CAPITOLO II Linguaggio, lavoro e vita
6. Virtuosismo inoperoso dell’intellettualità
Nel sistema di produzione postfordista, detto molto semplicemente, la comunicazione si trasforma nella principale forza produttiva. La comunicazione, come interazione di pensiero e linguaggio, diviene ciò che produce valore oggi. Comunicazione si traduce, a ben vedere, con dialogo, per marcare il carattere relazionale e per così dire attivo
dell’interazione tra pensiero e linguaggio che nel dialogo trova la propria collocazione perfetta. Soffermarsi a lungo e diffusamente sulla svolta critico-linguistica dell’apparato economico del sistema post-fordista, per come è delineata da Virno, anche se non rappresenta il nostro problema principale, ma solo la cornice nel quale esso si staglia, risulta indispensabile, ai fini della nostra ricerca, poiché prepara il terreno per definire l’angolazione per una critica, al contempo economico, politica e filosofica della consulenza filosofica. Quando si legge che le pratiche filosofiche sono dialogo, allora, è d’obbligo fare riferimento a questa concezione del dialogo che non è neutrale, non è imparziale, non è scontata e non è innocente. Il dialogo è diventato un’operazione economica su cui si fonda il dominio politico contemporaneo. Nel destino della contemporaneità neoliberale ne va, anche e soprattutto, del destino e del compito della filosofia.
Il pensiero, quando irrompe nel processo produttivo, cessa di essere un’attività inappariscente e diventa comunicazione, linguaggio, dialogo. Quest’ultimo si caratterizza, infatti, non a caso per la sua natura pubblica e esteriore, intrinsecamente politica.
Lavoro apparentemente senz’opera, improduttivo eppure massicciamente produttivo, poiché è da esso che deriva oggi la ricchezza, in cui il lavoratore si trasforma in un virtuoso della parola, in un manager del dialogo secondo il paradigma virniano: «Virtuoso è, per esempio, il pianista che ci offre un esecuzione memorabile di Schubert, o il ballerino provetto o l’oratore persuasivo, o l’insegnante mai noioso, o il prete dal sermone suggestivo»78. I virtuosi, cioè, gli artisti esecutori, sono coloro la cui attività trova il proprio compimento in se stessa, senza materializzarsi in un’opera durevole, in un prodotto che sopravviva all’esecuzione. Si tratta, allo stesso tempo, di un’attività che richiede necessariamente la presenza di uno spettatore, di un pubblico, di qualcuno che assista. Una vera e propria performance, intesa come esibizione che prevede, in mancanza di un oggetto concreto, la presenza e la testimonianza di altri.
Il concetto di virtuosismo sarebbe ripreso, anche in questo caso, da Marx e in particolare dalla questione decisamente spinosa della differenza tra lavoro produttivo e improduttivo. Secondo Marx, è improduttiva la forma di lavoro per cui non si investe capitale, ma si spende un reddito, e che di conseguenza non produce plusvalore. Si tratta, dunque, di un lavoro non funzionale all’autovalorizzazione del capitale. Di
conseguenza sono considerati improduttivi i lavori annoverabili tra i servizi non- separabili dalla soggettività che l’incarna e non materializzabili in merci autonome. Esempio di lavoro improduttivo è certamente il lavoro servile, per il quale si spende un reddito ma non si investe un capitale. Ma non solo: anche l’attività di una ballerina, un pianista, un professore rientra nella categoria di lavoro improduttivo.
Esistono, di conseguenza, due tipi di attività: da un lato quella che «ha per risultato merci che hanno un’esistenza indipendente dal produttore [...] libri, quadri, oggetti d’arte in generale in quanto distinti dalla prestazione artistica di chi li scrive, dipinge o crea»79; dall’altro lato, ci sono tutte quelle attività in cui il prodotto è inseparabile dall’atto del produrre, cioè quell’attività che non si oggettiva in merce.
Nella seconda categoria rientrano, appunto, i virtuosi. Secondo Marx, la prima categoria deve essere considerata lavoro produttivo in quanto produce plusvalore, il lavoro senza opera, invece, resiste a questa definizione:
«Certo, anche le prestazioni virtuosistiche possono, in linea di principio, produrre plusvalore: l’attività di un ballerino, di un pianista ecc., se organizzata capitalisticamente può essere fonte di profitto. Sennonché Marx è turbato dalla forte rassomiglianza tra l’attività dell’artista esecutore e le mansioni servili, le quali, benché ingrate e frustranti non producono plusvalore e, quindi, rientrano nell’ambito del lavoro improduttivo. Lavoro servile è quello per cui non si investe capitale, ma si spende un reddito (esempio: i servizi personali di un maggiordomo)»80.
I lavoratori virtuosi sono considerati da Marx lavoratori improduttivi, dal momento che se non c’è un prodotto finito non c’è plusvalore. Corrisponderebbero, dunque, a servizi personali. Quello virtuosistico è per Marx lavoro salariato ma non produttivo: «Il lavoro produttivo nella sua totalità fa sue le caratteristiche peculiari dell'artista esecutore. Nel postfordismo, chi produce plusvalore, si comporta – dal punto di vista strutturale beninteso – come un pianista, un ballerino ecc. e quindi come un uomo politico»81. In altre parole, è legittimo, secondo Virno, estendere la categoria di improduttivo a tutte le attività virtuosistiche, in cui il performer è inseparabile dalla sua opera: l’esibizione ha in se stessa il proprio compimento e si necessita la presenza di un pubblico.
La tesi è appunto questa: quando molte attività lavorative assumono la forma della prestazione virtuosistica, perché non producono opera (lavoro immateriale) ed esigono la presenza altrui e la relazione cooperativa con l’altro, possono acquisire caratteri affini sia al lavoro servile sia al lavoro improduttivo. Nel primo caso, il rapporto di lavoro
salariato acquisisce i caratteri della dipendenza personale, nel secondo l’espansione della socializzazione del processo lavorativo e l’inseparabilità tra lavoratore e prodotto rendono difficile la riproduzione del rapporto di capitale, e quindi l’estrazione di plusvalore dal lavoro. Il rapporto di lavoro assume le caratteristiche di dipendenza personale e il virtuosismo regredisce a lavoro servile. Accade dunque che tutto il lavoro produttivo assuma le sembianze del lavoro servile: l’inseparabilità del prodotto dall’atto del produrre innesca un processo di responsabilizzazione e di personalizzazione del rapporto di lavoro all’interno della produzione. L’affievolimento dei confini tra lavoro manuale e lavoro intellettuale fa sì che la prestazione lavorativa e la persona del lavoratore siano sempre meno distinguibili: è tutta la persona che mette in opera la prestazione, ed è essa nella sua interezza che viene sottoposta al rapporto di lavoro. Non è un caso che Virno si sofferma sulle affinità che vi sono tra questo tipo di definizione di lavoro e l'attività propriamente politica fino a una totale dissoluzione dei confini tra attività intellettuale, azione politica e lavoro. Ancora meglio: il lavoro postfordista assorbe le caratteristiche dell'azione politica, dal momento che le doti richieste dal tipo di lavoro postfordista sono esattamente le doti che secondo una certa tradizione appartengono alla politica. Ciò comporterebbe secondo Virno il collasso della tripartizione dell’esperienza umana in lavoro, politica e pensiero.
In un testo intitolato Virtuosismo e rivoluzione del 1994, Virno si interroga sulla paralisi dell’agire politico contemporaneo e sulla possibilità di costruire un programma di liberazione dal capitale a partire dall’analisi della ripartizione dell’esperienza umana in lavoro (o poiesi), azione politica (o prassi) e intelletto (o vita della mente). Questa suddivisione dell’esperienza umana, sulla falsariga di una tradizione che risale ad Aristotele, e riproposta da Arendt negli anni ’60 del Novecento, stabilisce la vicendevole esclusione degli ambiti: «Mentre si fa politica, non si produce, né si è assorti nella contemplazione intellettuale; quando si lavora, non si agisce politicamente esponendosi alla presenza altrui, né si partecipa della “vita della mente”; chi è dedito alla riflessione pura, si sottrae provvisoriamente al mondo delle apparenze, e quindi non agisce, ne produce»82. Il lavoro è agire strumentale finalizzato alla produzione di oggetti, che si svolge singolarmente e in cui non si pensa; l’intelletto è, invece, indole solitaria e improduttiva; la politica non produce e non pensa ma è pubblica, comporta, per usare l’espressione di Arendt, “l’esposizione agli occhi degli altri”. Ora, ciò che
sottolinea Virno, è che nel modo di produzione contemporaneo questa distinzione tra le tre dimensioni dell’agire umano viene meno: «Le frontiere consuete tra Intelletto, Lavoro e Azione, hanno ceduto dovunque si segnalano infiltrazioni e teste di ponte»83. Punto fondamentale è che il lavoro contemporaneo introietta molti caratteri che contraddistinguono l’esperienza della politica: la poiesi include in sé numerosi aspetti della prassi. Al contrario di Arendt, che interpreta la politica come imitazione delle regole del lavoro, Virno ritiene, invece, che sia il lavoro ad acquisire i connotati dell’azione politica. Nel lavoro contemporaneo sono presenti, quindi, tutti i caratteri del politico: l’esposizione agli occhi degli altri, la relazione con la presenza altrui, il virtuosismo, la mancanza di opera. Il capitalismo post-fordista, dunque, fa saltare in aria queste distinzioni: l’attività lavorativa è un’attività intellettiva e quindi virtuosa e quindi politica: «Si potrebbe dire che ogni azione politica è virtuosistica. Del virtuosismo essa condivide, infatti, la contingenza, l'assenza di un “prodotto finito”, l'immediata e inaggirabile relazione con la presenza altrui. Per converso ogni virtuosismo è
intrinsecamente politico»84; proprio come nella politica il compimento dell’azione è interno all’azione stessa. Di conseguenza, l’azione politica appare come una duplicazione superflua dell’esperienza lavorativa, di cui quest’ultima assorbe i caratteri. Ricalcando procedure e stilemi che già contraddistinguono il tempo di lavoro, e offrendone una replica inefficace, una rete comunicativa e un contenuto conoscitivo più poveri di quelli esperiti nell’attuale processo produttivo, l’azione politica appare qualcosa di poco desiderabile. Questo spiegherebbe, e non è cosa da poco, secondo Virno il motivo dell'attuale crisi politica dal momento che la politica viene sussunta dall'esperienza lavorativa: «L’inclusione nella produzione contemporanea di certi tratti strutturali della prassi politica aiuta a capire perché la moltitudine postfordista, sia, oggi, una moltitudine spoliticizzata. Vi è già troppa politica nel lavoro salariato (in quanto lavoro salariato) perché la politica come tale possa godere ancora di un'autonoma dignità»85. La politica diventerebbe qualcosa di poco desiderabile proprio nella misura in cui è dappertutto, in ogni momento dell’attività lavorativa. Attività lavorativa, ricordiamolo, che è diventata vita della mente. Nel momento in cui non esiste più un fuori dal lavoro, e il lavoro produttivo ha un’estensione naturale la politica conosce un’estensione totale che è paradossalmente pressoché nulla.
La cifra ultima del capitalismo post-fordista sta proprio nell’incapacità di discernere tra produzione e prassi, tra lavoro produttivo subordinato e tra competenze che fanno parte dell’ambito dell’azione politica; in questo senso il capitale si accaparra la performance del virtuoso ‒ l’attività del lavoratore equiparata a quella dell’artista esecutore ‒ e si concentra sull’atto del produrre piuttosto che sul prodotto. È in questo punto, tra l’altro, che comincia ad avere interesse la stessa vita del lavoratore e il suo essere sociale, nella misura in cui l’esecuzione virtuosistica ha bisogno di pubblico. Nel lavoro ritornano i caratteri della politica, i contenuti della socializzazione extralavorativa, un mondo della vita fatto di inclinazioni comuni, di opportunismo e cinismo nel destreggiarsi tra possibilità equivalenti tra lavori a tempo determinato. Anche il linguaggio verbale umano condivide le caratteristiche principali dell’attività politica: è ugualmente inoperoso e improduttivo, poiché non realizza prodotti e trova il suo fine solamente in se stesso; non è uno strumento impiegato in vista di un obiettivo; è pubblico poiché si nutre e crea interazioni. Il dialogo come l’attività politica, o meglio l’attività politica proprio in quanto dialogo e linguaggio produce relazioni. Parlare è un’azione – un’azione naturale – ma anche un azione politica. Dire con Aristotele che l’uomo è un animale politico o che è un animale dotato di linguaggio è, dunque, per Virno sostanzialmente la stessa cosa: l’animale che ha il linguaggio è già da sempre un animale politico.
Il lavoro che fa proprie tutte queste sue caratteristiche appartiene alla categoria di lavoro inoperoso e quindi improduttivo, oppure, ancora meglio, “servile” nel linguaggio marxiano. In effetti la trasformazione in senso linguistico-comunicativo del lavoro e la sua dimensione servile sono direttamente collegati, anzi è proprio la dimensione linguistica che scatena il processo di servilizzazione. Infatti, nel momento in cui la produzione fa appello a ciò che è comune a tutti gli uomini, ossia la facoltà di comunicare, il fatto-che-si-parla, accade tuttavia che la condivisione di una facoltà comune, universale e pubblica, quella che tra poco chiameremo general intellect, ha come risultato la gerarchizzazione dei rapporti lavorativi in termini personali, privati e di conseguenza servili. La tendenza è quindi quella di trasformare il lavoro in una prestazione lavorativa di tipo personale, che si svolge, cioè, nell’ambito delle relazioni tra le persone e la cui professionalità si definisce in termini di servizi alla persona.
Nel lavoro improduttivo prevale l’elemento mentale-culturale, ossia le competenze linguistiche, le capacità relazionali e affettive, immaginazioni e savoir faire, che caratterizzano la produzione intangibile e immateriale. Si tratta di un lavoro improduttivo perché non produce un oggetto materiale, una merce quantificabile, un prodotto vive e sopravvive alla prestazione lavorativa, bensì coincide con quella: il prodotto coincide con quell’attività, con la performance.
Secondo l’ipotesi di Virno, il dualismo e l’empasse marxiana è superata nell’epoca postfordista poiché tutto il lavoro, compreso quello produttivo, sussume le caratteristiche dell’artista esecutore. Il lavoro diventa un’esecuzione virtuosistica, una performance. Esso «richiede uno “spazio a struttura pubblica” e somiglia a un'esecuzione virtuosistica (senza opera)»86. Introiettando la comunicazione verbale e assumendo le caratteristiche di un’esecuzione virtuosistica il lavoratore diventa un virtuoso «un artista esecutore. […] infatti, il modello basilare del virtuosismo, l'esperienza che ne fonda il concetto, è l'attività del parlante. Non l'attività di un locutore sapiente e forbito, ma di qualsiasi locutore»87. Come abbiamo visto all’inizio del capitolo, ciò che emerge come requisito importante, è la semplice capacità di esprime dei suoni, delle frasi che manifestino la capacità del parlante:
«Il linguaggio verbale umano, non essendo un puro utensile o un complesso di segnali strumentali (caratteristiche queste che ineriscono semmai ai linguaggi degli animali non umani: si pensi alle api, ai segnali mediante cui ordinano l'approvvigionamento del cibo), ha il suo compimento in se stesso, non produce (almeno: non di regola, non necessariamente) un “oggetto” indipendente e dalla stessa esecuzione enunciativa»88.
Non esiste in questo senso un fine nel linguaggio che non sia compreso in se stesso. Per questo motivo si dice che «il linguaggio è “senza opera”»89. Puro virtuosismo.
La semplice enunciazione «è una prestazione virtuosistica. Ed è tale anche perché, ovviamente, è connessa (direttamente o indirettamente) alla presenza altrui. Il linguaggio presuppone e, insieme, istituisce sempre di nuovo lo “spazio a struttura pubblica” di cui parla Arendt»90. Parlare presuppone quindi sempre che ci sia qualcun altro dall’altra parte nella misura in cui il linguaggio struttura uno spazio pubblico, apre alla condivisione di significati, di simboli. Il linguaggio è in questo senso una relazione, un’attività relazionale molto vicina all’esibizione di un musicista, di un attore. La differenza è però comunque enorme, perché
«solo il parlante – a differenza del pianista, del ballerino, dell'attore – può fare a meno di un copione o di uno spartito. Il suo è un virtuosismo duplice: non solo non produce un'opera che sia distinguibile dall'esecuzione, ma non ha neanche un'opera alle proprie spalle, da attualizzare mediante l'esecuzione. Infatti, l'atto di parole si giova solamente della potenzialità della lingua, o meglio, della generica facoltà di linguaggio: non di un testo prefissato nei dettagli»91.
Ciò che fa il neoliberalismo è far divenire virtuosistica la produzione stessa in quanto si tratta della messa in opera dell’esperienza linguistica in quanto tale. Il neoliberalismo post-fordista riesce a valorizzare l’esperienza della capacità di parlare, mettendo a valore una caratteristica strutturale dell’essere umano. Vedremo nel prossimo capitolo che questa descrizione del lavoro come virtuosismo inoperoso aderisce, in maniera quasi sconvolgente, alla trasformazione professionale della filosofia che farà, lo anticipiamo, del consulente filosofico un virtuoso della parola. Come tale, se la filosofia è critica e linguaggio, allora la consulenza filosofica deve fare i conti necessariamente con la sua connaturata configurazione politica. Ma quale pensiero può resistere indenne alla sussunzione di ogni forma di critica, di linguaggio, di dialogo, di relazione all’interno del processo di produzione economico vigente? Sembra essere, dunque, inesorabile la sua cattura. La filosofia non appare, infatti, estranea, è questa l’ipotesi, alla trasformazione virtuosistica del lavoro. Anche i filosofi, come i lavoratori dei call
centers sono dei lavoratori virtuosi che producono e consumano linguaggio.
Lo spartito che i virtuosi lavoratori postfordisti eseguono nel processo di produzione si chiama general intellect: l’Intelletto in quanto intelletto pubblico, sapere sociale complessivo, comune competenza linguistica; ossia l’intelletto in quanto generica facoltà umana. Se l’unico modello base del virtuosismo è il non-modello dell’improvvisazione, quindi la pura flessibilità, non-specializzazione e potenzialità dell’atto del parlare ciò si traduce in pensiero astratto e sociale: l’intellettualità di massa. Ora, il general intellect è frutto di una cooperazione sociale (ma in qualche modo pre- sociale) che va ben al di là di quella prettamente lavorativa, una specie di patrimonio collettivo, un possesso immateriale frutto della partecipazione comune alla vita della mente. Si tratta, insomma, della condivisione di attitudini comunicative e cognitive tipiche dell’animale umano. In questo senso si deve specificare pre-sociale, perché ha a che fare con “ciò che abbiamo alle spalle”, come spesso dice Virno, con ciò che tutti gli uomini condividono originariamente e prima di qualsiasi socialità possibile. Ancora
meglio: è proprio a partire da questo fondo comune che qualsiasi socialità è possibile. Il
general intellect «è il nome che spetta all’ordinaria facoltà umana di pensare con le
parole, allorché essa diventa la principale forza produttiva del capitalismo maturo»92. Virno parla, infatti, di lavoratori cognitivi «la cui “natura comune” è il general intellect. Costoro in quanto “attualità ultime” del cervello sociale, sono individui individuati. [...] L’individuazione dei lavoratori cognitivi deve riguardare, in primo luogo, il loro essere cognitivi»93. Il lavoratore odierno, allora, è un lavoratore cognitivo che mette a disposizione la propria mente-lavoro. Tutto il lavoro oggi è diventato manuale e intellettuale; è diventato lavoro di tipo cognitivo. Qualsiasi forma di lavoro trasformandosi in una prestazione lavorativa implica creatività, capacità di gestire imprevisti, utilizzo di facoltà mentali. I lavoratori, di conseguenza, sono lavoratori cognitivi, knowledge workers94. Questo spiega anche perché il valore del lavoro è difficilmente misurabile in base al tempo, mentre sempre di più viene valutato in base alle competenze e ai risultati. Il valore generato dal lavoro cognitivo non dipende da un dato oggettivo (costo dei fattori produttivi, tempo impiegato), ma dal significato soggettivo che chi utilizza la conoscenza prodotta le assegna.
A corroborare questa tesi contribuirebbe il caratteristico aspetto transindividuale della mente, termine con il quale Virno intende, non i caratteri che accomunano tra loro gli individui, ma ciò che attiene alla relazione tra individui: «Nel singolo, gli aspetti transindividuali della facoltà del linguaggio, ossia della natura umana, si presentano inevitabilmente come incompletezza, lacuna, potenzialità. Ebbene questi caratteri difettivi, e però innati, segnalano che la vita della mente è fin dall’inizio, una vita pubblica»95. Seguendo la logica marxiana, infatti, il rapporto tra i singoli individui non interviene in un secondo momento, ma è già insito nella mente del singolo individuo: «Il carattere esteriore, sociale, collettivo che compete all’attività intellettuale […] diventa, la vera molla della produzione della ricchezza»96.
Non a caso un altro termine per indicare l’intelletto generale è anche cooperazione, altro termine marxiano, ripreso in diversi contesti da Virno. In effetti, ciò su cui bisogna insistere è proprio il fatto che il post-fordismo fa saltare in aria la separazione binomica tra lavorativo ed extra-lavorativo, proprio perché fa diventare produttivo tutto ciò che concerne l’ambito non lavorativo. Dire che la cooperazione produce plusvalore significa che tutta una socializzazione transindividuale e “metropolitana”, tutti i comportamenti
collettivi extralavorativi diventano mansioni, compiti, diventano importanti per la valorizzazione del capitale. È importante che la forza lavoro dimostri di saper fare delle cose che non ha imparato dal capitale, ma che ha appreso vivendo. Per saper lavorare, allora, bisogna saper vivere.