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CAPITOLO II Linguaggio, lavoro e vita

4. Lavorare comunicando

Definito in questo modo, potremmo dire, che al capitalismo post-fordista è assegnato un destino decisamente oneroso: può essere considerato il nodo di congiunzione e il punto di contatto tra l’elemento naturale e le circostanze storiche. Semplificando al massimo, si potrebbe dire, che con il post-fordismo la natura si fa storia. Un’affermazione del genere potrebbe comunque non spiegare la portata effettivamente rivoluzionaria del

fenomeno in corso; non si tratta, infatti, soltanto di far diventare storici degli elementi naturali. Si tratta, invece, di vedere che, per la prima volta nella storia la natura umana diventa direttamente e senza mediazioni il soggetto e l’oggetto della produzione. Diviene il mezzo mediante il quale si produce ricchezza: la natura umana diventa un fattore; anzi il principale fattore di produzione della ricchezza.

Per inoltrarci nell’analisi della tesi di Virno sulla trasformazione dello statuto ontologico del paradigma produttivo contemporaneo è necessario spiegare in maniera accurata il senso con il quale intende l’espressione, forse ancora fumosa, di natura umana, o, che è in questo caso lo stesso, di invariante biologico.

Quando Virno parla di invariante biologico, intende tre caratteristiche filogenetiche delle specie umana: non specializzazione, neotenia e disambientamento. Questi elementi invarianti si concretizzano in tre forme sociali storicamente determinate plasticamente messe in forma nel capitalismo contemporaneo: linguaggio, formazione permanente, flessibilità. Vedremo come queste tre caratteristiche sono il nome storico dell’invariante biologico; vale a dire il modo in cui l’invariante biologico si manifesta nella storia. Per analizzare questi tre indici antropologici Virno contestualizza i suoi studi all’interno di quella che definisce una certa “tradizione della modestia” e che si rifà alle analisi di una serie di biologi, paleontologi, antropologi e filosofi concordi nel ritenere che «l’animale umano si distingua dalle altre specie non per un surplus di qualità (non originariamente, almeno), ma per un insieme di carenze e lacune, insomma per un meno»36. Questa tradizione considera l’animale umano come più povero degli altri animali a causa di una serie di deficit di istinti specializzati:

«Un istinto specializzato consente di sapere a priori, con assoluta sicurezza, che cosa fare in questa o quella occasione determinata. [...] L’uomo ha istinti deboli, generici: non sa con precisione che cosa fare, come comportarsi. La carenza istintuale è attestata dal possesso di una generica facoltà di linguaggio, tutt’affatto diversa da un codice di messaggi idonei a fronteggiare l’una o l’altra evenienza ambientale»37.

La carenza istintuale è espressa dall’impossibilità di poter attribuire un ambiente univoco all’uomo; dato una volta per tutte, ben apparecchiato, nel quale possa inserirsi e vivere a proprio agio: «L’essere non-specializzato non ha una nicchia ecologica in cui i suoi istinti lo “incastrino” saldamente»38. Dell’animale umano si dice, piuttosto, che ha un mondo; uno spazio, cioè, sempre indefinito e soggetto a cambiamento. Dunque, se diversamente dall’animale, in cui un certo numero di istinti corrisponde a un certo

numero di capacità, che sono finite ed estrinsecabili in maniera univoca, «nell’animale umano, sempre disorientato, vi sono facoltà, cioè potenzialità, che non si esauriscono in un certo numero di realizzazioni definite, ma perdurano come tali, passibili di sempre nuove estrinsecazioni»39.

Esempio lampante della non specializzazione è sicuramente il linguaggio. Forma di vita propriamente umana, modo di essere dell’essere umano, esso racchiude tutte le caratteristiche di un istinto non specializzato: non è uno strumento che posso separare da me, non serve a comunicare, è pura potenzialità.

Caratteristica peculiare del linguaggio, infatti, consiste nell’essere una facoltà, e, in particolare, una facoltà non specializzata, priva di determinazioni. La facoltà, in greco

dynamis, significa pura e semplice potenzialità, nel senso di “ciò che non è in atto”, ciò

che è inattuale e in quindi non ancora presente: «Coincide con il puro e semplice poter- dire, con la pura e semplice capacità di emettere suoni significanti»40. Configurandosi come la condizione di possibilità della potenza del linguaggio, la facoltà deve essere considerata una dotazione biologica innata: «La capacità di parlare, pur essendo congenita, è soltanto potenza. La potenza in senso proprio coincide con uno stato di incertezza e indeterminazione. L’animale che ha linguaggio è un animale potenziale. Ma l’animale potenziale è un animale non specializzato»41. Ciò vuol dire che, secondo Virno, l’essere vivente nasce muto, afasico, perché pur avendo la facoltà di linguaggio, essa resta tuttavia inespressa fino al momento in cui non si attualizza.

La facoltà di linguaggio, in quanto linguaggio in potenza, «comprova la povertà istintuale dell’essere umano, il suo carattere indefinito, il costante disorientamento che lo contraddistingue»42. Come abbiamo già detto, Virno pensa che la potenza sia esattamente il corrispettivo della mancanza della specializzazione degli istinti, nella misura in cui, essendo sempre un poter essere, porta con sé il segno di un’incolmabile carenza. Ciò significa anche che la potenza non è qualcosa che si può dissipare «a mano a mano che si susseguono gli atti corrispondenti»43. Nella sua inesauribilità la potenza è capace di creare sempre nuove e diverse potenzialità, una sorta di marca di creatività infinita.

Tutto ciò avrebbe, secondo Virno, un’espressione evidente nella facoltà del linguaggio, appunto. Naturalmente la facoltà del linguaggio deve essere distinta dalle lingue

storicamente determinate: ciò di cui si sta discutendo qui è la possibilità di dare visibilità alla facoltà in quanto tale, distinta dalle singole estrinsecazioni linguistiche44. Questa concezione, che Virno eredita da Saussure, comporta un’interpretazione non strumentale, ma transindividuale, biologica e storica della lingua. Non strumentale significa che la lingua non è un arnese che si possiede; non è un mezzo che si ha; al contrario si abita una lingua. Non è un attributo di tutti i singoli parlanti che socializzandosi danno luogo a una comunità linguistica. La lingua esiste prima e indipendentemente da qualsiasi mente individuale: è ultra-individuale; accade tra i parlanti; esiste solo in quanto condivisa fin dal principio da una moltitudine che esercita il linguaggio. Virno la considera, infine, allo stesso tempo, naturale e storica, poiché, benché sia possibile individuare una localizzazione specifica nella struttura biologica, una base fisico-corporea del linguaggio, possiede un campo di applicazione mutevole e illimitato, una varietà infinitamente creativa di espressioni.

La lingua, quindi, con i suoi tratti immutabili, riguarda la mera facoltà di avere il linguaggio; cosa diversa sono le particolari e specifiche concrezioni linguistiche. In questo senso bisogna distinguere «ciò che si dice, il contenuto semantico espresso dall’enunciato grazie a certi suoi peculiari caratteri fonetici, lessicali, sintattici; il fatto che si parla, l’aver preso la parola rompendo il silenzio, l’atto di enunciare in quanto tale, l’esposizione del locutore agli occhi degli altri»45. Anziché il contenuto, rilevanza particolare assume in questo contesto il-fatto-che-si-parla, ossia la capacità della comunicazione in quanto tale resa concreta dall’azione del parlare. Questo è ciò che emerge nella cosiddetta funzione fàtica della lingua, caratterizzata da tutte quelle espressioni o formule in cui «quel che conta è soltanto prendere contatto con l’interlocutore, farsi presente in quanto parlante»46. Appartengono alla comunicazione fàtica tutte quelle frasi stereotipate, o comunque standardizzate, la cui enunciazione e pronunciazione stessa esprime un’intenzione o, ancora meglio, crea un’azione. La comunicazione fàtica nomina un linguaggio che fa, proprio per il solo fatto di essere pronunciato; un linguaggio che crea. La reale importanza della relazione comunicativa risiede nel momento di rottura del silenzio tramite la presa della parola, a prescindere da una reale rilevanza tecnica del contenuto semantico: la persona che risponde al telefono dicendo “si, pronto” non dice qualcosa di semanticamente pregnante – semplicemente manifesta la sua capacità di comunicare e la sua disponibilità a farlo. Questi tipi di

enunciati si chiamano performativi e rappresentano delle schegge di prassi; azioni che si possono effettuare solamente parlando, che nel momento in cui vengono dette assumono una rilevanza sociale: «Quando dico “Battezzo Luca questo bambino”, o “Giuro che verrò a Roma”, o “Scommetto un euro che l'Inter vincerà lo scudetto”, o “Ti perdono”, non descrivo un'azione (un battesimo, un giuramento ecc.), ma la eseguo. Non parlo di ciò che faccio, ma faccio qualcosa parlando»47. Ciò non vuol dire che si tratta di formulare intenzioni, propositi, bensì ancora più profondamente di realizzare questi obiettivi annunciandoli, nel momento in cui li si enuncia.

«I performativi sono autoreferenziali. Si tratta però di un autoriferimento anomalo, niente affatto ozioso: l'enunciato si riferisce a se stesso, ma, si badi, a se stesso in quanto azione in via di compimento (non a se stesso come semplice significato verbale). Le parole "Battezzo questo bimbo Luca" designano lo stato di cose che proprio esse stanno introducendo nel mondo. Si ha, qui, un circolo virtuoso tra dire e fare»48.

Si può anticipare già adesso, ma lo vedremo meglio più avanti, che il carattere performativo del linguaggio ne rivela, in qualche modo, la natura intrinsecamente politica, nella misura in cui compete al campo dell’agire, del fare. L‘elemento performativo del linguaggio lo equipara, di fatto, a una vera e propria azione, allo stesso modo in cui affermare di fare qualcosa e farla effettivamente coincidono. Ancora meglio: l’azione già si compie, già è compiuta, nel momento in cui la si esprime verbalmente. L’aspetto performativo del linguaggio risulta, quindi, straordinariamente importante poichè manifesta in pieno l’ethos del linguaggio: è ciò attraverso cui l’uomo agisce. L’animale umano agisce parlando; vale a dire parlagisce. Non si tratta di due funzioni distinte, di due abilità separate: parlare e agire sono il medesimo; parlare è agire. Proprio per il loro carattere fattivo i performativi sono equiparabili a un’azione politica, con la quale, come vedremo meglio più avanti, condivide la necessità dell‘esposizione pubblica, di una comunità di parlanti. In questo modo si manifesta l’aspetto trans-individuale e sovra-personale della cumunicaazione:

«Non possono essere pensati in silenzio, o borbottati stenograficamente: per risultare efficaci, frasi come

“Scommetto che…”, “Ti saluto”, “Battezzo…”, esigono una vocalizzazione piena e adeguata, così da situarsi in quella terra di tutti e di nessuno che è la sfera pubblica. […] Esecuzione e risultato tendono a coincidere: per questo parlo di performatività»49.

Il performativo, allora, appare come l’enunciazione che fa essere le cose; esprime il rituale della parola; il gesto del parlare. Quando si esercita la semplice facoltà del saper

parlare, ci si manifesta, si appare: chi parla si fa fenomeno. Non a caso, la variante più radicale della comunicazione fàtica è Io parlo. Quest’ultimo impersona il performativo assoluto; vale a dire, un’azione linguistica nella quale non si manifesta null’altro che l'evento del linguaggio o il linguaggio come evento. In questo caso (del performativo assoluto), emerge tutto il carattere rituale del nostro linguaggio e di conseguenza i caratteri differenziali dell’homo sapiens. In esso appare in primo piano l’elemento fisiologico connesso all’atto del parlare, in cui la voce stessa diventa un concetto che non comunica nient‘altro che se stesso. Come recita il titolo di un importante libro di Virno, il verbo si fa carne: la capacità di parola si storicizza concretizzandosi, determinandosi, materializzandosi in una forma specifica. Insomma «quando viene in risalto la presa di parola, a discapito del contenuto semantico, si ha una esibizione concreta della biologica facoltà di linguaggio [...]. In questi casi, si comunica proprio e soltanto che… si sta comunicando (ovvero che si può comunicare, che se ne ha facoltà)»50.

Lo scarto fondamentale che Virno sottolinea, riposa nella considerazione che oggi, dentro il nuovo tipo di organizzazione post-fordista del lavoro, questa capacità fàtica del linguaggio, questa “semplice” potenzialità biologica del linguaggio, diviene il fulcro del meccanismo produttivo. Quello post-fordista sarebbe un sistema di produzione in cui «non conta tanto ciò-che-si-dice, quanto il fatto che si parla»51. Un sistema produttivo che lavora comunicando

«che si tratti della fabbrica informatizzata in cui una parte delle mansioni operaie consiste nella sorveglianza o nel coordinamento della produzione automatizzata, o nell’industria culturale, o di impieghi precari e intermittenti, in ognuno di questi casi ed in altri ancora il linguaggio è messo al lavoro. Ma attenzione: al lavoratore non è richiesta la familiarità con una determinata classe di enunciati (di contenuto tecnico, mettiamo), ma la disponibilità ad intervenire linguisticamente in contesti operativi mutevoli e non sempre prevedibili. Chi sorveglia e coordina il processo produttivo automatizzato, o chi produce merci ad alto contenuto comunicativo, deve dar prova di poter-dire nelle più diverse occasioni e ai più diversi propositi; non serve invece che padroneggi una gamma di messaggi predefiniti»52.

La svolta epocale, di cui Virno parla, riguarda il cambiamento di paradigma che si verifica all’interno della produzione e quindi del lavoro per cui quella capacità innata alla non specializzazione linguistica come mera produzione comunicazionale diventa il primo e principale requisito del lavoratore:

«La condivisione in quanto requisito tecnico, si oppone alla divisione del lavoro, la sgretola, la contraddice. Ciò non significa, naturalmente, che i lavori non siano più suddivisi, parcellizzati ecc.; significa, piuttosto, che la segmentanzione delle mansioni non risponde più a criteri oggettivi, “tecnici”, ma è esplicitamente arbitraria, reversibile, cangiante. Per il capitale, quel che veramente conta è l'originaria condivisione di doti linguistico-cognitive, giacché proprio essa garantisce la prontezza nel reagire all'innovazione, l'adattabilità ecc»53.

Parlare e pensare non rientrano di certo tra i talenti: per come li intende Virno consistono semplicemente in generiche predisposizioni antropologiche dell’animale uomo. Ciò significa che la cosiddetta divisione del lavoro non fa capo più a criteri oggettivi, tecnici, bensì a un criterio del tutto naturale; ancora meglio biologico: per entrare nel dispositivo di lavoro oggi è semplicemente necessario saper parlare, non nel senso di possedere la particolare abilità retorica di saper parlare bene; bensì di essere capace di formulare suoni di senso compiuto. Svuotato da qualsiasi speciale attitudine specializzata, l’individuo si configura come un lavoratore nella misura in cui possiede ed è capace di condividere i propri originari dati linguistico-cognitivi:

«Trent’anni fa in molte fabbriche c’erano cartelli che intimavano silenzio, si lavora. Chi lavorava taceva. Si cominciava a chiacchierare soltanto all’uscita della fabbrica o dell’ufficio. La principale novità del post fordismo consiste nell’aver messo il linguaggio al lavoro. Oggi in certe officine, potrebbero figurare degnamente cartelli speculari a quelli di un tempo: qui si lavora, parlate!»54.

Ciò che qui vale la pena mettere a fuoco riguarda l’entrata prepotente della comunicazione all’interno della produzione. Come abbiamo già visto con la produzione snella, la comunicazione e il flusso di informazioni diventano essenziali per il corretto funzionamento della catena produttiva. Il metodo Toyota insegna, infatti, che nella produzione si deve comunicare, ma perché funzioni al meglio è necessario far circolare le informazioni e le notizie tra i vari livelli. Laddove nel fordismo la comunicazione è un fenomeno, come dire, quasi superfluo (in fabbrica si lavora e non si parla), nel nuovo sistema assume un ruolo essenziale, dal momento che rappresenta il connettore tra la produzione e il mercato. Nel fordismo-taylorismo l’accesso al linguaggio o è preventivamente interdetto agli operai oppure ha i caratteri di un linguaggio che progetta verticalmente i modi e i tempi della coordinazione tra i vari livelli, che elabora gli obiettivi e le strategie; nel postfordismo, invece, si assiste a una continua esortazione a utilizzare il linguaggio come mezzo indispensabile per aumentare la produttività, per mettere in circolo saperi, energie mentali, competenze, creatività.

Il linguaggio non è più squalificato, come accade nell’universo fordista, e la parola non si trova più esclusivamente là dove vengono elaborate le strategie imprenditoriali; adesso la comunicazione diventa la principale strategia produttiva.

Il lavorare comunicando è una strategia della cooperazione comunicativa che consiste appunto nell’appropriazione da parte del capitale (in termini di valorizzazione) dell’intelligenza collettiva, ossia della forza produttiva sociale che la cooperazione, che il lavorare insieme, l’essere parte di un organismo collettivo sprigiona. Lavorando insieme si cattura la socialità dei lavoratori.

L’informazione diviene il nucleo dei processi di produzione; in questa maniera il postfordismo inaugura un modo di comunicare produttivo in cui la catena del flusso di produzione costituisce il lavoro e non ne rappresenta solamente un aspetto. Nel postfordismo il processo lavorativo si presenta come «un insieme fluido e complesso di atti linguistici, una sequenza di asserzioni e un’interazione simbolica»55. Non si tratta, infatti, soltanto di un sistema di sorveglianza e coordinamento delle macchine, ma, più profondamente, la produzione si serve della conoscenza come materia prima. Le prestazioni linguistiche accompagnano la generazione del prodotto e l’esecuzione, in una situazione per cui la reciprocità comunicativa diventa mezzo e fine, obiettivo e scopo. Il lavoro basato sulla comunicazione possiede una natura relazionale; ciò vuol dire che non ha una struttura finalistica predeterminata dal momento che lo scopo è costituito dal lavoro linguistico stesso. Per questo motivo si parla anche di femminilizzazione del lavoro, intendendo, con questa espressione, la deriva relazionale, flessibile, informale e anche fluida che il processo di produzione assume56.

Se dunque la catena di montaggio fordista appare muta in quanto, in nome della netta divisione tra luoghi di programmazione e luoghi di esecuzione, le operazioni vengono eseguite meccanicamente, quella post-fordista si presenta come una produzione parlante, in cui vi è una circolazione continua di informazioni e in cui a ciascuno è espressamente richiesto di esprimersi.

Si passa, quindi, da un sistema in cui la comunicazione rappresenta un elemento di disturbo, che destabilizza ed è anche capace di bloccare la produzione, a uno in cui si esorta alla comunicazione. Mentre in precedenza si stabilisce una sorta di rapporto disgiuntivo, per cui chi lavora lo fa silenziosamente, eseguendo delle mansioni monotone per cui non si ritiene necessario parlare, oppure chi parla si assume il rischio

di sospendere il processo; ora le due cose finiscono per coincidere: lavorare è parlare/parlare è lavorare. Si assiste, cioè, all’equivalenza tra comunicazione e produzione: il linguaggio fa l’organizzazione, organizza la produzione, gestisce il lavoro. Il linguaggio finalizzato alla produzione crea un tipo di lavoro che può essere facilmente descritto come l’insieme di atti comunicativi.

Il lavoro, in questo senso, diventa cognitivo in quanto è investito di riflessività. Non conta ciò che si dice ma il fatto che si parla: «Tutti i lavoratori entrano in produzione in quanto parlanti-pensanti»57. L’operazione a cui l’organizzazione postfordista del lavoro mette mano è allora una grande mobilitazione della capacità di avere un linguaggio:

«Il puro e semplifica fatto-che-si-parla, la capacità di produrre ogni genere di testi; non ipoteca, invece ciò-che-si-dice, ossia il particolare contenuto semantico. Con una formulazione un po' scherzosa: la comunicazione fàtica (“pronto, pronto”, “si, ci sono”) è diventata un modello di comportamento lavorativo»58.

La non specializzazione linguistica da tratto caratteristico della specie umana, si trasforma in un requisito di tipo professionale, pur rappresentando, beninteso, la fine di qualsiasi professionalità che si dovrebbe apprendere inizialmente durante un percorso scolastico-universitario. Come vedremo più avanti, alla preparazione convenzionale, impersonale, nozionistica della scuola si preferisce il concetto di formazione; concetto che focalizza l’attenzione, allo stesso tempo sull’incompetenza strutturale dell’individuo e sull’idea di un apprendimento basato sull’esperienza e in ultima istanza, sulla vita stessa. È proprio per questa ragione che si crea un cortocircuito tra la sfera della professionalità e quella personale: bisogna trasformarsi, in qualche misura, in professionisti della vita o del vivere. L’assenza di specializzazione rappresenta il requisito fondamentale per essere ingaggiati nel sistema lavorativo, dal momento che una tale “incapacità” segnala la disponibilità totale a fare esperienza in tutti i campi, il che significa, ancora una volta, essere disposti a vivere; disponibili, con un’espressione