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Il dà sempre e il proprio ora

CAPITOLO II Linguaggio, lavoro e vita

3. Il dà sempre e il proprio ora

Se quanto detto fino ad ora è corretto, vale a dire, se un progetto di storia naturale deve ricercare la veste fenomenica che questo eterno biologico assume, non ci si può accontentare di affermare che una natura umana esiste da sempre. Bisogna andare a vedere il modo in cui questo innato eventuale si rivela.

Questa parentesi sul confronto Virno e Foucault oltre ad avere una funzione introduttiva, allora, è servita ad esplicare meglio le ragioni per le quali è importante soffermarsi sulla questione della natura umana alla luce di un suo rinnovato impiego nell’attuale sistema produttivo. Pur con le dovute e, anche importanti differenze, in prospettiva del nostro problema – fornire una quadro economico politico all’attualità in cui prende forma la consulenza filosofica – Foucault e Virno sono due luoghi, essenziali e imprescindibili, per vedere la metamorfosi critico-linguistica della forma di dominio economico-politica. Letti in maniera quasi sinottica ci mostrano, come nessun altro, il cambiamento del paradigma economico contemporaneo che fa da sfondo all’emergenza del problema della consulenza filosofica. Ancora meglio riusciremo a vedere in maniera lampante l’implicazione strettissima tra la filosofia come consulenza filosofica e un modello economico che si basa sulla produzione e sul consumo del pensiero critico e del linguaggio, in una parola della natura umana.

Virno risulta, in questo senso, indispensabile poiché ci fornisce il presupposto ontologico per imbastire una critica della consulenza filosofica.

Come abbiamo anticipato, e come vedremo diffusamente, per la prima volta, in un modo inedito e inaspettato, le prerogative biologiche dell’animale umano (leggi natura umana) acquisiscono un clamoroso rilievo storico nel processo produttivo contemporaneo, che si definisce capitalismo post-fordista, capitalismo cognitivo, capitalismo dell’immateriale. Senza grande precauzione useremo le locuzioni in maniera interscambiabile intendendo in maniera generale la svolta linguistica del capitalismo in cui la natura umana viene messa al lavoro sotto forma di linguaggio. La razionalità neoliberale studiata da Foucault assume, in questo modo, dei contorni più precisi.

In maniera ancora più concisa: il capitalismo post-fordista fa venire alla luce il fondo biologico cognitivo della specie, trasformandolo nella molla principale della produzione della ricchezza. Si può sintetizzare in questa maniera, nel modo più stringato possibile, l’ipotesi di Virno.

Prima di approfondirla, tuttavia, è necessario delineare brevemente alcuni caratteri di quello che generalmente viene definito post-fordismo, termine che, lo specifichiamo subito, Virno privilegia rispetto al foucaultiano neoliberalismo. Il capitalismo post-

fordista rappresenta, come per Foucault il neoliberalismo, il nome del nostro presente, il luogo e il tempo in cui l’esistente abita la propria attualità.

La locuzione “post-fordismo” indica, molto generalmente, il processo di trasformazione del sistema produttivo che inizia a partire dalla seconda metà del ‘900 in seguito a una serie di congiunture economiche-politiche negative che mettono in crisi il sistema taylor-fordista18. Si tratta di un modello “flessibile” che risponde alla necessità di rendere meno gerarchica e meno rigida l’organizzazione del lavoro all’interno dell’azienda, nel tentativo di costruire una forma di produzione reticolare e orizzontale e in grado di sopportare reinvenzioni organizzative radicali in sintonia con le oscillazioni dei mercati. È questo il senso del termine reengineering, traducibile con “reingegnerizzazione” o “ristrutturazione”.

Una grande operazione di riorganizzazione strutturale, che mira alla regolazione occupazionale e contrattuale attraverso un inedito e rivoluzionario impiego delle tecnologie digitali e la compressione del costo del lavoro, per adeguarlo alle fluttuazioni della produzione e dei consumi e alle richieste della competizione internazionale19. Tecnicamente questo tipo di modello conosce una precisa collocazione geografica e temporale: viene elaborato e messo a punto dall’industria automobilistica giapponese Toyota negli anni ‘60 ad opera di Taiichi Ohno. A lui si deve l’invenzione del Toyota

Production System e della filosofia produttiva denominata lean production (produzione

snella) basata sulla fabbrica integrata e sulla “Qualità totale”.

Più che un modello alternativo di produzione, il toyotismo è veramente una rivoluzionaria filosofia aziendale che mira a dare vita a un programma di spiritualizzazione della produzione, basata sulla trasparenza, sulla comunicazione, sull’interazione dei livelli produttivi in una più possibile armoniosa integrazione degli stessi. L’obiettivo è creare una produzione qualitativamente eccellente volta alla limitazione degli sprechi e dei tempi morti verso l’obiettivo ideale del raggiungimento dei sei zeri: zero stock (ossia nessuna scorta in magazzino), zero difetti, zero conflitto, zero tempi morti di produzione, zero tempo di attesa per il cliente, zero burocrazia (nessuna comunicazione superflua). Capisaldi di questa nuova filosofia organizzativa sono due principi: il just in time (JIT) e l’autonomazione.

Il just in time riposa sull’idea che «nel corso dell’assemblaggio dell’automobile ciascun componente arriva alla linea di montaggio nel preciso momento in cui ce n’è bisogno e

solo nella quantità necessaria. Attuando questa strategia produttiva, un’azienda può arrivare a rendere superflua l’esistenza dei magazzini, eliminando lo stoccaggio»20. Si tratta, cioè, di un metodo dettato dalla tempestività e dalla richiesta del mercato nel tentativo di creare una perfetta simmetria tra la domanda del mercato e l’offerta dei beni. È in effetti un altro modo di pensare il rapporto fra produzione e mercato: non è più la fabbrica a fare il mercato; al contrario: è il mercato, con le sue volubilità e oscillazioni, a determinare le scelte produttive. Questa svolta crea un meccanismo completamente inverso rispetto a quello della produzione di massa e all’economia di scala: il sistema just in time produce in piccole serie e differenziate grazie e attraverso una revisione costante della domanda che riaggiorna continuamente la produzione. Il sistema just in time inaugura, in fondo, un sistema ispirato a un criterio di frugalità e volto all’intensificazione del lavoro attraverso l’eliminazione dei tempi morti e attraverso la ricerca della qualità lungo tutto l’arco del processo lavorativo, in nome di un miglioramento continuo.

L’altro pilastro della produzione toyotista è la cosiddetta autonomazione: si tratta

«di un particolare uso delle macchine e del rapporto “uomo-macchina” diretto a premettere all’apparato produttivo di retroagire con l’ambiente, intervenendo immediatamente nel caso si producano difetti del prodotto, e autocorreggendo l’errore in tempo reale, nell’esatto momento e nell’esatto segmento del ciclo lavorativo in cui il difetto si è generato»21.

La parola, che intreccia il termine automazione con autonomia, inaugura un altro importante pensiero che diverrà cruciale all’interno dell’impresa postfordista: il coinvolgimento e la responsabilità del lavoratore all’interno della produzione. Attraverso il sistema di autonomazione i lavoratori hanno il diritto dovere di intervenire direttamente nel processo di produzione interrompendo il flusso produttivo laddove la situazione lo richiede. Si tratta di una possibilità inedita e originale: per la prima volta il lavoratore entra nell’organizzazione produttiva ottenendo il potere di incidere in qualche misura su di essa. Organizzato in maniera più umana, l’obiettivo è di rendere il lavoro comunicativo nelle sue fasi e di conseguenza più efficiente e più rapido.

Il lavoro è organizzato in piccole squadre flessibili le cui mansioni sono continuamente ridefinite e ricomposte: all’insegna della trasparenza è possibile assistere a tutte le fasi della lavorazione, scambiarsi ruoli e postazioni, comunicare, lavorare in gruppo. Una

sorta di «Panopticon di fabbrica»22 in cui la sorveglianza, il controllo, la responsabilità di ogni momento della fase produttiva è demandato a ciascun lavoratore.

Grazie allo spirito kaizen (il miglioramento continuo), che anima la filosofia produttiva toyotista, ciascun lavoratore è chiamato a collaborare all’innovazione del prodotto e alla razionalizzazione dei processi mediante suggerimenti, sperimentazioni, e discussioni di gruppo (i cosiddetti circoli di qualità) secondo la logica del problem-solving. L’obiettivo è una sorta di sincronismo totale in cui lo spazio produttivo è pensato come «un tutto integrato e connesso in un unico ciclo perfettamente continuo che lo (faccia) respirare per così dire, a un unico ritmo, secondo il medesimo flusso del prodotto che l’attraversa da un capo all’altro»23.

Tuttavia è attraverso un altro espediente tecnico, il kanban, che questa idea si manifesta in maniera ancora più evidente. Si tratta di uno strumento per realizzare il just in time; consiste sostanzialmente in una forma di comunicazione tra le varie postazioni del lavoro che si interpellano vicendevolmente e forniscono informazioni, consigli, dettagli, ragguagli. Esso ribalta completamente il sistema assiale del modello fordista: «In quest’ultimo, infatti, il flusso della comunicazione procedeva linearmente dal centro dell’apparato produttivo verso la periferia, prendendo origine dal vertice dell’impresa, cui spettava la decisione prima circa i volumi produttivi e i tempi della produzione di ogni reparto»24. Nel toyotismo, invece, la comunicazione procede al contrario da valle a monte, dai segmenti periferici, finali che fanno richieste, pongono domande o forniscono informazione a quelli centrali. Si tratta di una nuova circolazione dell’informazione, del linguaggio, della comunicazione quella a cui si assiste destinato alla ridefinizione della fabbrica come ad un ambiente sociale: la fabbrica integrata. Nasce l’idea di dare vita a una sorta di integrazione totale tra lavoratori e fabbrica:

«Una comunità di fabbrica unificata e omologata, in cui il lavoratore deve consapevolmente e volontariamente “sciogliere” la propria intelligenza nel processo lavorativo, coniugando funzioni esecutive con prestazioni di controllo e di progettazione, segnalando i difetti in tempo reale e partecipando direttamente alla ridefinizione della struttura stessa del processo lavorativo in rapporto alla variazione della domanda»25.

L’obiettivo è che tra la forza-lavoro e la direzione di impresa si sviluppi una sorta di continuità esistenziale e culturale; un senso comune di appartenenza in grado di costruire un’identità collettiva nuova «fondata sul territorio di fabbrica, coincidente, nei

suoi confini, con l’universo dell’impresa»26. Acquisire fedeltà e disponibilità in una sorta di mobilitazione totale27 della forza lavoro per attivarne le capacità intellettive e creative: «Si tratta di sussumere al capitale la dimensione esistenziale stessa della forza lavoro. Di identificare la soggettività del lavoro con la soggettività del capitale. Anzi: di fare dell’appartenenza all’impresa l’unica soggettività possibile»28. Siamo di fronte a un passaggio decisivo: per la prima volta tutto l’aspetto della soggettività operaia, tutto ciò che fa capo all’informalità, alle capacità di applicazioni delle energie intellettuali, la creatività, le opinioni divengono una risorsa. Si mette fine al principio di separazione rigorosa tra la fase dell’ideazione e quella dell’esecuzione attraverso questa eversione della scala gerarchica verso un’orizzontalizzazione del processo. In questo modo, si rende attiva e partecipativa la forza-lavoro stimolandone l’autoattivazione attraverso l’ingiunzione al coinvolgimento nella realizzazione delle politiche aziendali, la sua identificazione con l’organizzazione, il suo impegno “proattivo”, la sua collaborazione desiderante al fine di «politicizzare aziendalmente il lavoro direttamente produttivo»29. L’estensione a livello generale del modello organizzativo incentrato sul just in time mira a un’intensificazione e densificazione del lavoro in una situazione di urgenza ed emergenza permanenti; una situazione che prescrive a tutti i lavoratori l’impegno di ogni facoltà psichica e intellettuale per mantenere la continuità del flusso materiale della produzione, o che impone, nel lavoro immateriale, l’interiorizzazione di una catena produttiva invisibile che incita alla mobilitazione permanente delle energie.

Consenso, collaborazione attiva, cooperazione diventano il nome di una neutralizzazione totale dell’antagonismo tra capitale e lavoro, nella misura in cui nella fabbrica-ambiente giapponese non esiste spazio per un conflitto possibile. Grazie al patto di collaborazione fra capitale e lavoro, allora, è eliminata qualsiasi ragionevolezza della disobbedienza30.

Tramite l’ingiunzione alla qualità, al miglioramento continuo, alla comunicazione, alla cooperazione, si effettua una sorta di smaterializzazione della produzione centrata adesso sulla dimensione relazionale, linguistica, comunicativa, affettiva.

È a questa serie di cambiamenti nei processi produttivi che pensa Virno nel momento in cui lavora alla definizione della sua tesi sullo statuto antropologico dell’economia politica contemporanea: nel capitalismo post-fordista è in gioco la gestione della natura umana. Si tratta, per Virno, di mettere in evidenza il processo di naturalizzazione

dell’attuale sistema di produzione in cui la natura umana diviene un capitale da valorizzare. L’idea riguarderebbe la messa a lavoro della natura umana come tale da parte del capitalismo postfordista, che fa delle caratteristiche filogenetiche della specie umana delle vere e proprie risorse economiche. Ancora più profondamente: il neoliberalismo – termine che tuttavia, lo dicevamo, Virno non usa, privilegiando l’espressione propriamente più tecnica di postfordismo – renderebbe manifesta la natura umana, la quale trova, in questo modo, la sua piena realizzazione: «Nel postfordismo si ha una piena rivelazione della natura umana»31. Dal punto di vista di Virno, lo ripetiamo, la natura umana è un invariante biologico; ossia quell’elemento specie specifico che caratterizza l’uomo in quanto Homo sapiens e che non è sottoposto a variazione temporale. Non a caso viene indicato da Virno anche come “l’eterno” e come il “da sempre”. Insomma, gli elementi immodificabili della specie, ciò che non può cambiare perché è il presupposto di ogni esperienza, è la condizione di possibilità dell’esperienza stessa e quindi ciò di cui fondamentalmente non è possibile fare esperienza: «Cessa di diventare un lontano presupposto e diventa un’evidenza empirica»32. Diventare fenomeno significa, secondo Virno, che la costituzione biologica veste dei panni empirici esibendosi sul piano storico-sociale e provocando, in questa maniera, un cortocircuito importante tra il biologico e il sociologico. I due termini si trovano, dunque, appiattiti l’uno sull’altro nella misura in cui il biologico irrompe nel sociale, facendo sì che i caratteri congeniti della nostra specie assumano una rilevanza inedita a livello economico, politico, sociale. Venendo a saltare il confine tra biologia e storia si può dire che nel postfordismo si verifica la novità che

«La natura umana diventa l’oggetto, o la materia prima, di un assetto sociale storicamente determinato. […] Con un procedimento circolare, o riflessivo, le azioni storico-sociali si appuntano proprio su quell’insieme di presupposti biologici (potenzialità, neotenia ecc) che consentono l’esistenza di qualcosa come una azione storico-sociale»33.

Ciò vuol dire che in maniera circolare, appunto, la prassi umana si applica direttamente all’insieme di requisiti che rendono umana la prassi.

È necessaria, tuttavia, una precisazione, dal momento che non è assolutamente corretto pensare, almeno per Virno, a una sorta di determinazione diretta e lineare della situazione storico-sociale da parte dell’elemento biologico. È vero, piuttosto, il contrario: sono una serie di condizioni storico-sociali, riconosciute nel capitalismo post-

fordista, che incitano e esigono la messa in evidenza dei presupposti biologici della specie umana. La metastoria affiora al centro dei processi lavorativi:

«Proprio e soltanto perché il rapporto di produzione (e di potere) capitalistico mobilita a proprio vantaggio (in una forma storicamente peculiare) le stesse prerogative biologiche che caratterizzano la specie Homo sapiens. La prominenza della biologia dipende dunque dalle relazioni sociali oggi prevalenti. È il variabile (la storia) a porre in primo piano l’invariante (la metastoria)»34.

Questa precisazione, serve a Virno, per eliminare qualsiasi ipotesi deterministica; come se il processo di manifestazione empirica della natura umana fosse una necessità inesorabile. Al contrario, seppure Virno si impegna a difendere una posizione decisamente ontologica, ferma la convinzione nell’esistenza della natura umana, l’operazione che sta descrivendo è legata alla contingenza storica. Vi sono dei caratteri specie-specifici che esistono da sempre, senza ombra di dubbio, ciò nondimeno è l’attuale sistema produttivo che ne fa emergere alcuni aspetti. Proprio perché il capitalismo attuale si presenta, “realmente”, come il primo modo di produzione che fa ricorso a ciò che rende la nostra specie ciò che è, svela il segreto della natura umana; è in grado, cioè, di portare sul piano dell’osservabile l’insieme dei presupposti dell’invariante umana. Si deve dire, infatti, che «l’innegabile prominenza del piano metastorico dipende per intero da uno stato di cose contingente»35.

Per una serie di variabili, dunque, per una serie di circostanze (politiche, sociali, economiche) che Virno non discute e di cui non si interessa, dato che non rappresentano immediatamente il suo problema, l’invariante biologico emerge nella produzione capitalistica attuale ridisegnando in maniera originale i caratteri della produzione economica.