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Croce in un suo contributo ha definito Cariteo «poeta politico della corte aragonese»76, mettendo in risalto nella produzione dell‟umanista non tanto le qualità poetiche, che lo studioso giudicava di limitato valore letterario, quanto l‟importanza della sentita testimonianza storica che affiorava dalla sua poesia, quella di un poeta che «sentiva nobilmente e nobilmente esprimeva un momento della storia napoletana e italiana, quello della caduta dei re aragonesi di Napoli e della fine del regno di Napoli, disceso a provincia di un grande impero straniero»77. Croce ha colto nei testi cariteani non tanto la bellezza poetica dei versi, ma il sentimento e l‟affetto che li avevano ispirati78. Ciò che emerge dal giudizio del critico è l‟attenzione che Cariteo aveva riservato agli eventi della storia, eventi che erano stati vissuti in prima persona dallo stesso poeta per la sua vicinanza alla famiglia reale. Degli anni di crisi storica e

73 Cfr. BARBIELLINI AMIDEI, L‟età dell‟oro… cit., pp. 234-236.

74 Cfr. Canzoni in la nativitate de la gloriosa madre di Ihesu Christo, II, 64-66: «sì come eletta / a

darne un più bel sol: sol di giustizia, / novo al mondo splendor, nova letitia».

75 Cfr. In la nativitate de la gloriosa madre di Ihesu Christo, III, 17-18: «hoggi s‟incominciò far novo

il mondo, / et produr frutto human, mundo di labe», ma cfr. anche la Canzone di Chariteo in la santa

natività di Ihesu Christo soprattutto la Pasca, pensata ad imitazione del contemporaneo poema

sannazariano. In quest‟ultima opera, tesa alla celebrazione della famiglia dei Del Balzo, è centrale il tema della renovatio, dove l‟attesa di una nuova età ha l‟effetto benefico di riportare nel mondo valori da tempo perduti, quali la tanto agognata Pace e la Giustizia. Cfr. a tal proposito il saggio, già citato precedentemente, di BARBIELLINI AMIDEI, L‟età dell‟oro… cit., pp. 236-237.

76 CROCE, Il Chariteo cit., p. 36. 77 Ibid.

78 Ivi, p. 38: «Ma l‟anima sua vera è nella fusione che in lui si era compiuta di spagnuolo, da

Barcellona venuto a Napoli in gioventù, e di cittadino e letterato napoletano, ritrovante in Napoli i principi della sua casa d‟Aragona, circondati dagli umanisti e poeti che erano la gloria d‟Italia. Egli non adula cortigianamente quei principi, quei sovrani, quei personaggi di grandi famiglie gloriosi nelle armi immigrati dalla Spagna in Napoli, quegli uomini illustri, ma sinceramente li ama».

91 culturale che attraversarono l‟ultimo ventennio del Quattrocento Cariteo ci lascia un quadro chiaro, facilmente immaginabile accostando i testi dell‟Endimione o delle opere successive, come se questi fossero tante piccole tessere di un mosaico, che nella loro totalità ricomponevano gli avvenimenti di quegli anni. Ma è nelle

Metamorfosi che Cariteo, come un esperto pittore, combinando abilmente storia e

mitologia, come se queste fossero i colori di una tavolozza, ha dipinto uno splendido affresco dei momenti conclusivi di quel ventennio. Per rievocare quelle vicende, l‟autore non ha scelto di utilizzare la prosa, seguendo l‟esempio del Panormita, di Pontano o di gran parte della storiografia umanistica, ma ha preferito farlo attraverso la poesia, individuando nel poema in terza rima, metro da sempre usato per la produzione didattico-morale, il genere con cui raccontare la propria, personale visione storica di quel ventennio.

La storiografia fu un genere molto praticato nel Quattro e Cinquecento, ma è proprio nel corso XV secolo che alla storia viene riservata una considerazione sempre crescente coniugata al concomitante recupero della storiografia di impostazione classica79, che, tenendo fede a quel progetto di recupero complessivo della classicità, sceglie preferenzialmente di esprimersi attraverso la lingua latina.

La fortuna nel Quattrocento di questo genere letterario nasce, in parte, dal bisogno degli intellettuali di motivare e legittimare i repentini mutamenti ai vertici del potere, circostanza questa che nell‟Italia quattrocentesca si verificava con frequenza, facendo della Penisola un territorio instabile, frazionato in moltissimi domini e caratterizzato da una situazione politico-istituzionale in continuo cambiamento. Rispetto ai principati, le cui dimensioni corrispondevano pressappoco a territori regionali, il Regno di Napoli era a quel tempo la più grande entità territoriale d‟Italia; Alfonso il Magnanimo, subito dopo la sua instaurazione sul trono napoletano, diede vita ad un progetto di riqualificazione di tutto il Regno e soprattutto della città di Napoli, dove decise di stabilirsi e trasferire parte delle sua corte. La città venne così investita da un profondo rinnovamento politico, economico e soprattutto culturale, in

79 Pier Paolo Vegerio nel De ingenius moribus, opera dedicata all‟educazione di un giovane principe,

ne mette in risalto l‟importanza della conoscenza di questa disciplina nell‟edificazione morale dell‟essere umano. Lo stesso sarà sostenuto da Pontano nel De Principe, dedicato ad Alfonso I. Cfr. CAPPELLI, L‟umanista e il principe…cit., pp.73-91. Cfr. TATEO,Imiti della storiografia…cit.

92 quanto il sovrano si era reso conto della grande riserva costituita dagli intellettuali nell‟azione di propaganda e mantenimento della corona80. Nota Davide Canfora:

…il problema non era dunque rendere accattabile per il ceto nobiliare e per i suoi sudditi la monarchia: la politica culturale aragonese si servì piuttosto del raffinato livello culturale del ceto umanistico nell‟adempimento di delicate missioni diplomatiche e soprattutto nel disegno di celebrazione e rafforzamento che il potere organizzò intorno a sè81.

La dinastia aragonese, essendo di origini straniere, all‟indomani del suo insediamento, aveva avvertito la necessità di rendere accetto il proprio dominio, ottenuto con la forza e la guerra, alla popolazione e al resto d‟Italia, nel tentativo di scongiurare il pericolo, sempre presente, di sollevamenti politici82. La letteratura per questa ragione era stata chiamata nel difficile compito di nobilitare la famiglia reale e giustificare la venuta di questa in Italia. A tal fine, già negli anni di reggenza di Alfonso I vengono redatte dai più noti umanisti del tempo opere storiografiche, per diretta committenza regia, con lo scopo di presentare l‟arrivo dei re come un nuovo, prospero inizio per il Mezzogiorno. Tateo nota come per gli Aragonesi la produzione letteraria, e in particolare la storiografia, costituisca il mezzo opportuno per legittimare agli occhi degli Italiani il loro dominio in Italia. Gli Aragonesi avevano bisogno di giustificare la loro presenza e per questo hanno accolto con favore la lettura classica offerta dagli umanisti, che vedevano nella dinastia spagnola un prolungamento delle antiche virtù romane83.

Per tutte queste ragioni, a Napoli fiorisce fra Quattro e Cinquecento una notevole produzione storiografica, per lo più redatta in latino, volta alla nobilitazione della dinastia aragonese, all‟indomani del trionfo sugli Angioini84: compito degli

80 Vedi PONTIERI, Per la storia del Regno… cit., e BENTLEY, Politica e cultura… cit. Sul ruolo di

propaganda svolto dagli intellettuali all‟interno delle corti cfr. M.T.FUMAGALLI, L‟intellettuale, in

L‟intellettuale tra Medioevo e Rinascimento, M.T.FUMAGALLI,E.GARIN, Laterza, Roma-Bari, pp. 5- 62.

81CANFORA, Uno spaccato di vita cortigiana: cultura e potere a Napoli, in Id., Prima di

Machiavelli…cit., pp. 99-116: 100.

82 Cfr.F.DELLE DONNE, Storiografia e propaganda alla corte aragonese. La descrizione del trionfo di

Alfonso il Magnanimo secondo Gaspare Pellegriono, in Id., Politica e letteratura nel Mezzogiorno medievale. La cronistica nei secoli XII-XV, Salerno, Carlone 2001, pp. 147-177.

83 TATEO, La “renovatio” dell‟impero romano nel Regno di Napoli, in Id., I miti della

storiografia…cit., p. 155.

84 Sulla storiografia umanistica cfr. La storiografia umanistica. Atti del Convegno Internazionale di

93 storiografi, ma anche di tutti gli umanisti, è quello di esaltare nelle loro opere, più che la città, il sovrano. Ciò che più avvicina questa produzione è la comune strategia di propaganda politica che le anima, che si evince, ad esempio, dalla scelta sistematica di iniziare la narrazione dagli anni della lotta fra angioini e aragonesi o a volte, dall‟insediamento di Alfonso, tralasciando il resoconto degli eventi precedenti o il racconto della fondazione e nascita della città. Nel tracciare un brevissimo profilo di questa produzione storica sbocciata all‟indomani dell‟insediamento degli Spagnoli, si deve riconoscere a Biondo Flavio, umanista vissuto alla corte di Alfonso per diversi anni, il merito di essersi cimentato per primo nell‟impresa, redigendo l‟opera in sette libri De rebus gestis ab Alfhonso.

La storiografia napoletana si distingue per la concentrazione sulla figura del singolo re, come la sopracitata biografia di Biondo Flavio, a cui si devono accostare i dieci libri di Bartolomeo Facio, dal titolo Rerum gestarum Alphonsi regis o la redazione dell‟opera storica di Valla, che durante il soggiorno presso la corte di Alfonso il Magnanimo dedicò il suo lavoro storiografico al padre di questi, nella Historia

Ferdinandi regis, a cui doveva seguire la redazione di un‟opera successiva, mai

avvenuta, su Alfonso, come anche incentrata su un unico sovrano è l‟opera del Panormita, tesa a tracciare il ritratto di Ferrante I nei Gesta Ferdinandi regis85. Anche Cariteo nelle liriche del canzoniere si fa portavoce della storia della seconda metà del Quattrocento, in particolare nelle canzoni, perlopiù rivolte alla celebrazione degli Aragona e del loro operato, come la VI e la VII, tese rispettivamente a tracciare la storia della discendenza aragonese e ad esaltare il re Ferrandino, o la canzone XVI, composta in occasione della salita al trono di Alfonso II, dove l‟autore, elencando i molti meriti del sovrano, non dimentica di fare accenno alla memorabile vittoria sui Turchi, che portò Alfonso all‟attenzione di tutta Europa.

Il motivo amoroso assume una centralità significativa nell‟economia della raccolta, ma si deve rilevare come accanto a questa tematica si insinui pian piano, fino a divenire fondamentale, una sempre più forte vocazione a trattare argomenti più

TRAMONTANA, Sicania, Messina 1992, 3 voll.; M.A.REGOLIOSI, Riflessioni umanistiche sullo scrivere

storia, in «Rinascimento», XXXI, 1991, pp. 3-37; G. COTRONEO, I trattatisti dell‟Ars historica, Giannini, Napoli 1971. Cfr. anche la validissima Introduzione a cura di G. RESTA a Antonii Panhormitae, Liber rerum gestarum Ferdinandi regis, Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, Palermo 1968, pp. 5-58.

85 Cfr. F.TATEO, Modernità dell‟Umanesimo, Salerno: Edisud, Stony Brook (New York) 2010, pp.

94 impegnativi, capaci di eternare i nomi dei re e dei loro scrittori. Rispetto alla canzone X, O non volgar honor del secol nostro, scritta per l‟amico Sannazaro, dove Cariteo si dichiara schiavo d‟amore e demanda ad altri letterati, quali lo stesso poeta di Mergellina, ma anche Pardo e Altilio, la materia storica e il compito più importante di lodare le glorie d‟Aragona86, emerge nei componimenti dell‟ultima sezione dell‟Endimione l‟intenzione di celebrare i sovrani e insieme la volontà, forse più forte, di conseguire la gloria poetica e di rendere noto il proprio nome87. Questo desiderio, che assume una posizione significativa negli ultimi componimenti, suggella lo stesso canzoniere, trovando espressione nel testo finale della raccolta, la canzone XX, rivolta al cardinale Oliviero Carafa, che pare essere stato composto in occasione dell‟ordinamento conclusivo, per la stampa del 1509. Tutto il testo è dedicato al tema della fama e alla lode di quei poeti e mecenati, come lo stesso cardinale, che con le loro opere letterarie e artistiche resero immortale il loro nome. Pubblicando tutta la sua produzione poetica, Cariteo aveva deciso di dare al suo pubblico un‟immagine nuova di sé, più vicina a quella che era stata la sua vita, che aveva consacrato agli Aragona e alla politica, fino agli ultimi giorni della loro dominazione.

Il mutato quadro politico spingeva l‟autore a cimentarsi con un tipo di materia diversa, la Historia, trattata sporadicamente nelle canzoni, ma che dopo il 1502 richiedeva un‟attenzione assoluta per la necessità di riferire un momento critico della storia del regno napoletano, che ora, con Federico in Francia e la città in mano ai Francesi, sembrava irrimediabilmente perduto.

Cariteo si fa così portavoce della storia dell‟intero popolo, ma da poeta qual era decide di raccontare quegli eventi non attenendosi scrupolosamente al vero, come ogni opera storica richiedeva, ma di farlo attraverso un profonda rielaborazione letteraria, che si avvale del mito per stemperare una vicenda altrimenti troppo dolorosa88. Lo stesso poeta, che aveva vissuto in prima persona quegli eventi accanto

86 Cfr. Cariteo, Endimione, canz. X, 16-21: «Così vivo, seguendo mia ventura / vera et crudele, et

quel, che posso, io voglio, / poiché quel, che vorrei, non si può fare. / Sì cieco Amor mi tien, che non mi doglio / di vedermi sepolto in fama oscura, / lasciando a voi le palme insigni et chiare».

87 Sul motivo della fama poetica cfr. BARBIELLINI AMIDEI, Alla Luna… cit., pp. 110-113.

88 Cfr. TATEO, I miti della storiografia… cit., pp. XVI-XVII: «Gran parte della storiografia umanistica

nasca con maggiore o minore consapevolezza dalla convinzione che il vero della storia, anzi l‟esistenza di essa, risieda nell‟opinione e nell‟arte degli uomini che la raccontano, ossia nei miti che essa tramanda [...] tutte forme in cui il fatto diventa concetto storico perché si trasfigura in mito».

95 ai suoi re, diviene protagonista del poemetto storico, che si apre con una riflessione sul corso degli eventi e su quanto ingiustamente avvenuto:

Sovente un dubio grande il cor m‟assale: perché l‟alto Rettor de la natura

supporta un lungo, inemendabil male, benché pensier sì vano in me non dura, chè ‟l caldo di ragion suscita un vento, Che fuga da la mente ogni aria oscura, Chi pensa a vinti, a trenta, ad anni cento? se‟n mente di colui, che fece ̓l sole,

mille e mill‟anni, e più, son un momento89?

Croce, nello studio citato all‟inizio di questo paragrafo, ricorda i versi iniziali del poema, cogliendo il senso di abbandono del poeta di fronte alla rovina:

La catastrofe era stata così grande e così rapida, e tutto ciò che egli aveva avuto caro era precipitato così in fondo, senza speranza di resurrezione, che egli era preso dal pensiero che sempre occupa la mente in queste strette disperate, del perché tutto ciò debba essere accaduto, del perché ciò che ci si mostra apertamente irrazionale e cattivo, duri così saldo e tenace che non se ne scorge la fine.

Ma a indurlo alla rassegnazione seguiva l‟altro pensiero che la vita del mondo ha misure assai maggiori di quelle che le poniamo noi con le nostre sofferenze, con i nostri dolori, con la nostra impazienza90.

Tutto il primo canto è incentrato sul lamento dell‟attuale situazione della città, in mano ai barbari usurpatori e sul poeta stesso, protagonista in prima persona della metamorfosi che lo rende anziano, in seguito all‟incontro con le mitiche Sirene. Molti sono i riferimenti alle vicende storiche degne di nota, tra i quali risalta l‟allusione all‟indegno Trattato di Granada, stipulato nel Novembre del 1500 fra Ferdinando il Cattolico e Luigi XII, un‟alleanza che di fatto portò alla disfatta degli Aragonesi. Il grave tradimento perpetrato dal ramo aragonese di Spagna viene rievocato attraverso il monito gridato dalla furia Aletto, che maledice tutti coloro che ripongono la fiducia nei loro simili, parafrasando un versetto di Geremia (XVII, 1: «Maledictus homo qui confidit in homine»). Ma è nel secondo canto che la materia storica conquista la sua centralità, attraverso il mesto canto della sirena Partenope, con cui si identifica la stessa Napoli, che rievoca i tempi felici e i cari re scomparsi.

89 Metamorfosi, I, 1-9.

96 Sempre tramite le parole di Partenope, Cariteo, alla luce di quanto accaduto si sente di dover ammonire tutti i sovrani a porre un limite alle loro ambizioni politiche, essendo sempre mobile e inaspettata la volontà della fortuna, in questi versi spiegata con il ricorso alla volontà divina:

Qual re più fida in regno in me si miri come in lucido specchio! O re possenti, imparate frenar vostri desiri!

Non vi inganne il piacer di ben presenti, ché sempre a voi minaccia il Re magiore, ciò che temon di voi le minor genti91.

Con questi versi, Carieto sembra ricollegarsi alla, di poco precedente, riflessione svolta da Pontano nella chiusa del De bello neapolitano, licenziato nel 1501. Giovanni Pontano, alla luce degli avvenimenti seguiti alla discesa di Carlo VIII, nel risistemare e concludere la sua opera sull‟ascesa al trono di Ferrante I e la guerra sostenuta contro i baroni del Regno, si lascia andare ad un‟amara considerazione, constatando come le vicende del Meridione avrebbero forse avuto un esito diverso se Ferrante avesse saputo meglio mantenere il consenso presso il suo popolo92.

Preoccupata per le sorti del regno, consegnato da Federico d‟Aragona ai Francesi, la Sirena ricorda i nomi dei sovrani napoletani, soffermandosi su Ferrante I, alludendo al suo lunghissimo regno, che seppe mantenere grazie alle sue qualità accordate da una giusta dose di fortuna; ma la sua preoccupazione è per l‟ultimo di quei re, Federico, che, come si deduce dai versi del II canto, si avventura verso una sorte incerta, imbarcato su una nave diretta in Francia:

91 Metamorfosi, II, 10-15.

92 Cfr. CAPPELLI, Introduzione a I.I. Pontano, De Principe, cit., p. XIX: «Il De bello neapolitano,

risistemando sul finire del secolo appunti presi a caldo e pezzi scritti nel corso degli anni, attraverso la rievocazione della lontana guerra di successione sostenuta da Ferrante all‟inizio del suo regno (1459- 1464), tenta un bilancio e un ripensamento di tutta la vicenda aragonese, suggellato dal severo giudizio finale dell‟opera, che accusa Ferrante di non aver saputo sfruttare adeguatamente , in tempo di pace, il consenso e gli equilibri creati durante quella guarra: “Raggiunta la pace e risolta la situazione secondo i suoi voleri, ferrante regnò più di trent‟anni, nel corso dei quali molte guerre intraprese per questioni di alleanze e amicizia, e grazie alla capacità e all‟impegno di suo figlio Alfonso vinse e cacciò dall‟Italia anche i Turchi, che avevano assalito all‟improvviso e occupato Otranto e buona parte del Salento. Ma se egli nella pace e nell‟ozio avesse serbato la stessa strategia con cui all‟inizio si era procacciato il regno, così come fu considerato sommamente felice, sarebbe stato annoverato tra i prìncipi più eccellenti”».

97 Ai! magnanimi Re, pien di giustizia:

Ferrandi, Alfonsi, e tu, primo Ferrando, per cui vertù col fato ebbe amicizia;

non turba or vostra gloria il danno infando, ch‟io sento per la vostra inclita prole, ch‟incerta va per l‟onde orrende errando93.

Come ho già spiegato precedentemente, questi versi sono molto importanti ai fini della datazione dell‟opera, perché ci permettono di collocare la stesura del componimento nei giorni o nei mesi immediatamente successivi alla partenza di Federico per la Francia. Inoltre l‟assoluta mancanza di riferimenti alla compagnia di Sannazaro, che fedele a Federico raggiunse l‟amato re nel suo esilio ritornandovi solo nel 150594, dopo la morte di questi, o alla presenza della moglie Isabella accanto al marito, mi induce a ritenere il poemetto non successivo alla seconda metà del 1502.

Pochi versi dopo è la stessa Partenope a spiegare la condizione di incertezza in cui vessa il regno, con il Re partito per la Francia e lo spettro di una nuova guerra dinastica tra Francesi e Spagnoli, a poco più di cinquant‟anni dalla precedente contesa tra angioini e aragonesi:

Ond‟io rimasa son senza il mio sole, talché temo tornare al volto antico del Caos rude e indigesta mole.

Ai!, ai!, perduto ho ̓l mio gran Federico! Con lui ne porta il vento le mie glorie, la mia bona fortuna e ̓l fato amico95.

Trasportata sulla scia dei ricordi, la sirena si domanda dove siano le regine, vera gloria della dinastia; per Partenope le donne sono disperse, indice del fatto che quando il poeta scrisse questi versi le regine non erano a Napoli96 e forse non erano

93 Metamorfosi, II, 19-24.

94 Si veda VECCE, Sannazaro in Francia, cit. 95 Metamorfosi, II, 25-30

96 Cfr. ARCHI, Gli Aragona a Napoli cit., pp. 129-130: «All‟avvicinarsi dei francesi la regina

Giovanna, vedova di Ferrante I, la regina Beatrice d‟Ungheria, la regina Isabella moglie di re Federico