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CAPITOLO II Linguaggio, lavoro e vita

2. Sulla natura umana

Prima di prendere in esame l’ipotesi di Virno, attraverso l’analisi di due suoi saggi,

Grammatica della moltitudine e Scienze sociali e natura umana1, una precauzione di metodo è necessaria. Consapevoli del fatto che l’accostamento tra Foucault e Virno potrebbe suscitare qualche perplessità, conviene partire dalla precisazione terminologica e concettuale che concerne, ciò che finora abbiamo considerato il filo rosso che dovrebbe permettere di legare Foucault e Virno: la natura umana.

Sebbene si tratti di due autori per certi versi molto distanti, l’operazione prende avvio dall’idea che, per l’architettura complessiva del nostro discorso, essi possano essere letti insieme2. Anche se da due prospettive diverse, infatti, Virno e Foucault lavorano allo stesso progetto, vale a dire: dimostrare che l’attuale sistema economico è,

fondamentalmente, un particolare regime di potere, persino di dominio, basato sulla messa a lavoro della natura umana. È proprio sul significato da attribuire a questa espressione che bisogna però intendersi, prima di continuare la nostra ricerca.

In Foucault, infatti, lo diciamo subito, l’impiego della formula natura umana deve essere preceduta dall’assunzione di una posizione non-ontologica: una natura, cioè, che non ha nulla di naturale, perché resa artificiale dal meccanismo formale del mercato e della concorrenza che creano bisogni e desideri. In Virno, al contrario, come vedremo, siamo autorizzati ad un uso in senso ontologico dell’espressione, considerata come l’insieme dei fattori invarianti della specie umana che trovano uno spazio di manifestazione nell’attuale sistema economico contemporaneo.

Per cogliere meglio questa differenza conviene fare riferimento al celebre dibattito tra Foucault e Chomsky del 1971, che ha come tema esattamente la questione della natura umana (dibattito che lo stesso Virno discute in occasione della pubblicazione italiana del conversazione tra Foucault e Chomsky)3. Si tratta di un excursus breve ma essenziale per due ordini di motivi: in primo luogo chiarisce le ragioni dell’accostamento a partire dalla messa in evidenza delle differenze e delle complementarietà che esistono tra i due autori; successivamente ci permette di introdurre Virno, attraverso l’operazione che lui stesso compie. Potremmo considerarlo, in effetti, come una sorta di discorso sul metodo di Virno. Grazie ad esso, infatti, Virno ha buon gioco a delimitare il proprio campo di interesse per contrapposizione, facendo emergere in fondo la propria posizione dalla negazione di entrambe.

Detto molto chiaramente, Foucault, assai marxianamente non riconosce l’esistenza della natura umana, nella misura in cui la domanda in termini ontologici: “Che cos’è la natura umana?” è mal posta e andrebbe sostituita piuttosto con: “Come funziona il concetto di natura umana nella nostra società?”, “a partire da quando e con quali strategie discorsive prende piede qualcosa come il concetto di natura umana?”. Il punto di vista di Foucault, cioè, comporterà un’indagine sulle condizioni di possibilità di emergenza di un concetto e la negazione di una sua presunta esistenza extra-discorsiva. La sua indagine archeologica – si noti bene – è altrettanto distante dal punto di vista di Virno che a quel tipo di domanda risponde anch’egli sì, ma allo stesso tempo vicino, in quanto disposto a indagare le ragioni storiche e quindi variabili di ciò che considera un invariante:

«Uno dei miei obiettivi è mostrare alla gente come tante cose che fanno parte del suo orizzonte abituale non sono che il risultato di mutamenti storici molto precisi. […] Le mie analisi si muovono tutte in direzione opposta all’idea che ci siano delle necessità universali nell’esistenza umana. Esse mettono in luce l’arbitrarietà di certe istituzioni e fanno vedere come noi possiamo ancora godere di un notevole spazio di libertà e come si possano ancora operare molti cambiamenti. Nelle scienze sociali si può parlare di una “natura umana” solo in termini di attitudine a colmare la propria indeterminatezza biologica (l’uomo non ha istinti o comportamenti predeterminati biologicamente) attraverso la cultura (e non invece in termini positivi). In sintesi, non si parla di natura, ma solo di condizione umana, perché l’uomo non è un ente di cui è possibile cogliere l’essenza, dato che essa si completa culturalmente sia dal punto di vista filogenetico – cioè della specie homo – che ontogenetico – cioè dello sviluppo dell’individuo, dalla nascita alla morte» 4.

Non è ammessa, senza appello, l’esistenza di universali né tanto meno di invarianti scientifiche: «Nella storia della conoscenza, la nozione di natura umana mi pare aver svolto essenzialmente il ruolo di un indicatore epistemologico per designare certi tipi di discorso in relazione o in opposizione alla teologia, alla biologia, alla storia. Faccio fatica a riconoscere in essa un concetto scientifico»5. Il ruolo di natura umana è, quindi, ridotto a criterio epistemologico; «utile semmai a fissare limiti e modalità dell’indagine stessa»6, a circoscrivere un ambito di ricerca.

Sebbene Foucault concordi sull’esistenza di sistemi di regolarità che garantiscono il concetto stesso di libertà, non è ammissibile collocare i principi normativi all’interno della mente umana: «Ho difficoltà ad accettare che tali regolarità siano legate alla mente o alla natura umana come condizioni di esistenza: […] mi sembra che occorre ri-situarle all’interno delle altre pratiche umane, economiche, tecniche, politiche, sociologiche che servono da condizione di formazione, comparsa e da modello»7. Le condizioni di possibilità del sapere, allora, non hanno una collocazione specifica nella mente individuale ma un carattere sovrapersonale, vale a dire storico.

Ancora una volta la distanza tra Virno e Foucault non potrebbe essere più grande e allo stesso tempo più piccola: lavorando per dimostrare che le condizioni di possibilità non sono interiori ma esteriori, non psicologiche ma storiche, Foucault si batte per una de- psicologizzazione e de-umanizzazione della storia e della conoscenza. Nulla concesso all’ammissione di un uomo biologico che vive e parla: l’uomo non può essere ridotto a un’uniformità costante, è un’invenzione recente8, l’esito di una stratificazione discorsiva: «Le nozioni di natura umana, giustizia, di realizzazione dell’essenza umana sono nozioni formatesi all’interno della nostra civiltà, nel nostro tipo di sapere, nella nostra forma di filosofia»9.

La prospettiva archeologica non ammette la possibilità di trasformare la natura umana in un concetto biologico-scientifico; al contrario, per Virno, uno sfondo biologico immutabile esiste ed è rintracciabile nel linguaggio concepito appunto come facoltà innata10.

La possibilità di una conoscenza empirica della finitudine prevede, per Foucault invece, il grande progetto di fondazione del concetto di uomo come campo dell’episteme moderno, soggetto-oggetto di ogni conoscenza possibile. Non si tratta di «fondare un

homo natura, né un soggetto puro di libertà», ma un uomo che «è preso all’interno delle

sintesi già operanti nel suo legame con il mondo»11. La naturalità dell’uomo è già da sempre collocata in una cultura già data: l’unico compito della conoscenza resta allora non «quel che l’uomo è, ma di quel che può fare di se stesso»12. La conoscenza è una conoscenza che deve innanzitutto rendere conto di se stessa, del suo concreto accadere storico, e un’archeologia filosofica deve studiare il campo epistemologico in cui le conoscenze affiorano, a prescindere da criteri razionali o trascendentali. Le diverse forme di conoscenza non possono essere ricondotte a una razionalità intrinseca della ragione, al contrario sono frammenti di una sistematizzazione funzionale e storica in cui non c’è alcuna necessità della ragione.

Il metodo archeologico basato sull’a-priori storico non fonda le conoscenze come se ne fosse all’origine, non conferisce loro il carattere universale del procedimento trascendentale; al contrario, mostra l’aspetto contingente, arbitrario delle pratiche e delle forme di coscienza che ad esse si accompagnano. Da un’analisi di tipo “archeologico” dovranno perciò essere banditi ogni escatologia e ogni teleologismo, nonché qualsiasi idea di progresso interno alla storia. Il risultato di tutto ciò è una forma di critica senza trascendentale, definizione che racchiude il senso forse più profondo del confronto foucaultiano con Kant.

Ad ogni modo conviene in questa sede ribadire, quindi, che l’attenzione sulla natura umana è comunque importante poiché intorno alla decisione scientifica sulla natura della natura umana, sia essa un universale o meno, ruota la posta in gioco dell’apparato politico moderno. Questo è, in ogni caso, un punto che va tenuto ben presente e che, a mio avviso mette d’accordo sia Virno che Foucault.

«Questa nozione di natura umana negli ultimi due decenni è tornata al centro della discussione, anziché restare un reperto museale, anziché restare tutt’al più un affare di biologi o di antropologi, invece è tornata di prepotenza nella discussione pubblica, tant’è che non dico tutti noi, ma molti di noi hanno sentito parlare di biopolitica, termine che vuol dire: la politica oggi si applica direttamente alla vita, naturalmente non alla vita in generale, ma alla vita umana, ai processi vitali della specie homo sapiens. Vedete che già in questo termine biopolitica vi è il sintomo di un’attualità, di una prominenza della nozione di natura umana. Come e perché un concetto del genere diventa dirimente non solo per piccole cerchie di studiosi, ma per capire cosa fare, come vivere, come muoversi nella sfera pubblica, come agire politicamente?»13.

Il problema della natura umana, allora, torna al centro dell’attenzione, poiché, in maniera del tutto inedita, acquisisce un ruolo di prim’ordine all’interno del processo di produzione sociale e politica attuale. È questo il senso con cui Virno utilizza il termine (foucaultiano!) biopolitica. Dal punto di vista di Virno, l’incrocio tra l’invariante biologico della nostra specie (la natura umana – metastoria) e il variabile storico (la storia) ci permette di cogliere il processo di storicizzazione delle prerogative biologiche dell’uomo e la prominenza storico sociale che l’invariante biologico acquista.

È fondamentalmente ciò che Virno definisce il progetto di imbastire una storia naturale: «Che la metastoria filogenetica sia oggetto di molteplici rappresentazioni storicamente condizionate, ciascuna delle quali ha un tenore contingente, non implica in alcun modo la sua disintegrazione in quanto metastoria; nulla toglie, cioè, alla persistenza di certe prerogative specie-specifiche dal Cro-Magnon in avanti»14. Ammettere che la metastoria possa avere una visibilità storica, nella misura in cui l’invariante ha bisogno di un decorso storico per manifestarsi, e, allo stesso tempo, ritenere che le condizioni storiche facciano emergere in superficie dei tratti dell’invariante biologico, non è una ragione sufficiente, secondo Virno, per negare, come fa Foucault, la natura umana in quanto tale. Foucault, secondo Virno, nega l’esistenza di un invariante biologico proprio a partire dall’ammissione di una sua epifania storico, sociale, politica: «Egli intende la ricorsività con cui l'invariante si manifesta in particolari congiunture storiche come un attestate della sua variabilità (ovvero come una confutazione dell'invariante medesimo)»15. Prossimità e distanza ancora una volta: Virno può concordare con Foucault che la natura umana, piuttosto che l'oggetto della ricerca, sia un indicatore epistemologico, una griglia sulla quale basare le proprie ricerche. Tuttavia, e di nuovo si discosta, perché, si chiede Virno, non vedere che «l’indicatore epistemologico, se certamente non designa alcun fenomeno determinato (inerendo piuttosto al modo in cui si struttura la rappresentazione), poggia però su una realtà empirica specie-specifica:

l'innata facoltà di linguaggio, le peculiari strutture del pensiero verbale ecc»16? Perché non consentire che la natura umana, in quanto base biologica degli indicatori epistemologici, rappresenti le condizioni empirico-materiali che presiedono alle categorie a priori? Perché non ammettere che l’indicatore epistemologico, che non coincide con nessun fenomeno specifico ma con la struttura della rappresentazione, poggia su una realtà materiale specie-specifica?

La risposta di Virno fa coincidere la natura umana come la realtà empirica, questo sfondo sul quale si fondano gli indicatori epistemologici.

È possibile, allora, connettere l’elemento invariante sedimentato sul fondo della nostra evoluzione biologica con ciò che è culturalmente costruito nel tempo storico. La naturalizzazione della coscienza, il concetto di natura umana, non implica l’irrilevanza delle varie rappresentazioni e produzioni della cultura; e viceversa: la dimensione storica dell’uomo non esclude una sua dimensione naturale. Le strutture mentali innate si intersecano indissolubilmente con le strutture e rappresentazioni mentali apprese e costruite durante la nostra vita.

La distanza, allora, risulta tutto sommato aggirabile dal momento che, conviene ribadirlo, più importante della discussione sull’esistenza o meno della natura umana è l’idea, condivisa da entrambi, della trasformazione in senso biopolitico del dominio economico-politico contemporaneo. Il sistema economico attuale si basa, detto brutalmente, sulla produzione e sul consumo della natura umana, della vita, dell’esistenza. Lo abbiamo visto con Foucault, quando abbiamo parlato del capitale umano come investimento della propria libertà, lo vedremo con Virno, attraverso la decifrazione del suo aspetto più propriamente produttivo.

La credenza virniana nell’esistenza della natura umana nasce, in fondo, dalla banale constatazione dell’uomo come un essere vivente appartenente ad una specie biologica con dei caratteri distintivi e non sottoposti alla variabilità. Seppure possa apparire estremamente rischioso definire l’uomo a partire dal suo corredo genetico, si rivela ugualmente importante ammettere l’inevitabilità del fatto che sia anche quello. La tesi di Virno punta, allora, a ricercare una radice extra-teorica della teoria – la storia naturale: il fatto, vale a dire, che “proprio ora”, il “da sempre”, ciò che nell’uomo sempre esiste, diventa determinante. Un progetto di storia naturale di propone, quindi, di riattraversare il rapporto fra biologia e storia, fra ciò che resta e ciò che muta, fra ciò che

si ripete e ciò che invece è sottoposto a metamorfosi radicali. Consapevole del fatto che, paradossalmente, perfino la capacità di fare storia e di modificare le proprie forme di vita è un dato naturale che distingue la nostra specie dalle altre, tentativo di Virno è esaminare il modo in cui gli aspetti immutabili della natura umana, pur restando immutabili, si manifestano, emergono sulla superficie della realtà.

Compito di una storia naturale è, quindi, studiare la visibilità della natura umana e i modi di questa visibilità, all’interno di un assetto storico concreto, nei modi di istituzioni politiche concrete che mutano; indagare meglio la questione di una politica che è fortemente implicata con i tratti di fondo della natura umana. Bisogna andare a stanare la natura lì dove la si produce.

In linea di continuità, dunque, ma anche discostandosi almeno in parte dalle tesi di Foucault, grazie a Virno è possibile dimostrare non solo che il neoliberalismo conserva la propria ragione di governo nella natura umana, ma che la smaterializzazione del processo produttivo è anche produzione della stessa. Con Virno la natura umana di Foucault enfatizza la sua metamorfosi in entità economica. In questo modo il processo si compierebbe: il sistema economico appare completamente naturalizzato, l’organizzazione definitivamente organica, il capitale completamente umano.

Si realizza quella torsione di prospettiva che lo stesso Foucault rintraccia, in Nascita

della biopolitica, in riferimento alla coincidenza dell’idea di lavoro con il capitale

umano. Nell’invito ad essere imprenditori di se stessi si cela l’ingiunzione a considerare la propria vita come un capitale da investire. Produrre oggi, dunque, significherebbe produrre capitali umani, produrre e riprodurre l’umanità.

Sarebbe questo nesso vita-lavoro il grande inevaso di Foucault, agli occhi di Virno, che abbiamo il compito di studiare, in prospettiva di un pensiero critico dell’attualità17.