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Formazione permanente e flessibilità

CAPITOLO II Linguaggio, lavoro e vita

5. Formazione permanente e flessibilità

Alla luce di quanto detto finora, si dovrebbe cominciare a capire che l’operazione di Virno tende a fare delle comuni facoltà umane (linguaggio, intelligenza, capacità di astrazione e di correlazione, conoscenza) la premessa comune, lo sfondo biologico che ogni singolo ha alle spalle quando comincia ad agire. Questa naturalizzazione e universalità dell’intelletto umano si incrocerebbe nella forza-lavoro, punto in cui il

potenzialità non specializzata vi sono, lo dicevamo prima, altre due caratteristiche filogenetiche della specie umana che Virno prende in esame: neotenia e disambientamento.

Per quanto riguarda la neotenia, detta anche infanzia cronica, si tratta di un concetto che Virno riprende dalla teoria paleoantropologica, la quale considera l’uomo un animale che resta fin dalla nascita incompleto, lacunoso, immaturo, a causa di una serie di ragioni evolutive che non gli permettono di completare il suo sviluppo prima della nascita. Ciò lo condanna ad una lunga e ininterrotta infanzia, intesa come periodo in cui acquisire gli strumenti per stare al mondo negati dalla sua nascita prematura.

La neotenia condanna l’uomo a uno statuto di infanzia perenne che

«significa innanzitutto assenza di un codice comunicativo bell’e fatto, istintivo; significa una iniziale afasia, ovvero una mera potenza-di – dire che, come tale, è ancora un non-dire. L’infanzia esemplifica bene la sinonimia tra lacuna e potenzialità. l’infanzia nell’essere umano non è un episodio transeunte, ma un modo di essere permanente»69.

L’uomo, dunque, è definito un essere instabile, destinato a un apprendimento ininterrotto: «A un infanzia cronica corrisponde un cronico inadattamento, da mitigare volta per volta con dispositivi sociali e culturali»70. Questa caratteristica biologica, tipica dell’animale umano, sarebbe ancora una volta introiettata e resa produttiva dal capitalismo contemporaneo che fa quindi della facoltà di apprendimento perenne una necessità sociale e un requisito professionale. Senza soluzione di continuità, allora, il lavoratore odierno, proprio come un’esponente dell’Homo sapiens (o sarebbe più giusto dire proprio perché) si sottopone ad una continua catena di apprendimenti, rinnovando ogni giorno il suo statuto di essere che apprende:

«La formazione non ha fine. Accompagna, come un esplicito contrappunto, tutte le tappe dell’attività produttiva. Anzi, è parte integrante di quest’ultima: lavorare significa, in certa misura, ri-formarsi. Si tratta per l’appunto come recitano le inchieste sociologiche, di una formazione ininterrotta. Non episodio transeunte, ma condizione cronica. Causa della formazione ininterrotta, è certo, la flessibilità degli impieghi e delle mansioni; ma anche, e forse, soprattutto, il ruolo crescente assolto dal sapere e dall’informazione nel ciclo produttivo»71

Caratteristica della nostra specie è, dunque, avere un’infanzia incredibilmente lunga accompagnata da un apprendimento, inteso come sperimentazione e ambientamento, altrettanto lungo poiché necessario alla sopravvivenza della stessa specie. La

formazione, più che essere un periodo circoscritto, nella natura come nella fabbrica si trasforma in uno stato naturale del lavoratore contemporaneo.

L’organizzazione del lavoro, avrebbe, cioè, pienamente assunto e sfruttato la congenita incompletezza dell’animale uomo. È della capacità di saper imparare (imparare ad imparare) che bisogna fare sfoggio nei colloqui di lavoro: «Non conta tanto, si badi, ciò che di volta in volta si è appreso, ma la continua esibizione della propria generica potenza di apprendere»72. Potenza che sopravanza sempre le singole attuazioni, dato che, proprio come il linguaggio non si consuma nelle lingue, la disponibilità di apprendere non si dissolve nelle attitudini, nei comportamenti imparati. Come vedremo, nel prossimo capitolo, le pratiche filosofiche riprendono quest’idea dell’apprendimento continuo come disamina continua della propria esistenza e soprattutto nell’atteggiamento propriamente socratico della consapevolezza del “sapere di non sapere”. Il lavoratore, la categoria più generica sotto la quale racchiudiamo la figura del professionista e dell’imprenditore, allora, deve essere veramente socratico ammettendo, in tutta umiltà, di non possedere la verità ma di essere un uomo che la cerca, esperendola e praticandola nella vita. Ciò significa, ancora una volta, che ciò che si deve dimostrare è la propria intenzione di apprendere, di imparare, con spirito critico e predisposizione al dialogo. Si pensa e si parla: non si deve mai smettere di farlo. Il pensiero e il linguaggio sussunti dal capitale diventano il motore che ne garantisce il funzionamento. La macchina dell’obbedienza economico-politica funziona, allora, potremmo dire dire, con il mantenimento costante dell’uso della ragione.

Stesso discorso vale per il disambientamento che, come dovrebbe essere già emerso, esprime la congenita impossibilità per l’essere umano di possedere un ambiente, chiuso e delimitato da istinti precostituiti, e di essere “condannato” a una mobilità perenne. Corrispettivo sociale di quest’ultimo è la flessibilità. Prima ancora di essere un imperativo volto allo snellimento della produzione, all’allargamento dei mercati, alla risposta a certe congiunture economiche la flessibilità

«indica, più in generale, una forma di vita, una mentalità, un complesso di abitudini. Flessibile è, insomma, un modo di stare al mondo. In questione è la dimestichezza con l’instabilità, l’addestramento alla precarietà, la prontezza nel fronteggiare l’imprevisto, l’abilità nel destreggiarsi tra un alto numero di possibilità alternative»73.

L’operazione di cui si sta parlando corrisponde al tentativo di trasformare la razionalità neoliberale in una società conforme alla natura umana; una società interamente biologica. Fare della società postfordista la società della flessibilità vuol dire applicare alla società-ambiente dei criteri naturali; fino a farla coincidere con una forma di vita. Una flessibilità che si coniuga con una illimitata capacità di cambiare in maniera indifferente lo spazio lavorativo, di giostrarsi in varie e indeterminate prestazioni lavorative:

«Flessibilità nel passare da un impiego all’altro, flessibilità nel variare le mansioni all’interno di un determinato posto di lavoro. La flessibilità scatenata, che contraddistingue il processo lavorativo contemporaneo, è la trascrizione fedele, anzi il calco pedissequo, della non-specializzazione biologica. Davvero flessibile, duttile, plastico è l’animale indefinito»74.

La flessibilità, secondo Virno, rappresenterebbe esattamente un modo contingente, determinato e storico di manifestarsi di un dato della natura umana. Dal momento che la nostra specie non ha un ambiente circoscritto ed è bombardata da una miriade di sollecitazioni ambientali, di fronte alle quali non ha un sistema operativo già pre- costituito, non è capace di tradurre ciò che percepisce in un compito in “un da fare”; questa insicurezza, questa incertezza e precarietà ambientale e biologica converte l’uomo in un animale estremamente disorientato, plastico ergo flessibile. Di qui la grande svolta del paradigma postfordista: invece di nascondere questo dato di fatto e di creare delle istituzioni per formare un animale semi-specializzato, il sistema socio- economico traduce la non-specializzazione nella regola sociale dell’universale e indiscriminata flessibilità. Non rappresenta un freno, una protezione, uno smussamento, al contrario costituisce il luogo della sua più grande esibizione.

Perfetto animale di questo mondo-ambiente, allora, il soggetto che lavora non deve fare altro che esprimere al meglio le proprie non-qualità biologiche. Secondo Virno, quindi, il capitalismo contemporaneo traducendo questo dato della natura umana in una regola sociale la istituisce come tale. Quando Virno parla di formazione interrotta, allora, non nomina solamente un aspetto tra gli altri che emerge nel sistema di produzione contemporaneo, come l’apologetica del capitalismo fa credere. Come abbiamo visto, in effetti, l’ordine del discorso post-fordista indaga e spiega le cause della svolta rinvenendole in fattori esterni alla trasformazione del processo capitalistico: il mercato, la mondializzazione, le tecnologie informatiche. È ovvio, sostiene Virno, che tutto ciò

deve essere preso in considerazione, e deve essere ritenuto esterno solo nella misura in cui risponde al mutamento che il capitale stesso produce, tuttavia non risulta sufficiente. La posta in gioco, infatti, è un’altra: per la prima volta un aspetto invariante della natura umana si presenta in una determinata forma sociale e politica. Non solo. Il punto cruciale risiede nella metamorfosi sociale di un elemento della natura umana, che diviene norma di governo delle condotte degli individui, diremmo con Foucault, e principio di gestione della produzione di ricchezza, ossia l’interazione e lo scambio uomini-ambiente, nel linguaggio di Virno.

La trasfigurazione sembra completa: un dato naturale, biologico diventa la norma di azione e inter-azione degli uomini e, quindi, regola sociale della produzione. Per la prima volta nella Storia, se così si può dire, governa veramente la natura umana.

Quando Virno dice flessibilità sta pensando a un paradigma di tipo ontologico: indica una forma di vita, una mentalità, un complesso di abitudini, un modo, cioè, di stare al mondo. Flessibilità nel passare da un lavoro all’altro, flessibilità nel variare le mansioni all’interno di uno stesso posto di lavoro. L’istanza perennemente attiva è quella di organizzare un’opera di regolazione e sorveglianza perenne su un ciclo produttivo largamente automatizzato. Bisogna essere sempre disponibili, e sempre disponibili ad intervenire, qualora qualcosa non funzioni. Traspare qui, molto chiaramente, il principio della trasformazione del lavoro in comportamento: tutto ciò che deve fare il lavoratore consiste nel comportarsi in un certo modo. Un modo che tuttavia non è imposto dall’alto: ciò di cui l’impresa ha bisogno è che il lavoratore si comporti come si comporterebbe lui stesso se fosse al suo posto. Sembra senza dubbio una tautologia: comportati come ti comporteresti, fai quello che faresti, sii quello che sei. Comportarsi in maniera duttile significa proprio questo: non rispondere a degli atteggiamenti preformati, precostituiti, ma essere se stessi, fare in qualche misura ciò che si sente di fare. Attuare quel comportamento razionale adeguato alla situazione che abbiamo visto nel capitolo precedente. Il lavoratore si presenta come l’uomo che accetta la realtà e che in base a questa agisce, comunica, si comporta (in maniera uniforme e interscambiabile). Del resto, si domanda, giustamente Virno:

«Quali sono i principali requisiti richiesti ai lavoratori dipendenti? Abitudine alla mobilità, capacità di restare al passo con le brusche riconversioni, ad attività sposata a qualche intraprendenza, duttilità nel trascorrere dall’uno all’altro gruppo di regole, attitudine ad un’interazione linguistica tanto banalizzata

La produzione si giova dell’incertezza di aspettative e gioca dentro un flusso di possibilità interscambiabili nel quale l’abilità sta nel saper deviare con prontezza dall’una all’altra. Vale a dire la capacità di destreggiarsi tra opportunità astratte e qualità professionale: «La non specializzazione biologica dell’Homo sapiens non resta sullo sfondo, ma guadagna la massima appariscenza storica come universale flessibilità delle prestazioni lavorative»76. Si può dire, allora, che l’unico talento che conta nella produzione postfordista è non avere talento, nella misura in cui si richiede semplicemente di corrispondere al proprio patrimonio filogenetico. Se l’essere umano si caratterizza esattamente per la propria abitudine a non contrarre durevoli abitudini, cioè, nell’abilità a saper intervenire in maniera tempestiva di fronte agli eventi, allora ogni individuo è appunto un perfetto imprenditore del proprio capitale umano. Qualora si possedesse una competenza univoca, una specializzazione dettagliata, una qualità determinata e determinante si sarebbe destinati ad essere rigettati dal sistema in quanto, è il caso di dirlo, contro-natura. Ritorna qui, in un’altra declinazione, ma sempre forte l’idea del neoliberalismo come il governo della natura umana.

La congenita incompletezza dell’animale umano, la sua infinità possibilità di apprendere, la sua disponibilità alla mobilità, sarebbero l’epifenomeno biologico, la trasposizione biologica dei capisaldi della società post-fordista: mente-lavoro, formazione permanente e flessibilità. Ancora meglio le forme di soggettività richieste e prodotte dall’organizzazione-impresa sarebbero lo specchio esatto delle costanti specie- specifiche della non-specializzazione, neotenia e disambientamento.

L’unica produzione possibile, nel sistema immateriale post-fordista, si trova nel linguaggio, nelle relazioni, negli affetti, nelle emozioni, nella vita: in una parola capitale umano.

Il capitale umano che produce se stesso, la natura che produce e ri-produce se stessa: il neoliberalismo è un sistema che si morde la coda. Devi essere flessibile per produrre flessibilità, devi usare il linguaggio per creare linguaggi, devi essere naturale per produrre natura.

Sia chiaro: si tratta di requisiti che non derivano da generazioni di disciplinamento industriale, quanto piuttosto da una socializzazione che ha il suo epicentro fuori del tempo di lavoro. Dati che si acquisiscono durante una prolungata permanenza in uno

stadio pre-lavorativo o precario, durante quel tempo che, se dovessimo seguire la suddivisione della giornata lavorativa al tempo del capitalismo pre-fordista, costituirebbe il tempo cosiddetto libero. Qui, invece, il tempo libero si configura come il tempo della formazione perpetua in cui si impara, si esercita e si allena la propria natura umana. Nell’attesa di un impiego gli individui sviluppano talenti genericamente sociali e si allenano alla precarietà, alla mutevolezza. Un agire duttile in grado di far fronte alle più diverse eventualità:

«Ricordiamoci delle due celebri definizioni aristoteliche dell'Homo sapiens: “animale che ha linguaggio” e “animale politico”. Animale che ha linguaggio: il discorso verbale, parte integrante della nostra costituzione biologica, qualifica ogni sorta di affetti e percezioni. Animale politico: carattere transindividuale (o, se si preferisce, pubblico) della mente umana, sua capacità di interagire, cooperare, adattarsi al possibile e all'imprevisto. Ebbene, a me pare che le due antiche definizioni sintetizzino bene ciò che si deve intendere per vita-messa-al-lavoro. Le effettive doti professionali (si fa per dire) richieste al lavoratore postfordista, ossia all'"uomo flessibile", consistono nella facoltà di significare/comunicare e nella facoltà di (inter)agire»77.

Comincia a guadagnare peso, allora, la prospettiva di un tipo di produzione immateriale in cui sono i comportamenti, tutte le componenti biologiche, le dimensioni mentali relazionali e affettive, emotive ad essere il centro della produzione della ricchezza. Tutto ciò che Marx chiama lavoro vivo. A diventare centrali sono le prestazioni comunicative, le competenze linguistiche, il sapere, l’immaginazione, il rapporto tra lavoratori.

Nel tardo capitalismo, il processo lavorativo mobilita i requisiti più universali della specie: percezione, linguaggio, memoria, affetti. La cooperazione sociale, come vedremo tra poco, diviene un’azione comune, un insieme di relazioni cognitive, emotive, politiche.

Obiettivo del capitalismo post-fordista è allora riuscire a organizzare tutto il lavoro sotto forma di una collettività di parlanti.