Viste l’enorme difficoltà e la grande lentezza con cui procedeva l’iter parlamentare di riforma della seconda parte della costituzione e dietro la pressante spinta della Lega Nord, il governo decise di sottoporre all'esame del parlamento un disegno di legge ordinaria, su proposta del ministro Franco Bassanini, che nelle more
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Cfr. A. D’ATENA, Diritto regionale cit., p. 69‐70 e G. SANGIULIANO, L’inutile federalismo cit., p. 29 e 32‐33.
dell’approvazione della legge costituzionale di riforma del titolo V della parte II della Carta fondamentale, ne anticipasse in qualche modo i contenuti.
Fu così che il parlamento approvò la l. 59/1997, meglio nota come legge Bassanini I, che investiva il governo di numerose deleghe, complessivamente finalizzate ad attuare la più penetrante riforma che la pubblica amministrazione italiana abbia mai conosciuto dal secondo dopoguerra ad oggi e ponendo in essere una devoluzione di funzioni amministrative dallo stato centrale alle regioni e agli enti locali così imponente, da costituire, ad ogni effetto, una vera e propria terza regionalizzazione.
Anticipando formidabilmente concetti e principi, che sarebbero stati poi successivamente trasfusi nella l.cost. 3/2001, che riformò il titolo V della parte II della Costituzione, la l. 59/1997 operò sul filo della costituzionalità, secondo la Carta del 1948 allora vigente, introducendo per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico i due principi di sussidiarietà verticale e orizzontale, da impiegarsi nel conferimento delle funzioni amministrative ai diversi livelli di governo, unitamente ai due ulteriori principi di differenziazione e adeguatezza, da impiegarsi quali criteri di scelta degli enti pubblici da rendere, di volta in volta, destinatari delle funzioni stesse.
La profonda originalità della legge in parola consistette anche nell’anticipare, sia pure limitatamente alla distribuzione delle funzioni amministrative, ciò che sarebbe stata la peculiarità principale della successiva novella costituzionale del 2001 e cioè il rovesciamento nella
tecnica di distribuzione delle competenze fra lo stato centrale e le entità substatuali.
Ricalcando, infatti, fedelmente la tecnica di distribuzione delle competenze tipica delle costituzioni degli stati federali, la l. 59/1997 riservò allo stato centrale un elenco enumerato di ambiti di intervento e devolvette al contempo ai comuni le funzioni amministrative residue, fatta eccezione per quelle che, richiedendo l’esercizio unitario sul territorio, sarebbero state necessariamente attribuite ai livelli di governo superiori, nel rispetto comunque dei citati principi di sussidiarietà verticale, differenziazione e adeguatezza.
Fu proprio per l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico di un riparto di competenze tipicamente presente negli stati federali, che la riforma della pubblica amministrazione operata dalla l. 59/1997 ottenne anche l’appellativo di riforma in senso “federale” a costituzione invariata o anche semplicemente di “federalismo” a costituzione invariata12.
Non si può non evidenziare il fatto che, proprio a causa della peculiare inversione del criterio di riparto delle competenze amministrative, a fronte di un dettato costituzionale ancora saldamente ancorato al principio del parallelismo fra la funzione legislativa e la funzione amministrativa, la l. 59/1997 poneva seri dubbi in ordine sua legittimità costituzionale. Perfettamente cosciente del rischio di incostituzionalità che stava correndo l’intera riforma della pubblica amministrazione appena varata, 12 Cfr. T. MARTINES, A. RUGGERI, C. SALAZAR, Lineamenti di diritto regionale cit., p. 226‐227.
la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, presieduta dall’On. D’Alema, che proprio in quel momento discuteva il disegno di legge costituzionale di riforma del titolo V della parte II della Carta fondamentale, ritenne opportuno di non discostarsi dal modello sotteso all’impianto amministrativo portato dalla l. 59/1997, realizzando in tal modo un peculiare rovesciamento della gerarchia delle fonti del diritto, per cui fu la Costituzione ad essere riscritta in ossequio al dettato di una legge ordinaria e non il viceversa13.
Infatti, l’abbandono del disegno di legge costituzionale elaborato dalla Commissione parlamentare presieduta dall’On. D’Alema, per esaurimento dell’accordo politico che ne costituiva la base, non significò affatto l’abbandono della riforma costituzionale. Implicò semplicemente il superamento dell’idea di effettuare tale riforma in aderenza al disposto della l.cost. 1/1997, che prevedeva delle modalità derogatorie rispetto all’art. 138.
In verità, la riforma del titolo V della parte II della Costituzione fu portata comunque avanti dal parlamento, secondo le modalità previste dall’art. 138 cost. e fu quindi ripreso l’impianto disegnato dalla bozza di legge costituzionale elaborata dalla Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, presieduta dall’On. D’Alema14.
Fu così che con la l.cost. 1/1999 vennero riscritte le norme relative all’autonomia statutaria e alla forma di governo delle regioni
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Cfr. T. MARTINES, A. RUGGERI, C. SALAZAR, Lineamenti di diritto regionale cit., p. 8 e M. BELLETTI, cap. 3, par. 9, Gli anni ’90: la lenta espansione delle competenze regionali e par. 11. La riforma
costituzionale del 2001: un quadro d’insieme del nuovo Titolo V in R. BIN, G. FALCON, a cura di, Diritto regionale cit., p. 88 e 90‐91.
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ordinarie, con la l.cost. 2/2001 fu poi estesa anche alle regioni ad autonomia speciale la stessa disciplina già recata per le regioni ordinarie ed infine, con la l.cost. 3/2001 venne portata a termine la riforma del titolo V della parte II della Carta fondamentale, trasfondendo nell’attuale art. 118 cost. gli stessi principi e la stessa tecnica di riparto delle competenze amministrative già recate dalla l. 59/1997.
5. LA CRISI DELLO STATO REGIONALE ALLA FINE DEGLI ANNI NOVANTA
Alla fine degli anni Novanta risultava ormai chiaro che il regionalismo italiano stesse versando nella sua crisi più profonda, dovuta sicuramente a cause imputabili al sistema politico, ma anche ad un’oggettiva inadeguatezza della stessa disciplina costituzionale.
Per quanto concerne il sistema politico, la presenza di partiti politici nazionali fortemente centralizzati non ha mai consentito alle regioni di sviluppare una propria rappresentanza politica, che potesse essere autenticamente territoriale.
Per questo motivo, le regioni non sono mai riuscite a portare avanti delle proprie politiche regionali che fossero realmente svincolate dalle logiche partitiche nazionali, in una sorta di inestricabile intreccio fra interessi territoriali e logiche nazionali di partito, molto simile ad un fenomeno realizzatosi in Germania (Politikverflechtung).
In più, la peculiare cultura politica italiana ha fatto sì che all’istituzione delle regioni ad autonomia ordinaria, avvenuta nel 1970, non rimanessero estranee le prospettive di sistemazione e di carriera del personale gravitante nell’orbita dei partiti.
Ciò ha fatto sì che gli enti regionali diventassero nel tempo il luogo ideale in cui collocare i dirigenti di partito, gli elettori e i simpatizzanti, rendendo gli enti stessi dei grandi “carrozzoni” divoratori della finanza pubblica ed ottenendo l’effetto opposto rispetto alla snella gestione finanziaria, che era stata concepita per le regioni da parte del legislatore costituente15. Per quanto riguarda poi l’oggettiva inadeguatezza della disciplina costituzionale, va rilevato che il riparto verticale delle competenze nelle materie di potestà legislativa concorrente, presentava dei confini talmente labili e indeterminati tra principi fondamentali e normativa di dettaglio, che quasi mai lo stato si limitava a dettare norme di principio, ma legiferava spesso con disposizioni così dettagliate ed autoapplicative, che ben poco margine di scelta politica rimaneva in capo alle regioni, il più delle volte con l’avallo della Corte Costituzionale. Vi è poi da aggiungere che, a seguito della «funzione di indirizzo e coordinamento», non prevista dalla Costituzione, ma che lo stato si era riservato di esercitare con la l. 281/1970, sia in via legislativa sia in via amministrativa, «sulle attività delle regioni che attengono ad esigenze di carattere unitario», i consigli Regionali si trovavano spesso costretti a legiferare non soltanto nel rispetto di leggi formali del parlamento, ma anche di meri atti amministrativi del governo o di singoli ministri, con buona pace della gerarchia delle fonti e con il benestare della stessa Corte Costituzionale16. 15 Cfr. A. D’ATENA, Diritto regionale cit., p. 68. 16 Cfr. P. CARETTI, G. TARLI BARBIERI, Diritto regionale cit., p. 26.