città del silenzio edizioni, Novi Ligure 2012, pp. 47-63.

68 l‟ultima sezione comprende molti componimenti scritti negli anni dell‟esilio, ma soprattutto nelle opere successive al 1501, tutte incentrate nell‟estenuante difesa della corona o nel ricordo di questa. Cariteo, perduta ogni certezza, si rifugia in quel mondo ideale che continua a vivere nei suoi versi: quella corte, quella cerchia di letterati e amici dell‟Accademia, quegli ideali tutti umanistici continuano a vivere attraverso la sua penna, che ha ora come unico fine la celebrazione della Napoli aragonese, offesa prima dalla presenza dei barbari Angioini e poi declassata, con l‟instaurazione del vicereame, al rango di provincia del grande impero spagnolo. È proprio in questo contesto che si deve leggere la stesura delle Metamorfosi, opera che costituisce la replica di Cariteo al caos irreversibile in cui era precipitata l‟Italia del primissimo Cinquecento. Con questo poemetto, in cui si alternano e si fondono travestimento mitologico, tematiche prettamente umanistiche e rievocazione storica, il poeta cercò di raccontare ai posteri la fine della dinastia aragonese e la trasformazione del regno napoletano, che come si legge nello stesso testo «cangiò volto e fortuna»12 .