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Nel saggio intorno alla questione Che cos’è l’illuminismo? è contenuto un progetto ambizioso: il tentativo di fondare un’altra filosofia o una filosofia altra, mediante la formulazione del concetto di attitudine critica. La filosofia diviene, allora, critica; vale a dire, un modo di fare filosofia, un modo per le soggettività di “divenire filosofia”, assumendo un cambiamento di postura e di atteggiamento nei confronti del potere, il quale per Foucault è sempre una relazione, un modo di gestire le condotte, quindi, una questione di governo.

Con Kant, in effetti, secondo Foucault, la critica diventa una postura nei confronti del governo; o, ancora meglio, la filosofia critica esprime la volontà e anche la necessità di non essere governati mediante formule di assoggettamento. Esprime, cioè, la volontà di una resistenza, secondo il linguaggio foucaultiano, e limitazione al potere. Nel momento in cui il governo diviene gestione dei comportamenti la filosofia diviene critica, ossia un comportamento specifico, un modo di comportarsi, in relazione a un modo specifico di governo. È il caso di sottolineare, in questo punto, per cominciare a far risuonare delle assonanze e, soprattutto, delle dissonanze, che questa ammissione della natura indubitabilmente critica e ontologicamente pratica della filosofia potrebbe essere condivisa dai teorici della consulenza filosofica, per i quali la filosofia è, senza dubbio, atteggiamento critico. La differenza, allora, si gioca esattamente sullo statuto della critica (di che tipo di critica si parla?) e evidentemente sul suo rapporto col potere. La volontà di non essere governati in questo modo, e di farlo con coraggio e convinzione, corrisponde esattamente a ciò che Kant chiama l’uscita dallo statuto di minorità. La critica è, invece, l’altro nome dell’illuminismo che si configura, appunto, come un movimento di trasformazione e cambiamento.

Secondo le parole di Kant, come è noto, la minorità è una situazione di sudditanza caratterizzata dall’«incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro»29, cui ci si affida in qualità di “tutore”. La minorità, dunque, rappresenta «un certo stato della nostra volontà che ci fa accettare l'autorità di qualcun altro per condurci nei campi in cui conviene fare uso della ragione»30. Foucault legge questa condizione come una, o meglio, la situazione di assoggettamento che dipende da una cattiva declinazione del rapporto tra volontà, autorità e ragione e che rende di conseguenza inabili alla

capacità di auto-condursi. Capacità, quest'ultima, legata direttamente alla mancanza di decisione e di coraggio.

Si tratta di un punto estremamente interessante, su cui Foucault si sofferma con attenzione speciale perché ci troviamo, qui, di fronte al rapporto tra il potere e i soggetti e che nomina, sotto un'altra luce, come vedremo, il rapporto cruciale tra ragione ed obbedienza. A questo livello, in effetti, Foucault sta pensando la minorità come una forma di de-governamentalità, uno stato di sotto-conduzione che non ha nulla di naturale, politico e giuridico, ma è il frutto di una particolare flessione del vincolo che lega i soggetti al potere. È curioso, in effetti, che in questo caso l’incapacità di governarsi, e di avere un qualsiasi tipo di rapporto con il governo, coincida con l’incapacità di utilizzare in maniera retta la ragione. In qualche modo, vedremo tra poco come, il giusto governo e la giusta ragione per Kant coincidono. Se non fosse così, infatti, Kant non insisterebbe tanto sul fatto che è solamente per pigrizia, viltà, indolenza, comodità che gli uomini, perfettamente capaci di dirigere se stessi, non prendono decisioni intorno alla propria vita.

La necessità di dover sgomberare il campo da tutte le possibili deviazioni alla corretta definizione di minorità è intimamente legata alla necessità di sottolinearne il carattere di non-necessità. Essa ha sempre un valore di libertà, dal momento che si tratta di una scelta che può essere continuamente revocata. La minorità è sempre da questo punto di vista l'assunzione della responsabilità della propria condizione. Nel ribadire l'estraneità della natura della minorità allo status di dipendenza naturale, giuridica e politica, Kant la starebbe ponendo, secondo Foucault, in un rapporto decisamente originale con l'autorità. L'autorità qui, infatti, non avrebbe nulla a che fare con il potere o per meglio dire con l'atto di dominio o di sopruso di alcuni su altri con il quale vengono dirette le coscienze. Coerentemente con il fatto che l'uscita dalla minorità è un atto di libertà, o di liberazione, la minorità rappresenta una scelta, le cui cause possono essere diverse e comunque secondarie rispetto al fatto stesso. L'atto di posizionamento nei confronti di un'autorità, la minorità, questa specie di indolenza spirituale, apre lo spazio dell'eterodirezione.

L'eterodirezione, infatti, descrive un modo particolare, del tutto temporaneo, reversibile e dettato da ragioni del tutto contingenti, una certa modalità di far giocare l'autorità con la gestione di se stessi. All'incrocio della delimitazione tra il governo di sé come

autonomia della ragione e il governo degli altri come necessità dell’obbedienza affiora lo stato di minorità.

Il funzionamento dello stato di minorità, in effetti, procede sulla base di un misconoscimento dei concetti di ragione ed obbedienza. Su questa cattiva comprensione si fonderebbe, a sua volta, la confusione tra la natura privata e la natura pubblica della ragione. Ristabilire l'ordine e il corretto posizionamento delle due categorie significa riconfigurare lo spazio di governo, la sua modalità e le sue strategie. Obbedienza e ragionamento, infatti, sono considerati due termini contrapposti che funzionano in modo inversamente proporzionale: laddove c'è obbedienza vi è assenza di ragionamento31. La mancanza dell'operazione della ragione conduce inevitabilmente alla cieca e ostinata obbedienza. È vero anche il contrario, allora: la disobbedienza sarebbe un atto sempre in qualche modo ragionevole. L'uso corretto del procedimento della ragione comporta necessariamente una mal disposizione all'obbedienza.

Per fare ciò il discrimine tra obbedienza e ragionamento deve essere approfondito, indagando i due campi specifici in cui la ragione è effettivamente applicata e che Kant chiama uso pubblico e uso privato della ragione. Come spiega bene Foucault, nel distinguere tra privato e pubblico, Kant non intende due diversi campi di attività: «Attribuisce la caratteristica di “privato” non a un certo ambito di pratiche, ma precisamente a un certo uso delle nostre facoltà. E chiama “pubblico” non un dominio preciso di attività, ma una certa maniera di far funzionare e di utilizzare le facoltà che ci appartengono»32. Dalla confusione tra l'uso privato e l'uso pubblico delle ragione nasce ancora una volta lo stato di minorità come incapacità di conduzione.

Se l'uso privato della facoltà raziocinante si applica alla sfera delle attività professionali, delle attività pubbliche in cui si manifesta l'appartenenza ad un corpo politico e in cui le soggettività non solo altro che «i membri della macchina governativa»33; l'uso pubblico appartiene alla sfera universale della ragione. L'uso pubblico «è precisamente l'uso che noi facciamo del nostro intelletto e delle nostre facoltà nella misura in cui ci collochiamo in un elemento universale dove possiamo figurare come soggetti universali»34. Il campo della pubblicità della ragione appartiene all'universalità del raziocinio; capacità critica che tutti i soggetti spogliati della loro individualità particolaristica possiedono. La facoltà pubblica della ragione si configura, chiaramente, come capacità critica: «Vi è minorità ogni volta che si sovrappone e si fa coincidere il

principio dell'obbedienza e l'assenza di ragionamento, e non soltanto, questo è certo, l'uso privato del nostro intelletto e il suo uso pubblico»35.

Esiste un’obbedienza necessaria e “funzionale” da cui, secondo il Kant di Foucault, non si può prescindere poiché riguarda il coinvolgimento delle soggettività investite da un ruolo ed una posizione definita. Obbedienza necessaria, ragionamento non richiesto: «Kant non chiede che si pratichi un'obbedienza cieca e stupida; ma che si faccia del proprio uso della ragione un uso adatto a queste circostanze determinate; e la ragione deve allora sottomettersi a questi fini particolari. Non ci può dunque essere qui un uso libero della ragione»36. Si tratta di una ragione sottomessa a dei fini particolari che risponde a un particolare utile.

La capacità di ragionare, invece, ha un uso legittimo quando assume una dimensione universale, dimensione che riguarda tutta l'umanità, in cui obbedire non è più lecito né richiesto. Nella dimensione universale della ragione non c'è alcuna autorità a cui obbedire se non quella della ragione stessa.

L'uomo che si trova in uno stato di minorità, di contro, si trova in una condizione bizzarra: obbedisce in ogni caso, sia nella sfera privata sia in quella pubblica, e di conseguenza non ragiona. Uscire dallo stato di minorità significa, allora, disgiungere il rapporto tra ragione e obbedienza ponendoli nella giusta dimensione: «Si fa valere l'obbedienza nell'uso privato e la libertà totale e assoluta di ragionamento nell'uso pubblico»37. Il movimento di uscita che mette in atto l'illuminismo consiste esattamente nell'assegnare alla libertà di pensiero la sua forma pubblica e universale e nel confinare l'obbedienza nella sfera privata, definita all'interno del corpo della società: «L’Aufklärung non è dunque solo il processo attraverso il quale gli individui si garantiranno la loro libertà personale del pensiero. C’è Aufklärung quando c'è una superposizione dell'uso universale, dell'uso libero e dell'uso pubblico della ragione»38. Lo stato di a-criticità prodotto dalla minorità fa emergere il rapporto tra i limiti da assegnare alla riflessione critica e l'autonomizzazione prodotta dal processo illuministico: uscire dalla minorità ed esercitare l'attività critica sono due operazioni collegate. Grazie all'avvio del processo di uscita dalla minorità inizia la storia dell'attività critica, innanzitutto e soprattutto come definizione dei perimetri conoscitivi all'interno dei quali è possibile esercitarla. La filosofia per la prima volta, qui, si interroga sul momento in cui la ragione appare sotto la sua forma maggiore e senza

tutela: «La funzione della filosofia del XIX secolo consiste allora nel domandarsi che cos'è questo momento in cui la ragione accede all'autonomia»39. L'enorme portata del kantismo ha nell'interrogazione sulle condizioni di possibilità entro cui la ragione si manifesta, piuttosto che sulla natura della ragione, il suo aspetto decisivo. L'acquisizione di uno stato di maggiore età della ragione relativizza la sua portata assolutistica trasformandola in attività critica che mette in questione il ragionare stesso. Ragionare sul ragionare, questa operazione che la ragione fa su se stessa, contrassegna la sua trasformazione in senso storico, legata a dei limiti temporali, completamente incastrata nella contingenza nel suo tempo e nella finitezza del pensatore. Secondo la lettura foucaultiana la critica e l’Aufklärung sono due modi di esprimere la stessa nozione: nella critica dei limiti di un retto ragionare affiora la premessa indispensabile alla critica illuministica – l'accesso all'autonomia o il coraggio del dissenso.

Nel sapere aude! (abbi il coraggio di conoscere) illuministico è contenuta: «Una consegna che diamo a noi stessi e che proponiamo agli altri»40. Questo invito, che è anche, o forse soprattutto, un compito, può, tuttavia essere letto secondo due direttrici, o, per lo meno, nasconde una possibilità inquietante. Da un lato, infatti, ragionare, imparare a pensare è un compito, una vera e propria azione che permette il cambiamento di condizione e il raggiungimento della dimensione adulta. Il pensare, in fondo, molto semplicemente, dice Kant e Foucault con lui, è in grado di produrre una trasformazione all’interno del soggetto (del pensare); pensare è un atteggiamento che si assume, che si apprende, in definitiva un modo di essere.

Per questo motivo, laddove la minorità rinvia a una capitolazione positiva e attiva dovuta alla pigrizia o alla servitù e a una presa di distanza dall'autonomia e dalle sue esigenze, la maggiore età crea un soggetto che struttura il suo rapporto con la verità nella forma del coraggio, che riconfigura il proprio modo di essere e di comportarsi. Se la minorità significa rinunciare al governo di sé attraverso il governo degli altri, la maggiore età è come la critica: una certa virtù del soggetto. Pensare, allora, non significa acquisire nuovamente conoscenze o rettificare gli errori, ma essere diversamente e assumersi la responsabilità, il rischio e il coraggio di mettere fine allo stato di minorità41. Si tratta, dunque, di una certa disposizione, un'attitudine mentale e pratica nei confronti delle relazioni di governo in cui si è collocati. Coraggio e decisione, attitudini di cui ognuno di noi è responsabile, rivelano un rapporto del

soggetto a se stesso, qualcosa che accade nel soggetto. Accadendo nel soggetto la critica schiude una nuova sfera etico-politico nella misura in cui decidersi per un altro governo significa non accettarsi, re-inventarsi, ri-elaborando se stessi attraverso l'invenzione e la sperimentazione di nuovi modi di soggettivazione inediti. Vi è qui il tentativo di pensare uno spazio di autonomia, cioè, un’altra forma di governo (di se stessi), per creare nuovi modi di vita grazie all’esperienza filosofica. Ponendo il coraggio di sapere all'interno del bagaglio morale dell'uomo moderno, Kant fa del sapere una questione morale, della verità un’operazione coraggiosa, e della ragione una decisione politica. Il rapporto del soggetto con la verità non si dà in termini di conoscenza (determinazione dei criteri di verità o una grammatica della conoscenza) ma nei termini di obbligazione e coraggio. Si tratta di fare giocare un soggetto che costituisce il suo rapporto con la verità a partire da un coraggio etico piuttosto che da un rigore epistemologico.

Ora, se tutto ciò è vero, si schiude in questo punto un problema cruciale. Si potrebbe sintetizzarlo in questa maniera: l’interpretazione foucaultiana dell’articolo kantiano conduce a una legittimazione razionale del potere, ancora meglio, di un determinato governo che proprio perché “pensato”, “ragionato”, diventa inevitabilmente giusto. Si tratta allora di sapere se sia sempre legittima un’obbedienza riconosciuta come ragionevole. Che livello di obbedienza si raggiunge, allora, quando, per giustificarla, si ricorre all’uso critico della ragione? Ciò che Kant fa è, dunque, fondare razionalmente la giustificazione all’obbedienza.

A partire dalla domanda sulla garanzia dell'uso pubblico della ragione si evince, in effetti, che l’unica, vera attività politica per eccellenza sia il ragionare nella misura in cui pone gli uomini nella condizione pubblica del pensiero. Se, infatti, quelle che Kant chiama le attività private corrispondono alla sfera lavorativa e non richiedono un coinvolgimento razionale da parte del soggetto (il funzionario lavora e non pensa), è solamente l’attività pubblica, cioè, l’atto del pensare, che pone gli uomini nella condizione di soggetti universali. Il pensiero si configura, allora, come l’unica esperienza comune a chiunque: tutti gli uomini pensano, tutti gli uomini possiedono le condizioni per ragionare. Per Kant la ragione si configura come un'esperienza che ridisegna la caratura etica del soggetto coinvolto; è un'esperienza coraggiosa. Nella conferenza del '78 a tutto ciò viene dato il nome di attitudine critica; in quel testo, in effetti, c'è ancora una totale coincidenza tra il senso che viene dato all'attitudine critica e

la definizione data da Kant dell'illuminismo come uscita dallo stato di minorità nella quale un’autorità esterna mantiene l'umanità. Umanità che è di conseguenza incapace di servirsi della sua razionalità al di fuori di una relazione di potere. Vi è una totale aderenza tra la riflessione critica e l'autonomizzazione prodotta dal processo illuministico: uscire dalla minorità ed esercitare l'attività critica sono due operazioni interconnesse. Uscire dalla minorità significa imparare ad usare l'attività critica, ma usare l'attività critica significa conoscere i limiti e le condizioni di possibilità entro le quali è possibile esercitarla. Per Kant, ribadiamolo, l'attività critica non è assoluta, illimitata e senza freni. Il coraggio di sapere consisterebbe nel riconoscere i limiti della conoscenza che ha come fine la conquista dell'autonomia: «Conosci bene fino a che punto puoi conoscere? Ragiona quanto vuoi, ma sai bene fino a che punto puoi ragionare senza pericolo?»42. Nell'idea che ci facciamo della conoscenza e dei suoi limiti ne va della nostra libertà. Quindi, in quel testo, l'illuminismo è, dovrebbe essere chiaro, l'esempio di un'attitudine pratica di resistenza a un potere governamentale. Vi è tuttavia un salto logico: «Come può accadere che la razionalizzazione conduca al furore del potere?»43. Se utilizzare la propria ragione è un atto di coraggio, e ciò conduce al raggiungimento della propria autonomia, come tutto ciò si sposa con l'inevitabile ammissione all'obbedienza?

Dietro il tentativo di universalizzazione della ragione vi sarebbe un'aspirazione a una pubblicizzazione della ragione che ingaggia un processo di soggettivazione a partire dal presupposto della necessità ad un'obbedienza originaria. Esiste un solo padrone a cui si deve obbedienza e si chiama ragione44. Il compito è quindi «sapere come l'uso della ragione può prendere la forma pubblica che gli è necessaria, come l'audacia del sapere può esercitarsi in pieno giorno, tanto che gli individui obbediranno il più esattamente possibile»45. L'audacia del sapere condurrà necessariamente alla consapevolezza della obbligatorietà dell'obbedienza: «Invece di far dire ad un altro “obbedite”, è in questo momento qui, quando si sarà fatto della propria conoscenza un'idea giusta, che si potrà scoprire il principio dell'autonomia e che non sarà più da intendere l'obbedite; o piuttosto che l'obbedite sarà fondato sull'autonomia stessa»46. L'obbedienza, tuttavia, è fondato sul quel coraggio della disobbedienza che crea la forma di una soggettività autonoma. L'autonomia a sua volta scava lo spazio di un'autogestione finalmente ragionata e razionale. Se l'immensa portata della critica è quella di aver rifondato

l'autonomia della ragione esattamente sui suoi limiti, allora si assiste anche a una rifondazione del principio del governo nel senso di un auto-governo razionale. In questo senso, l'illuminismo dà vita a una nuova razionalità governamentale fondata su un'obbedienza ragionata. L'illuminismo insegnerebbe, allora, l'autonomia dell'obbedienza: l'auto-obbedienza. Se il solo sovrano a cui devo obbedienza è la ragione, allora, devo obbedire solo alla mia ragione, e dunque a me stesso.

E ciò perché l’Aufklärung, come l'età della pubblicità della ragione, inaugura un nuovo dispositivo di governo portato avanti dal cosiddetto dispotismo illuminato. Illuminato è il monarca che comprende più di ogni altro che è necessario non interferire e lasciare liberi «ognuno di valersi della sua propria ragione in tutto ciò che è affare di coscienza»47. Illuminato è il sovrano che comprende che l'ordinamento civile e il potere non hanno nulla da temere dalla libertà:

«Solo lasciando crescere il più possibile, per l'appunto, questa libertà di pensiero pubblico, solo aprendo, di conseguenza, questa dimensione libera ed autonoma dell'universale all'uso dell'intelletto, questo stesso intelletto mostrerà, in maniera sempre più chiara ed evidente, che la necessità di obbedire si impone nell'ordine della società civile. Più libertà lascerete al pensiero, più sarete sicuri che lo spirito del popolo sarà addestrato all'obbedienza»48.

Ciò che appare paradossale, allora, è che questa ragione, in quanto attitudine critica sempre sporta sull'attualizzazione di un altro modo di governarsi, finisce per estendere in maniera parossistica quell'uso pubblico, di cui parla Kant, facendolo coincidere con la legittimazione, l'unica possibile, della natura del potere. In questo breve testo vi sarebbe l'arcano della razionalità del potere, che ha esattamente nella razionalità il suo potere.

Foucault non ha dubbi, quindi, quando dice che il coraggio di sapere, il sapere aude invocato da Kant, serve a riconoscere i limiti della conoscenza; allo stesso modo l'autonomia non si identifica con l'opposizione all'obbedienza al sovrano. Se lo stato di minorità si caratterizza per l'espressione: «Ubbidite, non ragionate!»49; lo stato di maggiore età si traduce in un «obbedite, e potrete ragionare fin quanto vorrete»50. Si tratta in fondo della libertà di coscienza per come è intesa a partire dal XVI secolo: «Il diritto di pensare come si vuole, purché si obbedisca come si deve»51. Nello spazio aperto dalla filosofia critica come virtù e teoria del libero pensiero affiora «il contratto