A partire dagli anni Ottanta, il parlamento e il governo, preso atto del nuovo orientamento assunto dalla giurisprudenza costituzionale, si fecero carico di introdurre nel nostro ordinamento giuridico alcuni istituti caratteristici della cooperazione fra il livello di governo statale e
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Cfr. C. MAINARDIS, cap. 4, quadro 4.4, Dottrina, legislatore e Corte costituzionale: un dialogo
il livello di governo regionale.
Con d.P.C.M. 12 ottobre 1983, pubblicato in G.U. 300/1983, considerato discutibile da un’autorevole dottrina poiché non trattavasi di un atto legislativo6, fu istituita presso la presidenza del consiglio dei ministri la Conferenza stato‐regioni, «con compiti di informazione, di consultazione, di studio e di raccordo sui problemi di interesse comune tra stato, regioni e province autonome».
A dispetto del nome, tuttavia, il decreto in parola non configurava la Conferenza stato‐regioni come un vero e proprio organo a composizione mista statale e regionale, bensì come un comitato Interministeriale, al quale erano «invitati a partecipare i presidenti delle regioni a statuto speciale ed ordinario e i presidenti delle province autonome di Trento e di Bolzano, nonché i Ministri interessati agli argomenti iscritti all'ordine del giorno».
Soltanto con la l. 400/1988 fu istituita, a tutti gli effetti, presso la presidenza del consiglio dei ministri, la Conferenza permanente per i rapporti tra lo stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano.
Tale Conferenza, in funzione ancora oggi, risulta configurata come organo a composizione autenticamente mista. La l. 400/1988, infatti, stabilisce che «il Presidente del consiglio dei Ministri presiede la Conferenza», che «la Conferenza è composta dai presidenti delle regioni a statuto speciale e ordinario e dai presidenti delle province autonome» e che «il Presidente del consiglio dei ministri invita alle
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riunioni della Conferenza i ministri interessati agli argomenti iscritti all'ordine del giorno».
La Conferenza permanente per i rapporti tra lo stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano venne successivamente sottoposta ad un’organica revisione da parte del d.lgs. 281/1997, in attuazione di una delega contenuta nella l. 59/1997, meglio conosciuta come legge Bassanini I.
Nell’ambito, quindi, della più ampia riforma del regionalismo italiano, che prese corpo sul finire degli anni Novanta e che si caratterizzò per la volontà di spingere al massimo il decentramento amministrativo, pur mantenendo invariata la Costituzione, il citato d.lgs. 281/1997 affiancò alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano anche la Conferenza stato‐città ed autonomie locali, nonché la Conferenza unificata, costituita dall’unione delle suddette due Conferenze, relativamente alle materie ed ai compiti di interesse comune.
Tanto la l. 400/1988 quanto il d.lgs. 281/1997, se da un lato dettarono precise disposizioni sulle competenze e sulle funzioni delle tre Conferenze, dall’altro si limitarono a dettare poche e sommarie norme con riguardo al loro funzionamento, al punto tale che lo stesso risulta oggi improntato ad una notevole informalità.
La composizione delle tre Conferenze, infatti, risulta altamente variabile, essendo in facoltà del presidente del consiglio dei ministri di integrarne la composizione di base, stabilita dalle norme, invitando di volta in volta soggetti pubblici diversi, secondo il coinvolgimento che
possa derivarne a ciascuno dagli argomenti iscritti all’ordine del giorno. Non esiste un quorum strutturale che consenta di determinare la validità o meno delle riunioni, essendo sufficiente la regolarità della convocazione inviata nei termini di legge. Inoltre, non esiste un quorum deliberativo che permetta di stabilire la validità o meno delle determinazioni assunte durante le sedute stesse.
Tra i vari atti che le tre Conferenze possono produrre, il d.lgs. 281/1997 ha istituzionalizzato i pareri, gli accordi e le intese.
I pareri consentono alle regioni ed alle autonomie locali di esprimere il proprio punto di vista sugli argomenti che, facoltativamente o in base a specifiche disposizioni di legge, il governo sottoponga al loro esame, senza tuttavia che possa derivarne l’obbligo di conformarvisi.
Gli accordi rappresentano sicuramente uno strumento cooperativo importante fra il livello di governo statale e il livello di governo regionale e locale. Tuttavia, non costituiscono un passaggio procedimentale giuridicamente necessario per la validità di atti governativi successivi, essendo l’uso di questo strumento rimesso alla libera volontà delle parti.
Le intese, infine, a differenza dei pareri e degli accordi, rappresentano la vera espressione del principio di leale collaborazione fra lo stato centrale e le regioni. Esse, infatti, si rendono necessarie, quali atti di natura endoprocedimentale, tutte le volte che la legge subordini al loro raggiungimento l’adozione di successivi atti da parte del governo.
Sebbene la legge consenta al governo di emanare i propri atti pur in assenza di un’intesa con le regioni, qualora sia inutilmente decorso il termine di trenta giorni dalla prima seduta della Conferenza in cui un dato oggetto sia stato posto all’ordine del giorno, la Corte Costituzionale si è più volte espressa in proposito, affermando che affinché il governo sia legittimato ad adottare i propri atti in assenza di un’intesa con le regioni, non è sufficiente il mero decorso del termine formale stabilito dalla norma di legge, ma è anche necessario dimostrare che, per tutta la durata del tempo concesso dalla legge stessa, siano state svolte reiterate trattative al fine di pervenire ad un’intesa.
I giudici delle leggi, quindi, a tutela del principio di leale collaborazione, esigono dal governo il rispetto sostanziale della norma di legge e non soltanto il suo rispetto formale.
Riguardo il sistema delle Conferenze, non si può non rilevare che, per quanto importante possa essere nell’attuazione del principio di leale collaborazione fra lo stato e le regioni, esso tuttavia non può costituire l’unica sede di dialogo fra i due livelli di governo.
Esiste purtroppo un limite del sistema delle Conferenze, legato alla sua stessa natura, e cioè quello che il dialogo viene a incardinarsi soltanto in seno al governo, durante l’esercizio del potere esecutivo e non anche in seno al parlamento, durante l’esercizio del potere legislativo7.
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Cfr. A. D’ATENA, Diritto regionale cit., p. 359‐366 e C. MAINARDIS, cap. 4, par. 5, Segue: il sistema
La conseguenza più evidente del limite anzidetto è quella che, mentre le regioni e gli enti locali hanno oggi una qualche voce in capitolo durante la fase di attuazione delle leggi approvate dal parlamento, nessuna voce in capitolo è loro concessa a monte della suddetta fase di attuazione e cioè durante il procedimento legislativo.
Ciò fa sì che le autonomie territoriali si trovino sempre a far sentire il proprio peso “a cose fatte”, quando ormai sono costrette a poter solo attuare le norme poste dal legislatore ordinario, senza aver potuto in alcun modo concorrere a produrle.
Non possiamo, quindi, non ripensare al peccato originale della nostra Costituzione e all’assenza, fin dal principio, di una vera e propria Camera delle Autonomie.
Se guardiamo, infatti, alle costituzioni anche solo di alcuni fra i più importanti stati federali al mondo – e la comparazione fra stato regionale e stato federale è possibile, come si vedrà nella parte II di questo lavoro – non possiamo non scorgere come le entità territoriali substatuali partecipino a pieno titolo, attraverso le seconde Camere, ai procedimenti legislativi riguardanti le materie di proprio interesse8.
In talune circostanze, addirittura, come nel peculiare caso della Repubblica Federale di Germania, il Bundesrat, quale organo rappresentante delle istanze dei Länder, possiede una collocazione istituzionale distinta tanto dal parlamento, quanto dal governo, tale da renderlo idoneo a dialogare con entrambi9.
8 Cfr. P. BILANCIA, F. G. PIZZETTI, Aspetti e problemi del costituzionalismo multilivello, Milano,
Giuffrè, 2004, p. 8.
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Consapevole quindi di una tale carenza della nostra Carta fondamentale, già il legislatore costituzionale artefice della novella del 2001, nelle more dell’approvazione di una legge costituzionale di riforma del Senato, ne previde un succedaneo – la meglio nota Bicameralina, così denominata in senso dispregiativo per evidenziarne il carattere di assoluta marginalità – disponendo attraverso l’art. 11 della l.cost. 3/2001, che la Commissione parlamentare per le questioni regionali, già prevista dall’art. 126 cost., potesse essere integrata con rappresentanti delle regioni, delle province autonome e degli enti locali. La citata disposizione prevedeva un meccanismo di voto rinforzato da parte delle due Aule parlamentari per approvare qualsiasi disegno di legge riguardante le materie di competenza legislativa concorrente fra lo stato e le regioni ovvero la finanza regionale e locale, allorquando su di esso fosse stato espresso parere contrario o condizionato a modifiche, da parte della Commissione parlamentare per le questioni regionali, così come integrata con i rappresentanti delle autonomie regionali e locali.
Purtroppo, il disaccordo delle forze politiche presenti allora in parlamento fece sì che il legislatore costituzionale, seppur con poca convinzione, ne demandasse l’attuazione ai regolamenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.
Puntualmente, tale norma non fu attuata e ancora adesso si sta discutendo in parlamento del disegno di legge costituzionale che prevede il superamento del bicameralismo paritario, mediante la
trasformazione del Senato della Repubblica, da doppione della Camera dei Deputati, in vera e propria Camera delle Autonomie.