La vistosa presenza dei classici è un tratto che contraddistingue tutta la produzione dell‟autore e le Metamorfosi non fa certo eccezione7. In queste però, essendo mutato l‟argomento del poetare, le fonti si allargano a comprendere anche autori diversi, che comparivano in misura minore nell‟Endimione, dove sono predominanti Virgilio e gli elegiaci, data la materia prettamente amorosa.
Diversamente nelle Metamorfosi, l‟autore prende ispirazione, come il titolo rivela, dal grande poema ovidiano, che, dopo la moralizzazione cristiana medievale, già con Petrarca e il nascente XV secolo conosce una grandissima fortuna8. Anche nell‟Endimione la critica ha rilevato un uso costante di Ovidio, ma in quel caso è soprattutto l‟Ovidio elegiaco ad essere recuperato; diversamente nelle Metamorfosi cariteane è il poema delle permutazioni che sembra informare la struttura stessa del componimento, in quanto, come nell‟opera ovidiana le metamorfosi si susseguono senza interruzioni per tutti i quindici libri, anche nella riscrittura cariteana le metamorfosi accompagnano la narrazione, dipanandosi nei quattro canti9.
Il grande repertorio mitologico greco e latino viene quindi recuperato come exempla universali del fluire del mondo, una raccolta di casi da cui attingere per tentare un‟esemplificazione testuale di quanto accaduto nel mondo reale ed attuale, in cui scrive il poeta. Cariteo ricava da Ovidio il senso dell‟universale trasformazione che è
7 Nel suo saggio sulla poesia del Cariteo, Getto riconosce nel ricorso ai classici una nota di
raffinatezza della sua poesia, perfettamente aderente a quell‟ideale di eleganza e perfezione che il poeta perseguì in ogni aspetto della sua vita: «Cosicché paiono incontrarsi e coincidere il suo gusto di vita e il suo gusto di poesia, il suo stile umano (fisico e d‟anima) e il suo stile poetico […] In cotesta superiore sigla della personalità del poeta, e in cotesto accordo di poetica e biografia, acquista una puntuale giustificazione l‟amore per l‟eleganza della forma (“cultum atque elegantiam novi tuam” scriveva a lui nel prologo del De Splendore il Pontano) e la ricerca costante di uno squisito intarsio di espressioni ricavate dai classici, da Virgilio ad Orazio, da Properzio ad Ovidio, da Catullo a Lucrezio. Né si può discorrere propriamente, per questi richiami all‟antica poesia di imitazione o di povertà fantastica che s‟aggrappa alla dovizia della letteratura latina, o, comunque di sterile ed ingenuo ripiego di una squallida sensibilità di erudito. Al contrario la preziosa tessera che viene ad inserirsi nel testo poetico sta ad indicare una ricchezza di fantasia, una compiaciuta passione per un mondo di consacrata bellezza e di riconosciuta dignità letteraria». GETTO, Sulla poesia del Cariteo, cit., p. 58.
8 Cfr. P. Fornaro, Metamorfosi con Ovidio. Il classico da riscrivere sempre, Olschki, Firenze 1994. 9 Nel delineare un breve excursus sulla presenza ovidiana disseminata nel testo non posso non
ricordare ancora una volta il contributo di Tateo dedicato all‟analisi delle reminiscenze ovidiane nel testo delle Metamorfosi: Tateo, Le Metamorfosi di Chariteo e la fortuna napoletana di Ovidio, cit., pp. 125-138.
127 alla base di tutto il cosmo, quella trasformazione degli elementi spiegata così bene, e che l‟autore recupera per comprendere un mondo caratterizzato dal continuo permutare10. È proprio attraverso la lente ovidiana che il poeta catalano riesce ad accettare il disfacimento politico-culturale che lo circonda mentre scrive il poema e che è al centro delle Metamorfosi stesse. Centrale per capire il senso ultimo di quanto raccontato e vissuto è pertanto il verso «or son mutati in altro stato, / ché sotto ‟l ciel non son le cose eterne», che si legge in Metamorfosi, I, 30, dove l‟autore arriva amaramente a concludere che un‟universale metamorfosi sia alla base della molteplicità del mondo, comprese le vicende umane che avvengono sulla sua superficie. In realtà l‟inizio del racconto ha poco di ovidiano, perché sin dai primi versi l‟intenzione dell‟autore è quella di inscrivere l‟opera in un contesto moderno, che risente molto del travaglio spirituale petrarchesco qui ripensato alla luce degli eventi storici.
Il contesto scenografico di un luogo ameno e piacevole, quale poteva essere la bellissima Napoli del Quattrocento che la Tavola Strozzi ben rammenta, ci riconduce all‟Arcadia, e se vogliamo ancor prima a Boccaccio. È solo con il repentino mutamento della città, in cui aleggia l‟ombra della Commedia, che abbiamo una prima ripresa ovidiana, utilizzata per istituire un paragone tra l‟età dell‟oro, ricordata da Ovidio proprio nel primo libro delle Metamorfosi e l‟età dell‟oro a Napoli, entrambe irrimediabilmente passate. Sannazaro nell‟Arcadia aveva parlato del monte Partenio e della bellezza della sua vetta, una sorta di locus amoenus destinato a subire una metamorfosi nel corso dell‟opera, divenendo luogo d‟esilio e di disperazione per il poeta. Il Parnaso con le sue due vette era stato ricordato da Ovidio nel I libro delle Metamorfosi, 316-317, gli stessi versi che poi saranno riutilizzati dall‟autore per descrivere le due vette del monte Vesuvio, nel I canto dell‟opera. Un duplice omaggio quello del Cariteo, che citando direttamente Ovidio in realtà ci riporta all‟ambientazione del Parnaso e all‟Arcadia del Sannazaro, non citata
10 Similmente Anselmi interpreta il senso ultimo del grande poema Ovidiano, nella sua Introduzione a
Le Metamorfosi di Ovidio, cit., pp. I-XIII: XI: «La messa in scena della fabula del mito è la messa in
scena stessa della frammentaria e proteica trasformazione del mondo, al suo fondo di realtà inconoscibile, se non in quei tratti di vita, di natura, di divino che incrociano l‟esistenza dell‟uomo e che dominano le pagine delle Metamorfosi».
128 espressamente, ma allusivamente ricordata attraverso la bellezza del paesaggio napoletano.
Lo stesso intreccio tra fonti moderne e fonti classiche lo ritroviamo nuovamente qualche verso dopo nei confronti del Pontano. Infatti, Cariteo recupera l‟incipit del poema ovidiano, quando si troverà a dover descrivere il terremoto politico- istituzionale che aveva colpito Napoli. La tragedia dei suoi tempi viene rievocata attraverso Ovidio, quando nel II canto, vv. 25-27, nelle prime battute della sirena Partenope, si accenna al caos che prepotentemente è ritornato a Napoli
Ond‟io rimasa son senza il mio sole, talché temo tornare al volto antico del Caos, rude e indigesta mole.
La citazione è ovidiana, ma l‟intento va ben oltre Ovidio, nel senso che l‟autore traducendo e riproponendo ai suoi lettori quel medesimo passo del poeta latino («Ante mare et terra set, qod tegit omnia, caelum, / unus erat toto naturae vultus in
orbe, / quem dixere Chaos, rudis indigestaque moles», Met., I, 5-7) in realtà si
ricollegava al Pontano, che nella conclusione del V libro dell‟Urania aveva citato proprio il Caos ovidiano per alludere alla guerra che continuamente metteva alla prova il Regno di Napoli e, quindi, alla sua attività di politica, svolta al seguito degli Aragona, che lo vide impegnato a combattere proprio quel Caos11:
…Hic ocia pacemque
Italiae peperit fessae, violentaque bella
Sustulit immersitque chao, atque in valle maligna Absidi, et duplici relegavi vincta catena,
proscripsit Erebe, portisque inclusit ahenis,
11 Tateo, ricercando la presenza ovidiana nell‟Urania di Pontano, nota come i riferimenti alla
Metamorfosi ovidiane siano costanti e spesso ben celati: «L‟accenno a quel Chaos che Pontano si era
guardato bene dall‟introdurre, pur trattando una materia tanto simile all‟esordio delle Metamorfosi, nell‟evocare l‟origine del mondo. Il chaos è ricondotto al significato demoniaco, per il quale nella stessa opera ovidiana è accoppiato con l‟Erebo a proposito dei riti magici, e il poeta immagina di essere elogiato dai posteri riconoscenti per aver egli ricondotto la pace nell‟Italia sconvolta, ricacciando nel Chaos e nell‟Erebo le guerre violente…la contrapposizione della guerra e della pace, e l‟identificazione della guerra col Chaos richiamano, per chi tenga presente l‟analogia fra il microcosmo umano e il macrocosmo celeste su cui si regge un poema astrologico come l‟Urania, l‟instaurazione dell‟ordine astrale da cui partono parallelamente le Metamorfosi e il poema pontaniano dedicato alle stelle». Cfr. F.TATEO, Ovidio nell‟“Urania” di Pontano, in “Aetates ovidiane”. Lettori
di Ovidio dall‟antichità al Rinascimento, Atti del convegno (Salerno e Fisciano, 25-27 gennaio 1993),
129 ociaque hesperias iussit regnare per urbes.
È dunque quel medesimo clima di guerra che è ritornato a Napoli, quel «volto antico» per cui tanto si era speso Pontano con la sua attività politica a cui la sirena Partenope fa riferimento.
Si può così dedurre, considerando solo questi due casi, che anche le Metamorfosi del Cariteo, come ogni testo di fattura umanistica, siano costruite con questo gioco di rimandi, che, nello stile del Cariteo, sono soliti rinviare il lettore direttamente alla fonte originaria; spetterà poi a questi, fornito di una cultura pari a quella dell‟autore, completare il significato del testo o della singola citazione, collegando immediatamente al precedente l‟opera contemporanea ivi celata.
Le Metamorfosi ovidiane vengono riutilizzate dall‟autore soprattutto come un grande repertorio da cui attingere gli episodi mitologici che contornano la storia principale vissuta dal protagonista. Questo avviene ad esempio in Metamorfosi, I, 49, con la ripresa del mito del musico Arione, ricordato per invocare l‟aiuto dello stesso delfino, dietro cui si celava Apollo, per essere tratto in salvo e non assistere al tracollo del Regno in mano ai nemici. In altre parole, l‟autore affida alla poesia con questi versi una connotazione ben specifica, di evasione e straniamento; il comporre testi equivaleva quindi ad un andare oltre, una sorta di esilio spirituale da una realtà che non gli piaceva e da cui si sentiva schiacciato. La stessa evasione, dopotutto, l‟aveva cercata, e forse anche trovata, Sannazaro con l‟Arcadia12.
Anche le Sirene sono simbolo di un‟ennesima metamorfosi, in quanto il mito spiegava la loro stranissima corporatura con il busto umano e la restante parte in uccelli o pesci, a seconda della tradizione seguita, come conseguenza di una trasformazione13. La fonte ovidiana si ritrova anche nella descrizione del corpo delle Sirene, in quanto il candore di quei corpi, che in realtà è un motivo ripreso da Pontano, viene paragonato alla descrizione della Via Lattea, che si legge nel primo libro delle Metamorfosi (I, 168-169).
Così di citazione in citazione si arriva finalmente alla prima metamorfosi dell‟opera, che è quella del protagonista tramutato dopo l‟incontro con le Sirene. In realtà quella del poeta non è una metamorfosi vera e propria, perché questi viene solo trasformato
12 Cfr. CARACCIOLO ARICÒ,L‟Arcadia del Sannazaro…cit. 13 Cfr. BETTINI,SPINA, Il mito delle Sirene…cit., pp. 39-54.
130 in anziano, senza assumere altre fogge. Forse il senso di questa trasformazione, come ho già sostenuto precedentemente, racchiude un significato più profondo, indice di quanto fosse accaduto nell‟animo del poeta con il disfacimento del Regno, seguito da una serie di eventi rovinosi. Ma, nel frangente, è doveroso sottolineare che nel dover raccontare la sua trasformazione, il poeta invochi proprio le muse ovidiane per cercare le parole adatte a descrivere il prodigioso avvenimento, omaggiando in questo modo quella che apparentemente potrebbe sembrare la prima fonte dell‟opera. Ed ancora ad un mito ovidiano, questa volta molto caro al Petrarca14, che l‟autore accenna presagendo la sua prossima sventura:quando realizza di dover scappare, il poeta di ricorda di Atteone15.
La ripresa del mito e la trasformazione sono un vero e proprio calco da Ovidio, rivelato dallo stesso poeta con l‟invocazione alla Muse ovidiane per riuscire a rendere con la scrittura, alla stregua del grande modello, l‟eccezionalità dell‟esperienza vissuta. Nel passo dedicato al racconto della trasformazione, alcuni versi si rivelano essere proprio una traduzione del modello. Ma il lungo episodio ovidiano viene tradotto con l‟asciuttezza che si riscontra nella stanza petrarchesca della canzone XXIII, dove tutta la vicenda è riportata in un‟estensione di soli 14 versi, riportando solo gli aspetti essenziali della vicenda, che vediamo esattamente selezionati anche in Cariteo, come il particolare dell‟acqua gettata in volto al protagonista, recuperato anche dal Cariteo. Tale accostamento di Ovidio e Petrarca si spiega proprio in ragione di quell‟usus che l‟autore fa delle fonti, di volta in volta impiegate per collegare fra loro autori e situazioni diverse.
Nell‟universo dei miti ovidiani si muove la poesia cariteana, sempre attenta ad alternare sapientemente narrazione storica e ripresa mitologica; i miti evocati sono moltissimi e nel riprenderli il poeta non si allontana mai dalla narrazione ovidiana. È come se venisse in tal modo riconosciuta una suprema autorevolezza all‟autore del più grande poema mitologico di tutti i tempi, un‟autorità che Cariteo non può ignorare in un‟opera che muove direttamente dalle Metamorfosi ovidiane,
14 Sulla ricezione della favola di Atteone cfr. LVANOSSI, Petrarca e il mito di Atteone, cit., pp. 3-20. 15 Cfr. la grande canzone delle metamorfosi (R.V.F., XXIII), dove Petrarca, riprendendo Ovidio,
immagina di assumere, per via di Laura, sembianze diverse di volta in volta sino a rivivere la stessa trasformazione in cervo di Atteone. Questa canzone fu presa a modello da Cariteo (cfr. Endimione, canz. II) e da Sannazaro (Son. e canz., LXXV) che si cimentarono nei rispettivi canzonieri con il modello petrarchesco e insieme ovidiano.
131 quantomeno per struttura e presenza mitologica16. Medusa, le Furie, Fetonte, Proteo, Ercule, Memnone, Giasone, Tereo, Giove, Teseo, e tanti altri personaggi desunti dal testo ovidiano, con le loro vicende, perlopiù di metamorfosi, contornano la narrazione per tutta l‟estensione dei quattro canti.
Un altro significativo ritorno all‟Ovidio delle Metamorfosi si ha nel IV canto, nel quale le metamorfosi si susseguono ininterrottamente sino all‟ultima, intorno alla quale ruota tutto il componimento, della sirena Inarime convertita nell‟isola d‟Ischia. In questo caso la narrazione della trasformazione torna ad essere tutta ovidiana, intesa come esito di un eccessivo dolore provato dalla sirena per l‟allontanamento dalla cara Febe. La descrizione della lenta trasformazione si ispira direttamente al modo di narrare di Ovidio; senza ricorrere a delle riprese testuali vere e proprie, il poeta riprende direttamente il suo modello dando luogo ad una spiegazione naturalistica della mutazione17 di Inarime: disseccata dai troppi sospiri e dal fuoco d‟amore, che le arde il cuore, la giovane sirena si tramuta dopo sette giorni e sette notti, ulteriore omaggio al mito di Orfeo, in un‟isola arida e il suo cuore, che tanto aveva bruciato d‟amore, si trasforma nel vulcano dell‟isola, associando in questo modo la natura vulcanica propria dell‟isola alla spiegazione naturalistica della metamorfosi.
La presenza ovidiana nel testo non si limita alle sole Metamorfosi; Ovidio elegiaco, nei cui versi tante volte si era riconosciuto il poeta redigendo l‟Endimione, basti per tutte il ricordo del canto del cigno morente nel quale Cariteo aveva inscritto la composizione del primo Endimion18, torna anche in quest‟opera. L‟Ovidio degli
Amores, ma soprattutto il poeta delle Epistolae heroides, viene recuperato
nell‟ultimo canto, che è insieme un ritorno alla poesia del lamento e un superamento della stessa, con il congedo finale alla poesia d‟amore, celato nell‟addio al mondo ed in particolare alle «pontaniane schiere» di Inarime.
Le eroine del mito e le loro tristi vicende sono evocate come testimonianza di un dolore universale, tangibile nella sfera degli affetti personali, anche questi suscettibili al capriccio della fortuna e alla costante permutazione della vita umana. Nel costruire le vicende di abbandono narrate nel testo, aventi per protagoniste la regina Isabella
16 Cfr. FORNARO, Metamorfosi con Ovidio…cit.
17 Cfr. TATEO, Le Metamorfosi del Chariteo…cit., pp. 136-137. 18 Cfr. ad esempio Cariteo, Endimione, son. VII.
132 (II canto), Inarime (IV canto) ed anche lo stesso poeta, che in quegli anni soffriva ancora la lontananza dell‟amata Luna, Cariteo non poteva non rammentare le eroine dell‟Epistolae, molte delle quali abbandonate sulla riva dai loro rispettivi compagni. Il codice dell‟elegia, che Cariteo aveva precedentemente utilizzato così bene, viene pertanto recuperato per svolgere il lamento della sirena Inarime abbandonata da Febe sull‟isola d‟Ischia. Insieme ad Ovidio, partecipano di questa ripresa gli autori maggiori del genere, come Properzio e Tibullo, ma è soprattutto la poesia neoterica di Catullo, i cui Carmina erano stati riutilizzati abbondantemente nelle rime dell‟Endimione19, ad alternarsi al dettato ovidiano. Nel testo delle Metamorfosi
incide soprattutto il celebre carmen LXIV, con la vicenda di Arianna abbandonata da Teseo sull‟isola di Nasso. La disperazione della povera fanciulla, che scrutava l‟orizzonte maledicendo la nave di Teseo, non poteva non tornare alla memoria del poeta che si trovava a dover immaginare e raccontare una situazione simile, avente per protagoniste Inarime e Febe, anche queste separate dal mare. Catullo nel periodo rinascimentale ebbe una certa fortuna e fu riutilizzato soprattutto da Pontano che ne fece uno dei modelli privilegiati del Parthenopeus20, stampato per la prima volta da Summonte nel 1505.
Ma il ricorso ai modelli classici, com‟è già stato evidenziato, in Cariteo non si riduce quasi mai a calco o semplice traduzione. La tecnica cariteana di mescolanza tra fonti classiche e nuova produzione dell‟autore potrebbe essere ben descritta attraverso la locuzione di «procedimento mimetico», per adoperare le parole di Mario de Nichilo, che nel suo studio sul linguaggio poetico quattrocentesco, e particolarmente di quello latino, riconosce negli umanisti la capacità di creare dei testi nuovi partendo dalla materia classica attraverso la contaminazione dei modelli, «lo spunto offerto da un autore si contamina e si sostituisce accostato a tessere “parellele‟ di altri autori subendo a volte una variazione significativa», tanto da poter parlare di metamorfosi dell‟opera letteraria in una nuovo prodotto letterario21.
La variatio avviene attraverso la commistione di fonti diverse, che tentano di sviare il lettore dal modello principale, ravvisabile nelle corrispondenze che percorrono il
19 Sull‟ingombrante presenza classica nelle rime dell‟Endimione cfr. l‟interessante saggio di
CONSOLO, Il libro di Endimione…cit.
20 Sulle fonti dell‟opera pontaniana e sulla presenza catulliana cfr. A. IACONO, Le fonti del
Parthenopeus sive…cit., p. 10.
133 testo. Pertanto può capitare che accanto a Catullo agisca nella costruzione dei versi anche Virgilio22, ed in particolare l‟Eneide, opera costantemente utilizzata nella costruzione dei versi delle Metamorfosi. Il modello della regina Didone viene impiegato per rendere l‟atteggiamento al contempo addolorato e dignitoso di Isabella, lasciata ad Ischia da Federico (cfr. Metamorfosi, II, 61-69). Allo stesso tempo tutto l‟episodio del IV libro dell‟Eneide è nuovamente recuperato per raccontare la vicenda di Inarime ed in particolare il furor che la stravolge nei momenti successivi all‟abbandono (cfr. Met, IV, 109-126 e Aen., IV, 590-629). Ma si deve riconoscere che la presenza di Didone non è cosa nuova nel poeta. Proprio a lei si era rivolto il poeta quando nelle liriche dell‟Endimione aveva dovuto raccontare della partenza di Luna, come si può osservare nel sonetto CXXXV (v. 8) o LXXX (v. 5). Lo stesso avviene con la ripresa di Virgilio in Metamorfosi, IV, 125-126, dove Inarime in preda al dolore si rende conto di vaneggiare «Che parlo?... O dove sono?... O qual follia / rivolge de furor la mente offesa», che ricalcano fedelmente i virgiliani «Quid loquor, aut ubi sum? Que mentem insania mutat…» (Aen., IV, 595) precedentemente riformulati nel sonetto CXXI di Endimione (5-6) «Che parlo? O dove sono? O qual follia / volve la mente accesa di furore?»23. Ma le riprese virgiliane non si limitano solo al IV libro. Sin dall‟inizio del IV canto l‟atmosfera è virgiliana con la rielaborazione dell‟episodio dell‟VIII libro dell‟Eneide, dove si racconta del sogno di Enea, addormentato sulle rive del fiume Tevere, e dell‟incontro con il dio Tiberino. Lo stesso passo virgiliano si ritrova anche nelle Rime di Sannazaro, nella canzone CI, dove il poeta sogna il dio del fiume Arno. In questo canto è invece Sebeto, che risente della trasformazione pontaniana (Parthenopeus, II, 14) in fiume, a visitare il poeta e a raccontare, come exemplum del dolore universale