Nonostante l’elezione diretta dei consigli regionali e la disciplina della finanza regionale e malgrado l’approvazione dei quindici statuti delle regioni ad autonomia ordinaria, non si era ancora esaurita l’opera di attuazione dell’ordinamento regionale. Per adempiere alle previsioni dell’VIII disp. trans. e fin. cost., si rendeva anche necessario procedere al trasferimento delle potestà amministrative dallo stato alle regioni, assegnando loro, contestualmente, l’opportuna provvista finanziaria e di personale.
Vi è da precisare che, se da un lato, per i primi ventidue anni di vita dell’ordinamento repubblicano, le regioni ad autonomia ordinaria erano state solo astrattamente previste nella Carta costituzionale, senza trovare in concreto una reale attuazione, dall’altro lato, le prime quattro regioni ad autonomia speciale esistevano concretamente già dalla nascita della Repubblica. A queste si era poi aggiunta anche il Friuli‐Venezia Giulia nel 1963, a seguito del Memorandum d’intesa del
1954, che aveva avviato il contenzioso aperto fra l’Italia e l’Jugoslavia verso una pacifica risoluzione.
Il primo banco di prova del trasferimento delle funzioni amministrative dallo stato alle regioni si ebbe proprio con riguardo alle cinque regioni ad autonomia speciale.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, infatti, furono emanati i decreti governativi attuativi delle norme previste dagli statuti speciali.
Il particolare procedimento attuativo di tali statuti, che avrebbe comportato il trasferimento delle potestà amministrative in capo alle regioni, prevedeva l’emanazione di decreti legislativi governativi, previo parere da acquisirsi presso un’apposita commissione paritetica, costituita da esperti, nominati dal governo e dalla regione interessata.
Posto che l’atipico potere di normazione primaria del governo trovava fondamento esclusivamente nella natura stessa degli statuti speciali, che si ponevano quali fonti di rango costituzionale; posto che negli statuti stessi non venivano determinati i principi e i criteri direttivi, contrariamente previsti dall’art. 76 cost. e posto infine che la materia da attuare risultava spesso sommariamente abbozzata, il governo, nell’esercizio di questo peculiare potere legislativo, procedette con ampia libertà di interpretazione, nonostante la prevista acquisizione preventiva del parere della citata commissione paritetica.
La libertà di interpretazione fu proprio l’elemento che, in nome di non meglio precisati interessi nazionali, permise al governo di operare vistosi “ritagli” all’interno delle materie astrattamente riservate alla competenza delle regioni ad autonomia speciale, senza dunque
operare, in taluni settori di dette materie, il previsto trasferimento di funzioni amministrative, che rimasero, pertanto, in capo allo stato.
Accadde quindi che, in virtù dell’allora vigente principio del parallelismo fra la funzione legislativa e la funzione amministrativa, furono anche precluse alle regioni ad autonomia speciale le potestà legislative negli stessi settori, relativamente ai quali non era stato effettuato il previsto trasferimento delle funzioni amministrative, pur astrattamente competendo a tali regioni le intere materie.
Come se ciò non bastasse, ai “ritagli” operati all’interno delle materie, si aggiunsero anche i lunghi periodi di inattuazione di alcune norme statutarie, dovuti essenzialmente all’inerzia governativa.
Ben si comprende, allora, la volontà politica dell’epoca: in un contesto in cui scientemente si ritardava il decollo dell’autonomia ordinaria, parallelamente si comprimeva l’ambito di applicazione dell’autonomia speciale.
Sul fronte delle regioni ad autonomia ordinaria, l’art. 17 della l. 281/1970 aveva delegato il governo ad emanare «decreti aventi valore di legge ordinaria per regolare, simultaneamente per tutte le regioni, il passaggio alle regioni, ai sensi della disposizione VIII transitoria della Costituzione, delle funzioni ad esse attribuite dall'articolo 117 della Costituzione e del relativo personale dipendente dallo stato».
In attuazione della delega suddetta, il 14 e il 15 gennaio 1972 il governo emanò ben undici decreti, ricadenti sotto il nome di prima regionalizzazione, con i quali trasferì le funzioni amministrative alle quindici regioni ad autonomia ordinaria, operando, tuttavia, la stessa
tecnica dei “ritagli” già attuata nei confronti delle regioni ad autonomia speciale, nonostante il legislatore delegante avesse chiaramente posto il criterio direttivo che «il trasferimento delle funzioni statali alle regioni avverrà per settori organici di materie».
Come se ciò non fosso stato, di per sé, già sufficiente a menomare l’autonomia amministrativa delle regioni a statuto ordinario e, secondo la perversa «logica del parallelismo capovolto»10, anche la loro autonomia legislativa nelle materie di propria competenza elencate all’art. 117 cost., lo stesso legislatore delegante aveva previsto all’art. 17, comma 1, lettera a), della l. 281/1970 che «Nelle stesse materie resta riservata allo stato la funzione di indirizzo e coordinamento delle attività delle regioni che attengono ad esigenze di carattere unitario, anche con riferimento agli obiettivi del programma economico nazionale ed agli impegni derivanti dagli obblighi internazionali».
L’intero periodo sopra citato, che manteneva in capo allo stato una «funzione di indirizzo e coordinamento» sulle materie di competenza regionale, suscettibile comunque di essere gestita ad libitum, in ossequio a non meglio specificate «esigenze di carattere unitario», fu soppresso solamente 27 anni più tardi dall’art. 8 della l.59/1997, meglio conosciuta con il nome di legge Bassanini I, durante gli anni di piena gestazione della riforma costituzionale, che entrò in vigore fra il 1999 e il 2001.
Pur con qualche tentennamento, la Corte Costituzionale mostrò nel complesso di condividere la volontà espressa dal legislatore statale
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e ne confermò la piena validità, mediante un criterio storico interpretativo, che definiva i contenuti e l’estensione delle materie, alla luce della legislazione statale previgente.
Si trattò, tuttavia, di un criterio assai discusso in dottrina, essendo revocata in dubbio la validità definitoria di norme giuridiche poste in essere in periodi antecedenti al contesto storico che vide nascere la Costituzione, ovvero nel periodo liberale e in quello fascista11.
I grossi “ritagli” operati con i decreti delegati del 1972, oltre a mantenere in vita numerose strutture burocratiche statali di fianco ai nuovi uffici regionali12, ebbero anche l’effetto di trasferire in capo alle regioni un così limitato numero di funzioni amministrative, da far giudicare l’intero trasferimento di funzioni del tutto insoddisfacente, se non addirittura incompleto.
Mediante la l. 382/1975, il parlamento ritenne quindi necessario fornire al governo una nuova delega «a completare il trasferimento delle funzioni amministrative, considerate per settori organici, inerenti alle materie elencate nell’articolo 117 della Costituzione, […] anche mediante le necessarie modifiche ed integrazioni ai decreti delegati emanati in attuazione dell'articolo 17 della legge 16 maggio 1970, n. 281».
Il parlamento, infine, consapevole dei “ritagli” già operati in precedenza dal governo, “spinse” quest’ultimo, con la medesima l. 382/1975, «a delegare, a norma dell'articolo 118, secondo comma, della 11 Cfr. T. MARTINES, A. RUGGERI, C. SALAZAR, Lineamenti di diritto regionale cit., p. 221. 12 Cfr. P. SANTINELLO, cap. 3, par. 6. Segue: il trasferimento delle funzioni in R. BIN, G. FALCON, a cura di, Diritto regionale cit., Bologna, Il Mulino, 2012, p. 81.
Costituzione, le funzioni amministrative necessarie per rendere possibile l'esercizio organico da parte delle regioni delle funzioni trasferite o già delegate».
In attuazione della delega ricevuta, il governo emanò il d.P.R. 616/1977. Contestualmente emanò anche il d.P.R. 617/1977, con cui dispose la soppressione degli uffici centrali e periferici, le cui funzioni amministrative erano state oggetto di trasferimento alle regioni e il d.P.R. 618/1977, con cui dispose l’istituzione dei ruoli unici degli impiegati e degli operai degli uffici soppressi, per una loro pronta ricollocazione presso altre pubbliche amministrazioni. I suddetti tre decreti presero complessivamente il nome di seconda regionalizzazione. A differenza degli undici decreti emanati nel gennaio del 1972, il d.P.R. 616/1977 si attenne effettivamente ai principi e ai criteri direttivi, imposti dalla legge delega.
A tale decreto, inoltre, viene tributato il merito in dottrina13 di aver svolto un’effettiva opera di sistematizzazione delle funzioni amministrative oggetto di trasferimento alle regioni, al punto tale da ispirare ancora il legislatore ordinario durante la terza regionalizzazione, avvenuta sul finire degli anni Novanta ad opera della l. 59/1997, meglio conosciuta come legge Bassanini I.
Infatti, al fine di ottenere un più compiuto trasferimento di funzioni amministrative, le materie rientranti nella competenza legislativa concorrente dello stato e delle regioni, elencate all’art. 117 cost., furono raggruppate in quattro settori organici: ordinamento e
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organizzazione amministrativa, servizi sociali, sviluppo economico e assetto e utilizzazione del territorio. Quest’ultimo settore, in particolare, riguardava l’uso del territorio in tutti i suoi aspetti, non soltanto conoscitivi e normativi, ma anche gestionali, concernenti lo sfruttamento del suolo, nonché ambientali.
L’accorpamento in settori organici delle materie elencate all’art.117 cost. consentì infine di associare al trasferimento delle funzioni amministrative anche l’esercizio per delega di determinate funzioni statali, in modo tale da permettere alle regioni un assolvimento relativamente completo delle funzioni pubbliche di rispettiva pertinenza.
La seconda regionalizzazione del 1977, quindi, si concluse con un trasferimento di funzioni amministrative senz’altro più soddisfacente rispetto alla prima regionalizzazione del 1972, con un effettivo ampliamento degli ambiti di competenza delle regioni.
Tuttavia, se da un punto di vista prettamente quantitativo l’espansione delle funzioni amministrative e – per la logica del parallelismo capovolto – legislative risultò senz’altro indubitabile, da un punto di vista qualitativo le politiche delle singole regioni non riuscirono mai a differenziarsi fino in fondo dalle scelte politiche statali. Ciò fu dovuto senz’altro alla pervasività della normativa statale, la quale, nelle materie ricadenti sotto la potestà legislativa concorrente, il più delle volte non si limitava a dettare semplicemente principi e criteri direttivi, ma si prodigava anche di fornire una disciplina globale della materia così compiuta e autoapplicativa, da lasciare ben poco margine
di scelta all’autonomia legislativa regionale.
Un altro forte limite all’autonomia regionale fu senz’altro imposto dalla discutibile «funzione di indirizzo e coordinamento delle attività delle regioni», che il legislatore statale si era riservato ad libitum con l’art. 17 della l. 281/1970, in nome di non meglio specificate «esigenze di carattere unitario».
Un ultimo limite all’autonomia politica delle regioni fu infine imposto dallo stesso sistema politico italiano, che si caratterizzava per una forte centralizzazione dei partiti.
Quest’ultima, infatti, risolvendosi nella mancanza di un ceto politico regionale realmente distinto dal ceto politico nazionale, portava di fatto le regioni a relegare la loro autonomia ad un piano di pura astrattezza, dal momento che si ritrovavano ad attuare sul proprio territorio determinate politiche locali, in tutto non dissimili dalle politiche portate avanti a livello nazionale14.
Sul versante dell’approvvigionamento finanziario, la l. 281/1970 configurò una vera e propria compressione dell’autonomia regionale.
Alle regioni, infatti, non fu riconosciuta alcuna possibilità di imporre tributi propri, ma solo il diritto di introitare l’ammontare del gettito di alcune imposte statali e il potere di modulare l’aliquota di altre imposte, sempre statali, peraltro di scarsa entità quantitativa in termini di entrate tributarie.
Parallelamente, si accrebbe anche la prassi di istituire fondi
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Cfr. P. SANTINELLO, cap. 3, par. 6. Segue: il trasferimento delle funzioni in R. BIN, G. FALCON, a cura di, Diritto regionale cit., Bologna, Il Mulino, 2012, p. 82‐83.
settoriali o speciali di finanziamento delle regioni a destinazione vincolata, con conseguente compressione della loro autonomia di spesa.
Per quanto concerne, infine, il regime dei controlli, al di là della già fitta trama prevista dalla Costituzione, furono anche introdotte nuove forme di controllo, che attribuirono allo stato un potere sostitutivo da porre in essere in caso di inerzia delle regioni.
Introdotto inizialmente soltanto nei riguardi delle funzioni amministrative delegate dallo stato, fu successivamente esteso anche in caso di inerzia delle regioni nell’attuazione delle norme comunitarie.
A seguito poi della norma introdotta con l’art. 11 della l. 86/1989, i controlli furono infine utilizzati non più soltanto in conseguenza dell’inerzia delle regioni, ma anche nel caso di “urgenza a provvedere” da parte del governo15.
6. IL RUOLO “POLITICO” DELLA CORTE COSTITUZIONALE NELLA DIVISIONE DELLE