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Il principio di auto-limitazione critica

Il monito kantiano, che invita ad uscire con decisione e coraggio dallo stato di minorità, si traduce in un essere diversamente, in un decidersi coraggiosamente per un altro tipo di configurazione governamentale. L'attitudine critica è, infatti, sia diagnosi della configurazione attuale dei rapporti governamentali sia individuazione degli spazi di fragilità, in cui è possibile l'insorgenza di azioni contro-governamentali.

Attraverso il testo kantiano, allora, Foucault sembra voler dire che la filosofia sotto forma di critica si presenta come una presa di posizione nei confronti del potere, ridisegnando il rapporto tra ragione e obbedienza e inaugurando così la possibilità di una forma ragionata di governo, una forma di governo illuminata (appunto) che ha nella riflessione e nella ragionevolezza il suo punto di legittimazione. È ciò che in fondo Foucault chiama la razionalità governamentale.

Definita come “la volontà di essere governati altrimenti” la critica si mostra come l'assunzione di un certo tipo di atteggiamento nei confronti del governo che possiede nel suo statuto di essere critico la propria ragionevolezza. Rimettendo in discussione il principio dell'obbedienza incondizionata, come modalità di conduzione degli uomini imposta dai governanti ai governati, la critica ri-disegna in maniera mobile e flessibile la posizione dei governanti e dei governati secondo un principio di regolazione interno. Il principio di regolazione interno è la critica stessa: la ragionevolezza del governo d'ora in poi sarà custodita della legittimità della critica al governo stesso. La critica sarebbe, quindi, la custode della ragionevolezza dell'obbedienza. Ciò comporterebbe una deriva

pericolosa; si intravede una sorta di saturazione del principio dell'obbedienza nell'atteggiamento critico fino ad uno schiacciamento dei due termini: l'unica obbedienza possibile è quella dovuta all'atteggiamento critico. L'unico governo possibile è il governo della razionalità riflessa. L'unica obbedienza possibile sta, quindi, nella ragione. Questa ragionevolezza del governo o ragionevolezza dell'obbedienza si incarnerebbe in una precisa forma di governo; esiste una precisa forma di potere che ha fatto della volontà di non essere governati in questo modo il suo sigillo ed è il neo- liberalismo54.

Se l'arte di governo corrisponde al «modo ragionato di governare al meglio e contemporaneamente la riflessione sul miglior modo possibile di governare»55 è esattamente il liberalismo che inaugura la riflessione sul e al governo. Incarnando lo spirito dell'attitudine critica, definito da Foucault l'altrimenti dal governo – inteso quest'ultimo come modalità di (auto) conduzione delle condotte – il neoliberalismo funziona, quindi, da griglia di lettura critica della nostra attualità56.

Foucault è molto chiaro: già nella prima lezione di Nascita della biopolitica ammette di voler affrontare le pratiche governamentali liberali secondo il criterio dell'eccesso di governo. La pratica liberale metterebbe in atto un’attività riflessa costante su se stessa, e sulla propria pratica problematizzando non il principio che regola la governamentalizzazione; vale a dire il principio stesso del governo e quindi del potere, quanto la ragionevolezza di un determinato governo nelle sue strategie specifiche di intervento. Il neoliberalismo è, insomma, proprio il governo della volontà di non essere eccessivamente governati.

Si tratta, in questo senso, di discostarsi da un’analisi economicista, ideologica o meramente politica, inquadrando piuttosto il problema del liberalismo all’interno della questione dell’arte di governo o della razionalità di governo. Un'analisi governamentale del liberalismo: «Il liberalismo […] non è semplicemente una scelta economica e politica formata e formulata direttamente dai governanti o negli ambienti governativi»57. Il neoliberalismo è una forma di razionalità di governo58.

Non come una teoria o una posizione di un determinato partito politico, dunque, ma come «una pratica, vale a dire come un “modo di fare” che è orientato verso determinati obiettivi e che si regola attraverso una riflessione continua»59. Inteso, fin da subito, come un certo stile di governo con un suo specifico tipo di razionalità, Foucault

manifesta il carattere interessante di questa forma di governo proprio nella sua particolare parentela con la critica: «La ragione del suo polimorfismo e del suo periodico ripresentarsi è data dal fatto che esso costituisce uno strumento critico della realtà»60.

Sono dunque due i punti di vista da cui Foucault analizza il neo-liberalismo: critica e governo, a partire dall’assunto, cioè che si tratta di un’arte critica di governare61.

Il ragionamento sul governo deve farsi più radicale, nel senso letterale di andare alla radice: si tratta della domanda antica e irriducibile “perché il governo?”.

Lo spazio del potere, infatti, non è assoluto, né tantomeno necessario, il potere insomma non è qualcosa di assolutamente desiderabile, di assolutamente positivo ma è appunto una decisione strategica che deve essere calcolata sulla base di costi legati al suo esercizio effettivo. Si parla di “economia del potere”62.

Con la nuova razionalità il governo perde la sua necessità, diviene qualcosa di cui dubitare: «“Si governa sempre troppo”, o almeno, occorre sempre sospettarlo»63. Il governo del sospetto inaugurato dal liberalismo articola il problema del governare in termini quantitativi (troppo o troppo poco) di estensione e di intensità.

Bisogna, dunque, porsi in un atteggiamento frugale: «Il sospetto che si rischia sempre di governare troppo contiene questa domanda: perché mai bisognerebbe governare?»64. La riflessione sui limiti del governo in quanto misura del “non governare troppo” si fa, allora, attitudine critica. Proprio perché è una riflessione sui limiti, l'attitudine critica si configura come un atteggiamento di frontiera, nel senso di un imparare a stare sulla soglia di un limite spinto al di là della logica binaria e dialettica del dentro e del fuori, e teso a salvaguardare una logica strategica del potere come costante riformulazione e ridefinizione degli spazi di libertà. Nello spazio tra il governare e il “sempre troppo” si gioca la definizione, come vedremo tra poco, di libertà.

Si tratta, dunque, di un tipo di razionalità governamentale che si prospetta come eminentemente critica: non può esistere governamentalità senza una critica. Con la nascita del liberalismo i due problemi diventano inseparabili.

Il governo viene sottoposto alla questione della necessità nella misura in cui ci si chiede, per la prima volta, il grado di utilità o di dannosità di qualsiasi intervento: «Più che una dottrina più o meno coerente, più che una politica che persegue un certo numero di obiettivi più o meno definiti, sarei tentato di vedere nel liberalismo una forma di

riflessione critica sulla pratica governamentale»65. Essa sarebbe quindi il limite critico dell'azione di governo. La razionalità liberale come stile di governo66. È per questo motivo che il liberalismo non è semplicemente un altro tipo di governo, un altro tipo di gestione delle condotte, bensì una «specie di rivendicazione globale, multiforme, ambigua, con ancoraggi a destra e a sinistra. È anche una sorta di nucleo utopico che viene continuamente riattivato. È inoltre un metodo di pensiero, una griglia di analisi economica e sociologica»67.

Ciò fa di esso qualcosa di diverso da una Weltanschauung o di un’ideologia la cui verità teorica deve essere concretizzata nella pratica. Si tratta di una forma di vita, di uno stile di pensiero, di uno schema di intellegibilità dei fenomeni.

Il neoliberalismo lavora all'instaurazione di una razionalità che assume le sembianze di una specie di nuovo regime dell'evidenza in cui la condotta umana come governo di sé diventa il nuovo quadro di intellegibilità.

Piuttosto che una tecnologia di governo realizzata dai governanti nei confronti dei governati, si tratta di una forma ben specifica di relazione che si instaura tra i due: «Un tipo di rapporto tra governanti e governati»68. Questo rapporto assume, allora, l’aspetto della libertà. Il principio di legittimità che i governati possono far valere nei confronti di chi governa, si presenta proprio come la possibilità di lasciare essere le condizioni affinché si manifesti la libertà di ciascuno. La posta in gioco dell’obbedienza, formulata dal problema “perché il governo?”, è declinata come una disobbedienza ragionata, considerato che il principio di limitazione del potere è disegnato dagli spazi di libertà dei soggetti, contro cui il potere impatta. Si tratta di libertà costantemente rinegoziate nella loro inter-reciprocità e in un continuo gioco di scambi e interferenze dalla stessa posizione governamentale di governanti e governati.

Il governo degli interessi rappresenta un sistema della libertà naturale, la libertà cioè, non è determinata negativamente come ciò che non è proibito dalla legge o dagli imprescrittibili diritti naturali. È richiesta invece positivamente come il correlato strumento di governo il cui compito è garantire la sicurezza delle funzioni del processo: il liberalismo per funzionare ha bisogno di libertà. Il liberalismo, come principio di governo, fissa la razionalità di governo, di esercizio del potere politico alla libertà e agli interessi razionali dei governati stessi. Non si identifica la razionalità del governo con la razionalità del sovrano. Piuttosto trova il principio di limitazione e di razionalizzazione

dell'esercizio del potere politico nelle operazioni di libertà e di razionalità di quelli che sono governati.

Il potere liberale è un'arte, una tecnica di gestione della natura umana, della condotta degli uomini, concepita a partire dalla logica della naturalità dei comportamenti e delle relazioni sociali, in cui l'obiettivo è governare la natura attraverso la natura stessa. Il liberalismo si mostra, quindi, come un tipo di governamentalità naturalistica, una forma “naturale” di governo.

Compito di un governo è allora «lasciare posto a tutto ciò che può essere la meccanica naturale, sia dei comportamenti che della produzione; dare spazio al manifestarsi di questi meccanismi, senza esercitare su di essi nessun'altra forma di intervento, per lo meno in prima istanza, che non sia quella della sorveglianza»69.

È questo il significato dell'espressione con la quale si sintetizza la strategia di potere liberale, laissez-faire: al potere è lasciato esclusivamente il diritto di intervenire nel momento in cui qualcosa nella meccanica naturale dei comportamenti economici non funziona come previsto. Laissez-faire dice allo stesso tempo un modo di agire e un modo di non agire. Una specie di formula che suggerisce di agire senza agire poiché si tratta di un invito a lasciare essere il corso delle cose, evitando di manipolarle, in modo che il gioco naturale delle cose proceda secondo le proprie leggi. In questo senso la libertà è il mezzo attraverso la quale la ragione governamentale opera: la mancanza di rispetto della libertà non si configura allora come una violazione dei diritti ma come ignoranza nei confronti del come del governo. E ancora più profondamente nei confronti della natura.

La grande novità, infatti, starebbe proprio in questa nuova tendenza a limitare la forza dello Stato lasciando essere le cose: «La comparsa dell'economia politica e il problema del governo minimo sono due cose collegate tra loro»70. Incarnando lo statuto naturale degli individui l'economia politica fronteggia lo Stato con il principio di natura: bisogna lasciare che gli interessi, i desideri, le attività, le relazioni si svolgano secondo la loro meccanica naturale. L'economia politica assume il ruolo di critica dell’eccesso di governo e suo principio di limitazione, avvalendosi del suo carattere di sapere scientifico designato all'amministrazione della natura umana attraverso un processo di conoscenza che pone il suo oggetto senza crearlo71. La natura, infatti, fornendo l'oggetto al nuovo sapere economico, ne fornisce anche il limite dal momento che si presenta

come uno spazio gestibile solamente in misura della sua ingestibilità. Spazio magmatico e regolato da leggi interne e intoccabili, la natura può essere governata solamente da un sapere che ne rispetti il carattere autonomo e indefinito. Una gestione il più possibile naturale della natura: questa, secondo Foucault, la grande sfida della scienza economica. Secondo l’operazione biopolitica foucaultiana, l’idea di governamentalità moderna si compie nel momento in cui il problema del governo della vita degli uomini si trasforma in una questione economico-politica: la natura biologica-giuridica del potere ingaggia l’economia politica come dispositivo di sapere razionale. Ancora meglio, l’economia politica si dispone come tecnologia di potere il cui principio di ragione non risponde alla coartazione, alla limitazione e alla repressione della natura umana, (vale a dire degli elementi naturali, dei bisogni e dei desideri degli individui), bensì alla sua massima espressione ed esibizione72.

Si verifica qui una torsione estremamente importante: per la prima volta si governa in base alla razionalità di coloro che sono governati, la razionalità dei governati serve «da principio di regolazione per la razionalità di governo»73. Il neoliberalismo, dunque, nasce a partire dalla questione «in che modo regolare il governo, l'arte di governare, come fondare il principio di razionalizzazione dell'arte di governo sul comportamento razionale di coloro che sono governati»74.

Il neoliberalismo definisce l'economia «la scienza del comportamento umano, inteso come una relazione tra fini e mezzi rari i quali hanno utilizzazioni che si escludono reciprocamente»75. Incarna la scienza che analizza un comportamento umano e la logica razionale che presiede a un tale comportamento: «Analisi della razionalità interna, della programmazione strategica dell'attività degli individui»76. Un tipo sapere, cioè, che prende in esame il tipo di calcolo, che, come precisa, può essere a volte senza ragione, a volte insensato, a volte insufficiente, che induce gli individui a destinare determinate risorse, rare, ad un fine piuttosto che ad un altro. È, allora, la scienza delle scelte, sempre sostituibili e convertibili che i soggetti operano in quadro preciso di fini concorrenti e alternativi tra loro. La scienza dell'allocazione delle risorse rare a partire da decisioni strategiche: «Disponendo di risorse rare, e in vista dell'eventuale utilizzazione di queste risorse, non ci sono un unico fine o più fini cumulativi, ma soltanto fini tra cui occorre scegliere»77. Si parla di fini alternativi che non si sovrappongono ma che sono frutto di una certa strategia, come vedremo,

comportamentale. Lo chiarisce perfettamente Foucault: «L'analisi economica, pertanto, dovrà avere come punto di partenza e come quadro generale di riferimento lo studio della modalità con cui gli individui assegnano le risorse rare per fini che sono alternativi tra loro»78. Lo studio della modalità attraverso la quale i soggetti si muovono nello spazio del mercato. Lungi dall'occuparsi dei meccanismi ciò su cui ci si deve focalizzare è la natura umana.