DI LEGGE FARINI, AI DISEGNI DI LEGGE MINGHETTI
Al momento della sua nascita, avvenuta, come si è visto, per successive annessioni degli stati preunitari al Regno di Piemonte e Sardegna, il Regno d’Italia presentava al proprio interno gravi squilibri economici e sociali, derivanti principalmente dalle molteplici vicende storiche vissute degli stati preunitari stessi, nonché dalle rispettive diversità politiche, amministrative, economiche e sociali.
Fu così che per meglio amministrare il neonato Regno d’Italia furono delineate, in seno al dibattito istituzionale, soluzioni politiche
http://archivio.camera.it, p. 6C. 14 Cfr. A. D’ATENA, Diritto regionale cit., p. 71. 15 Cfr. A. D’ATENA, Diritto regionale cit., p. 9. 16
Cfr. R. BIN, G. FALCON, cap. 2, par. 1. Federalismo, confederazione, federazione, stato regionale,
autonomia, decentramento in R. BIN, G. FALCON, a cura di, Diritto regionale cit., p. 48 e T.
MARTINES, A. RUGGERI, C. SALAZAR, Lineamenti di diritto regionale (1984), Milano, Giuffrè, 9a ed.,
alternative alle ipotesi confederale e federalista, ormai già scartate fin da prima dell’unificazione.
Lo stesso Mazzini, il più grande assertore dello stato unitario, predicava l’importanza di frazionare il potere statuale in unità territoriali più piccole, da lui stesso denominate regioni.
Per il Mazzini, infatti, lo stato unitario non doveva necessariamente risolversi nell’accentramento politico e amministrativo. Anzi, fra il comune, «unità primordiale», e la Nazione, «fine e missione di quante generazioni vissero, vivono e vivranno tra i confini assegnati visibilmente da Dio a un Popolo», doveva necessariamente collocarsi la regione, «zona intermedia indispensabile tra la Nazione e i comuni», al fine di scongiurare il «localismo gretto» e di dare «all’unità secondarie forze sufficienti per tradurre in atto ogni progresso possibile nella loro sfera».
Nell’idea del Mazzini, l’Italia sarebbe stata divisa in dodici regioni, rette da organismi elettivi, così come elettive sarebbero state le autorità comunali. Presso ciascun capoluogo di regione avrebbe risieduto un «commissario del governo», mentre nei comuni i «magistrati supremi» avrebbero assolto contemporaneamente alle funzioni di rappresentanti locali e di ufficiali del governo centrale. Quest’ultimo, dal canto suo, si sarebbe potuto avvalere in qualsiasi momento di «Ispettori straordinari», per effettuare verifiche e controlli sul buon andamento delle amministrazioni regionali e locali.
A seguito della suddivisione in regioni del territorio dello stato, si sarebbe potuto finalmente attuare un ampio decentramento
amministrativo. Scriveva infatti il Mazzini «io non vedo perché le varie manifestazioni della vita Nazionale, oggi accentrate tutte in una sola Metropoli, non si ripartirebbero, con ufficio simile a quello dei ganglii nel corpo umano, tra quelle diverse città. Non vedo perché non si collocherebbe in una la sede della Magistratura Suprema, in un’altra l’Università Nazionale, in una terza l’Ammiragliato e il centro del navilio Italiano, in una quarta l’Istituto Centrale di Scienze e d’Arti, e via così»17.
Vi è inoltre da dire che con il regio editto 659/1847, poi riscritto dal d.lgs. 807/1848, era stata già attuata nel Regno di Piemonte e Sardegna una riforma che aveva introdotto le province e le divisioni, quali enti sovracomunali.
Detta riforma era stata poi modificata dalla legge comunale e provinciale 23 ottobre 1859, meglio conosciuta come legge Rattazzi, la quale aveva conservato le province come uniche strutture sovracomunali, dotando le stesse di un autoritario sistema di controlli sui comuni dei rispettivi comprensori e rendendole a tutti gli effetti enti rappresentativi del governo a livello locale, piuttosto che espressione di autoamministrazione.
Se l’articolazione in province e comuni poteva dunque soddisfare le esigenze amministrative di un regno di medie o piccole dimensioni, qual era stato il Regno di Piemonte e Sardegna fino al 1859, essa poteva apparire insufficiente a fronteggiare le esigenze amministrative di un regno ormai accresciuto e dalle dimensioni ben maggiori, qual era
17
Cfr. G. MAZZINI, Dell’unità italiana, articolo II (1861) in Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, vol. III, Politica vol. II, Milano, G. Daelli, 1862, p. 267‐269.
diventato nel 1861 il Regno di Piemonte e Sardegna, ormai trasformatosi in Regno d’Italia.
Per il suddetto motivo, già nel 1860, a seguito dell’annessione delle province dell’Emilia18 e della Toscana19, il Cavour aveva fatto istituire in seno al consiglio di stato una commissione per l’elaborazione di una riforma del sistema amministrativo del regno.
Su suggerimento dell’allora ministro dell’Interno Farini, prese corpo per la prima volta, in seno a questa commissione, l’idea di creare centri amministrativi più grandi, seppur privi di rappresentanza elettiva, da affiancare alle province e ai comuni già esistenti.
Nella nota indirizzata alla commissione, il Farini enucleò chiaramente il proprio pensiero. La riforma del sistema amministrativo del nuovo regno avrebbe dovuto «coordinare la forte unità dello stato coll’alacre sviluppo della vita locale, colla soda libertà delle provincie, dei comuni e dei consorzi e colla progressiva emancipazione dell’insegnamento, della beneficenza e degli istituti municipali e provinciali dai vincoli della burocrazia centrale».
Inoltre, nell’attuare il decentramento amministrativo si sarebbero dovute «rispettare le naturali membrature dell’Italia». Le regioni, quindi, non solo avrebbero dovuto «corrispondere ai naturali e tradizionali scompartimenti italiani, p.e.: Piemonte, Lombardia, Emilia, Toscana, Liguria, Sardegna», ma sarebbero state anche del tutto prive di rappresentanza elettiva, perché avrebbero potuto «offendere
18
Regio Decreto 18 marzo 1860, n. 4004, Le province dell’Emilia fanno parte del Regno d’Italia.
19
l’autorità dello stato e menomare la libertà di quei solenni deliberati, che si appartengono, per legge e per ragione di stato, al solo parlamento della nazione»20.
La nota del Farini fu quindi recepita dalla commissione e tradotta in un progetto di legge il 31 agosto 1860. Tuttavia, le annessioni al Regno di Piemonte e Sardegna proseguirono con tale rapidità, da rendere ben presto obsoleto il progetto di legge redatto dalla commissione.
Nel settembre 1860, infatti, l’esercito garibaldino faceva ben sperare per l’imminente annessione del Regno delle Due Sicilie. La necessità quindi di intervenire con l’esercito regio in ausilio a Garibaldi, fu il motivo che condusse il Farini a lasciare il ministero dell’Interno, essendo stato designato dal Cavour ad accompagnare il Re verso il Napoletano21.
Il pensiero del Farini fu allora ripreso e sviluppato dal nuovo ministro dell’Interno Minghetti, che assunse l’incarico il 31 ottobre 1860.
Anch’egli inviò una propria nota alla commissione, esponendo il proprio pensiero. Quest’ultimo venne quindi tradotto in quattro progetti di legge, che il 13 marzo dell’anno successivo furono sottoposti all’esame della Camera dei Deputati con le seguenti rubriche: sulla ripartizione del regno e sulle autorità governative; sull’amministrazione
20
Cfr. L. C. FARINI, Nota in C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica da
Rattazzi a Ricasoli (1859‐1866), Milano, Giuffrè, 1964, p. 280‐283.
21
Cfr. N. RAPONI, voce Farini Luigi Carlo in Dizionario Biografico degli Italiani (1925), Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. XLV, 1995.
comunale e provinciale; sui consorzi; sull’amministrazione regionale. Nei progetti di legge del Minghetti le regioni avevano competenza in materie strettamente legate al territorio, quali l’istruzione superiore, gli archivi storici, le accademie di belle arti e una parte dei lavori pubblici. Venivano inoltre delineate come consorzi permanenti di province e fornite di un organo deliberante denominato commissione, eletto nel proprio seno dai consigli provinciali. Venivano infine dotate di un governatore, nominato dal ministro dell’Interno. Il governatore, in qualità di rappresentante del governo, aveva il compito di dare esecuzione ai provvedimenti assunti dalla commissione.
Nell’idea del Minghetti, dunque, le regioni, ancorché prive di autonomia politica, rappresentavano la massima espressione del modello di decentramento burocratico‐istituzionale e costituivano la soluzione ideale per conciliare sul terreno amministrativo le due opposte tendenze: da un lato, di unità politica, militare e finanziaria; dall’altro, di conservazione della cultura, degli interessi e delle tradizioni già esistenti nei diversi stati preunitari22.
L’idea di uno stato regionale, come terzo modello di organizzazione territoriale del potere, da affiancare agli unici due modelli di stato esistenti all’epoca e cioè lo stato unitario centralizzato, di derivazione francese, e lo stato federale, sui modelli tedesco e svizzero, costituiva un progetto davvero molto ambizioso e di gran lunga all’avanguardia, se si pensa che il primo stato regionale della
22
Cfr. P. SANTINELLO, cap. 3, par. 1. Dall’unità d’Italia cit. in R. BIN, G. FALCON, a cura di, Diritto
storia è sorto con la Costituzione Peruviana del 1920 e, più propriamente, con la Costituzione Spagnola del 1931, che rispetto a quella peruviana si distingueva per aver conferito alle regioni il vero e proprio potere legislativo23.
A dispetto, quindi, del loro avanzato grado di modernità, i quattro progetti di legge del Minghetti incontrarono fin da subito l’opposizione di una trasversale maggioranza parlamentare, timorosa che potessero rappresentare un pericolo per l’unità dello stato, da pochi mesi faticosamente raggiunta24 .
Tanto più, che in quel momento il parlamento si trovava anche a fronteggiare alcuni gravi problemi postunitari come lo scioglimento delle luogotenenze e, in particolar modo, il brigantaggio nel Mezzogiorno, che costituì all’epoca una vera e propria questione meridionale ante litteram.
In un primo momento, dunque, la bocciatura dei progetti di legge fu evitata dal governo, mediante un’abile mossa politica, che ottenne di trasferirne il dibattito in commissione parlamentare. Tuttavia, il rigetto definitivo giunse inevitabile il 9 maggio 186125.
Con la prematura scomparsa del Cavour, avvenuta il 6 giugno di quello stesso anno, vennero inoltre meno la forza ideale e il sostegno politico su cui poggiava l’ambizioso e brillante progetto di uno stato italiano, decentrato amministrativamente sul modello regionale. 23 Cfr. A. D’ATENA, Diritto regionale (2010), Torino, Giappichelli, 2a ed., 2013, p. 10. 24 Il Regno d’Italia fu proclamato ufficialmente con la Legge 17 marzo 1861, n. 4671. 25 Cfr. G. CANDELORO, Storia dell’Italia Moderna (1976), Milano, Feltrinelli, vol. 5 La costruzione dello stato unitario: 1860‐1871, 1978, p. 157‐158.
Pertanto, con l’affossamento dei progetti di legge che delineavano la nascita di uno stato regionale, prese concretamente forza l’ideale politico opposto, che il 20 marzo 1865 condusse il neonato Regno d’Italia a conformarsi sul modello di stato unitario e accentrato di derivazione francese, mediante la promulgazione delle due leggi di unificazione amministrativa del Regno: la l. 2245/1865 e la l. 2248/1865. Se dunque, come si è visto, l’opzione per uno stato federale era stata esclusa a priori, prima ancora di iniziare la piemontesizzazione dell’Italia, l’opzione per uno stato unitario e accentrato, in luogo di quello regionale, fu essenzialmente una scelta politica postunitaria.
Tale scelta, da un lato, fu la conseguenza dell’idea, fortemente radicata nei politici liberali dell’epoca, che la sovrapposizione di uno stato compatto ad uno stato monoclasse fosse senz’altro più funzionale ad un ordinato sviluppo della nazione, dall’altro, derivò anche dalla timidezza con cui fu avanzata la proposta alternativa di uno stato regionale come via di compromesso fra lo stato accentrato, ad un estremo, e lo stato federale, all’estremo opposto.
3. IL DIBATTITO SUL DECENTRAMENTO POLITICO‐AMMINISTRATIVO NEL PERIODO