A seguito delle elezioni del 2 giugno 1946, i 556 seggi dell’assemblea costituente furono assegnati alle varie forze politiche.
La Democrazia Cristiana (DC) ottenne 207 seggi, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP) 115, il Partito comunista Italiano (PCI) 104, l’Unione Democratica Nazionale (UDN) 41, il Fronte dell’Uomo Qualunque (UQ) 30, il Partito Repubblicano Italiano (PRI) 23, il Blocco Nazionale della Libertà (BNL) 16, il Partito d’Azione (Pd’A) 7 e il Movimento Indipendentista Siciliano (MIS) 4. I rimanenti 9 seggi furono assegnati alle liste minori.
Al centro, la Democrazia Cristiana, erede del Partito Popolare di Don Luigi Sturzo, esordì con il 35% dei voti, imponendosi da questo momento in poi come il partito di maggioranza relativa sullo scenario
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Regio Decreto 3 marzo 1934, n. 383, recante «Approvazione del testo unico della legge comunale e
politico italiano. A sinistra, il Partito comunista e il Partito Socialista, uniti insieme nel «patto di unità e d’azione», totalizzarono complessivamente il 39% dei voti. A destra, invece, le forze dei redivivi partiti fascisti e monarchici, insieme ai qualunquisti, raggiunsero l’8% dei voti.
In proporzioni minori, i repubblicani, gli azionisti e i liberali si ritrovarono disseminati in posizioni intermedie fra la destra, il centro e la sinistra.
Alle forze politiche fu subito chiaro che era finito il sistema dell’esarchia: un sistema attorno al quale si era incentrato il funzionamento della vita politica italiana per tutto il periodo transitorio, durato dalla caduta del Fascismo, avvenuta il 25 luglio 1943 con l’arresto di Mussolini, fino all’elezione dell’assemblea costituente.
All’esarchia, che si fondava sull’uguaglianza del peso politico dei sei partiti che l’avevano costituita (DC, PSIUP, PCI, PLI, Partito d’Azione e Democrazia del Lavoro), si sostituì inevitabilmente il tripartitismo, fondato, invece, sul consenso mediato delle tre maggiori forze politiche in campo: la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano e il Partito comunista Italiano, che, uniti insieme, rappresentavano il 74% dell’elettorato4.
In un’Italia sconfitta dalla guerra, logorata dai lunghi anni della resistenza e della lotta partigiana, lacerata al proprio interno da vecchie e nuove fratture sociali fra conservatori e progressisti, fra aristocratici e
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proletari, fra nord e sud, divisa politicamente tra fascismo e antifascismo, fra monarchia e repubblica, i lavori dell’assemblea costituente si aprirono e furono percorsi, fin dall’inizio, da continui richiami all’unità: unità contro l’isolamento internazionale, unità contro le clausole inique del trattato di pace di Parigi, unità nella lotta sindacale, unità per la pace religiosa, unità politica e morale.
Fu questa continua tensione verso la ricerca dell’unità, rafforzata dal ricordo della lotta antifascista e della resistenza antinazista, che favorì quel clima straordinario di solidarietà degli animi e di lucidità delle menti, che portò alla ricerca di un consenso mediato fra le tre principali forze politiche: la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano e il Partito Comunista Italiano.
Fu quel consenso eccezionale, mai più ripetutosi nella storia successiva del nostro Paese, che portò a maturare quel compromesso alto, che culminò nella nostra Costituzione: una Carta approvata il 22 dicembre 1947 con la larghissima maggioranza dell’88%, data da 453 voti a favore e soltanto 62 contrari.
E’ proprio questo il paradosso storico su cui si fonda la nostra Costituzione. E’ il paradosso di una Carta fondamentale maturata nel momento di massima tensione verso l’unità dei tre principali partiti italiani e approvata a larghissima maggioranza da quegli stessi partiti in un momento storico – la fine del 1947 – in cui, con l’avvio della guerra fredda, si aprì l’insanabile frattura fra le forze cattoliche di centro e le forze socialiste e comuniste di sinistra: quelle stesse forze che, con il loro compromesso storico, avevano largamente contribuito a scrivere e
ad approvare la nostra Costituzione5.
Già nel maggio del 1947 si era consumata la crisi del terzo governo De Gasperi, che era stato l’ultimo a struttura tripartita.
Dopo il fallito tentativo dei socialisti di formare un nuovo governo attorno alla figura di Francesco Saverio Nitti, la parola era tornata ad Alcide De Gasperi, che riuscì nell’intento di costituire un governo monocolore democristiano6.
Nel panorama politico italiano si era così realizzato il definitivo allontanamento dei socialisti e dei comunisti dall’area governativa. Fu un allontanamento destinato a durare per oltre quarant’anni, in uno scenario di guerra fredda che, sullo scacchiere mondiale, vide l’Italia come paese di confine, in bilico e conteso, fra il blocco dei paesi aderenti al Patto Atlantico, guidati dagli Stati Uniti, e il blocco dei paesi aderenti al Patto di Varsavia, orbitanti sotto l’Unione Sovietica.
Approvata, quindi, la Carta costituzionale e dissolto il compromesso politico fra le forze cattoliche di centro e quelle laiche di sinistra, si aprì la campagna elettorale per investire della sovranità popolare il primo parlamento della storia repubblicana, in un clima di piena guerra fredda.
Il 18 aprile 1948 si tennero, dunque, le prime elezioni politiche, che portarono alla schiacciante vittoria della Democrazia Cristiana.
Cresciuta al 48,5% dei consensi elettorali, rispetto al 35% riscosso appena due anni prima, la DC s’impose come il più grande partito di
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Cfr. E. CHELI, Nata per unire cit., p. 20‐24 e p. 27.
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massa, dominando la scena politica italiana per quasi cinquant’anni, fino a dissolversi con la fine della prima repubblica, travolta dagli scandali di tangentopoli. All’opposto, i socialisti e i comunisti arretrarono dal 39% dei consensi elettorali al 31%.
Nel momento in cui venne inaugurata la prima legislatura della Repubblica Italiana, esistevano soltanto i meccanismi essenziali per il suo funzionamento: il parlamento, il governo e il Capo dello stato. Tuttavia, non esistevano ancora gli apparati frenanti e di garanzia della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura, né esistevano le regioni, ad eccezione delle prime quattro a statuto speciale, la Sicilia, la Sardegna, la Valle d’Aosta e il Trentino‐Alto Adige/Südtirol, peraltro già funzionanti da prima della nascita della Repubblica stessa.
Il parlamento italiano aveva ricevuto, dunque, dall’assemblea costituente la pesante eredità di dover attuare e far partire tutto il sistema di pesi e contrappesi, previsti dal nuovo impianto costituzionale dello stato, a garanzia del pluralismo ideologico, politico e territoriale, nonché dei diritti e delle libertà civili, economiche e sociali.
Fu proprio sul terreno dell’attuazione di questi meccanismi istituzionali di peso e contrappeso, che la maggioranza democristiana assunse per decenni un comportamento evasivo.
Attuare una costituzione altamente garantista come quella del 1948, infatti, avrebbe significato porre in essere numerosi meccanismi limitativi del proprio potere politico, offrendo quindi ai partiti avversari molti strumenti di garanzia e di difesa nei confronti del potere espresso
dalla maggioranza al governo.
Anche le regioni, che, secondo la volontà del legislatore costituente, avrebbero dovuto contribuire al frazionamento del potere centrale, avvicinandolo ai cittadini e alimentando il pluralismo politico e territoriale, furono viste come un chiaro elemento di disturbo dell’esercizio del potere stesso, piuttosto che come un elemento necessario a dare corpo a quel sistema di garanzie costituzionali, così come architettate dai padri costituenti, i quali, memori del ventennio della dittatura fascista, erano ben consapevoli delle derive autoritarie cui rischia di esporsi un potere con esercizio fortemente accentrato.
Fu così che la strategia politica di De Gasperi, sostenuta dai partiti minori dell’area di centro, scelse di seguire la linea del “congelamento” istituzionale7 e la prima legislatura si concluse nel segno della completa inattuazione della Costituzione, realizzando un comportamento politico, che Piero Calamandrei non tardò più tardi a definire «l’ostruzionismo della maggioranza»8.