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Dalla città compatta alla città frammentata

MODELLI URBAN

2.1 Dalla città compatta alla città frammentata

Il processo di urbanizzazione che si è sviluppato negli ultimi duecento anni ha avuto come conseguenza l’esplosione della città e la trasformazione di strutture urbane compatte e ben definite in agglomerazioni caratterizzate da una espansione senza limiti. Ciò ha creato una serie di effetti sociali ed economici che hanno avuto un largo impatto sulle città, sulle aree urbanizzate e sui territori posti in prossimità di tali aree (Mazzeo, 2012).

Il fenomeno dell’urbanizzazione può essere letto come un «processo di diffusione che inizia da centri urbani in crescita ed interessa la campagna secondo sfere concentriche di influenza differenziata» (Antrop, 2004, 10). Questo modo di leggere l’espansione urbana deve però tenere conto di un realtà molto più complessa e deve considerare in modo approfondito altri fattori, a partire dall’influenza delle infrastrutture di trasporto e dalle implicazioni derivanti dai cambiamenti tecnologici.

Per spiegare la trasformazione delle strutture urbane sono stati costruiti una serie di modelli descrittivi il cui scopo è illustrare i fenomeni avvenuti negli ultimi due secoli, periodo temporale nel quale il processo di urbanizzazione ha modificato completamente le sue dinamiche. In linea di massima questi modelli mettono in evidenza l’accelerazione che l’espansione della città ha subìto a partire da una fase temporale ben definita, coincidente con la nascita e l’espansione dell’industria moderna.

Per secoli la città è stata caratterizzata dalla sua compattezza (Figura 2.1) e da uno sviluppo costante ma lento, come evidenziato, tra gli altri, da Borsdorf et al. (2007). La stessa organizzazione spaziale e funzionale delle città pre-ottocentesche è facilmente individuabile in quanto tendenzialmente monocentrica, impostata intorno ad un polo rappresentato dal luogo dove si amministrava il potere locale o sovralocale.

A partire dal centro urbano potevano riconoscersi fasce urbane tendenzialmente concentriche abitate da famiglie a reddito decrescente o destinate ad attività produttive più invasive. Nonostante ciò, in questa struttura urbana le interrelazioni tra settori interni ed esterni erano

molto ampie, al punto da poter sostenere che la città compatta era anche una città in cui la localizzazione fisica delle classi sociali era un fattore che non limitava le relazioni tra di esse, anche in considerazione del fatto che esse avvenivano all’interno di uno spazio comunque spazialmente limitato.

Figura 2.1 La città compatta come prototipo della struttura urbana preindustriale.

Agli inizi della rivoluzione industriale, quindi, la struttura urbana della città europea consisteva di un agglomerato compatto posto all’interno di un territorio poco trasformato che serviva come luogo di produzione dei beni di prossimità (agricoli ed artigianali) per la città. La campagna era generalmente spopolata e i produttori agricoli vivevano nella città o in villaggi più piccoli che nascevano spesso intorno ad un presidio militare (un castello) o religioso (un convento). In linea di massima, però, la città concentrava al suo interno quasi tutta la popolazione locale e tutti gli scambi commerciali e culturali.

L’Ottocento è il secolo nel quale la città esplode e i processi evolutivi assumono una decisa accelerazione. A partire da questo momento la città si espande e diviene più complessa trasformandosi prima una struttura di tipo settoriale, poi di tipo polarizzata ed, infine, frammentata.

La città settoriale (Figura 2.2) è il risultato dell’inserimento nella città di processi produttivi a carattere industriale e della formazione di una nuova classe sociale, quella operaia. I nuovi sistemi produttivi, accolti senza grandi problemi nella città, ne provocano una immediata espansione a causa della necessità di inglobare al suo interno la forza lavoro necessaria a rendere possibili i cicli produttivi. Questi sistemi, inoltre, segnano anche il momento nel quale finisce la separazione netta tra città e non città, due mondi fino a quel momento separati da elementi fisici ben definiti come, ad esempio, le mura urbane.

Questo processo, però, crea nuovi processi di polarizzazione che si concretizzano nella nascita di fenomeni di separazione sia fisica che funzionale tendenti a dividere le classi sociali e a separarle tra di loro all’interno del territorio urbano. Nel frattempo le classi ad alto reddito si spostano lontano dai luoghi di produzione, in luoghi più salubri e sicuri, mentre i ceti operai a basso reddito trovano sempre più difficoltà a posizionarsi nei centri urbani. Una ulteriore conseguenza

è la formazione di aree marginali centrali; questi ambiti urbani, abbandonati dalle classi sociali più ricche, ma comunque indisponibili alle classi sociali a basso reddito, vengono lasciati a sé e subiscono un forte degrado fisico e funzionale.

Figura 2.2 La città settoriale come uno dei primi risultati del processo di industrializzazione.

Figura 2.3 La città polarizzata, risultato della fase matura dell’industrializzazione.

La città polarizzata (Figura 2.3) è il risultato della fase matura del processo di sviluppo industriale. Essa è favorita anche dallo sviluppo dei sistemi di comunicazione stradale e ferroviario che estendono il raggio d’azione della mobilità urbana aumentando a dismisura lo spazio che rientra nell’ambito di attrazione della città. Il processo di polarizzazione è caratterizzato anche dalla espansione di funzioni appartenenti al settore terziario, il cui sviluppo

inizia a condizionare in modo sempre più profondo le città del Novecento, come nel caso, ad esempio, dei grandi centri commerciali o delle strutture dedicate al tempo libero.

L’evoluzione più recente dei processi urbani vede la città frammentarsi in microcosmi residenziali e funzionali collegati da reti di comunicazione fisiche ed immateriali che innervano e caratterizzano la più recente versione della struttura urbana (Figura 2.4). I caratteri di frammentazione si diffondono nello spazio circostante la città e si innestano anche al suo interno laddove si sviluppano spazi adattati destinati a determinate funzioni e caratterizzati da una forte uniformità e da una elevata specializzazione. La città frammentata è definita anche dai vuoti che le azioni di smantellamento dell’apparato produttivo lasciano dietro di loro, vuoti che vengono via via riempiti da operazioni che sono generalmente settoriali e/o elitarie e che portano ad ulteriori strappi all’interno della struttura sociale della città.

Figura 2.4 La città frammentata come rappresentazione della città odierna, a bassa industrializzazione e ad elevato tasso di terziarizzazione.

Una delle conseguenze dei fenomeni che caratterizzano la città frammentata è la localizzazione di nuove urbanizzazioni in aree sempre più lontane dalla città consolidata. Tale fenomeno viene definito in molti modi, anche se uno dei più utilizzati è quello di sprawl urbano che, letteralmente, indica una espansione scomposta e disordinata che avviene senza alcun limite apparente, senza alcuna regola organizzativa e senza alcuna pianificazione. L’utilizzazione del termine sprawl per definire i processi di espansione delle aggregazioni urbane può essere datata al 1937, secondo quanto riportato da Nechyba et al. (2004); da quel momento un numero molto ampio di ricerche ha sviscerato l’argomento relativo ai processi di espansione urbana e metropolitana senza però pervenire ad alcuna conclusione solida per quanto riguarda le possibili traiettorie future del fenomeno.

All’interno di questo quadro incerto si può, però, ritrovare una certezza: è possibile cioè affermare che il modello espansivo è ancora vincente, e non può che essere così, date le leggi intrinseche che continuano a governare i processi economici e le pressioni cui i sistemi urbani sono sottoposti dalla dimensione dei fenomeni di inurbamento e dai movimenti finanziari. Da ciò deriva la necessità di continuare ad approfondire il fenomeno urbano con l’obiettivo di mettere a

punto nuovi modelli che possano meglio interpretarne i caratteri evolutivi collegandoli più strettamente alla necessità di una maggiore attenzione al territorio e all’ambiente.

Quello proposto rappresenta un primo modello di lettura dei processi di evoluzione urbana. Sempre a partire dalla città compatta è possibile analizzare la città costruendo un secondo modello che allarga la sua attenzione ad uno spazio più ampio di quello urbano.

La Figura 2.5(a) schematizza la città compatta ossia la città nella sua forma isolata, circondata dall’ambiente naturale ed agricolo e, ad una certa distanza, da centri urbani più piccoli. A partire dalla fine del XVII secolo la rivoluzione industriale estende la dimensione della città sul territorio, anche se in un primo momento essa continua a caratterizzarsi per una estrema compattezza. La periferia urbana cresce ed inizia una prima fase di saldatura con i centri urbani più prossimi (Figura 2.5 (b)).

Le conseguenze sono molte. In particolare, oltre all’espansione fisica delle città si estende anche la consapevolezza delle conseguenze derivanti da tale espansione, come sottolineato da studiosi come Sitte (1889) e Viollet-le-Duc (1867-1872), ossia la nascita di un contrasto radicale tra una città antica che si è creata senza progetto, quasi ispirata da un indefinito essere esterno, e una città moderna la cui costruzione si basa su un sistema di modelli e di tecniche cui si dà nome di pianificazione. In altre parole, il contrasto tra l’irregolarità fisica che ammicca all’irrequietezza dello spirito umano e la regolarità che sembra essere imposta alla città moderna dallo sviluppo tecnologico con l’obiettivo di incrementarne l’efficienza.

Figura 2.5 Modello evolutivo della crescita urbana a partire dall’inizio dell’era industriale.

Il Novecento è caratterizzato da processi di trasformazione economica, di espansione dei servizi e di accesso ad una varietà di sistemi di comunicazione che estendono lo spazio della città frantumando i confini amministrativi e inglobando centri abitati prima separati ed autonomi. Grandi estensioni di campagna diventano terre urbanizzate e, allo stesso tempo, la stabilizzazione – se non la riduzione – del numero di abitanti inizia ad incidere sulla popolazione che vive nelle aree centrali della città, che divengono o luoghi di rappresentanza altamente costosi o luoghi di degrado fisico e funzionale (Figura 2.5(c)).

Proprio le aree centrali, storiche o meno, assumono il carattere di luogo simbolico di sperimentazione dei processi di riorganizzazione urbana; ciò avviene con l’applicazione di radicali azioni di sostituzione che tendono a rimarcare la forza del potere costituito e con una sempre maggiore attenzione alle caratteristiche simboliche delle aree monumentali e degli ambiti centrali, con l’obiettivo di creare spazi urbani di testimonianza della storia passata che assumessero anche il ruolo di legittimazione del nuovo potere degli stati Otto-novecenteschi e delle forze sociali ed economiche che li sostenevano.

Uscendo dalla città storica ciò che si verifica è un processo di espansione la cui velocità viene enfatizzata dalla cultura della pianificazione che si sviluppa tra il primo e il secondo conflitto mondiale e che sarà pienamente dispiegato dopo quest’ultimo. Le Corbusier, ad esempio, scriveva che «le città saranno parte della campagna; io potrò vivere a 30 miglia dal mio ufficio, vicino ad un albero; anche la mia segretaria vivrà a 30 miglia dall’ufficio, ma dall’altra parte rispetto alla città, vicino ad un altro albero. Entrambi avremo la nostra automobile, useremo gli pneumatici, consumeremo il manto stradale e gli ingranaggi, bruceremo gasolio e benzina. Tutto ciò richiederà una tale quantità di lavoro che esso sarà sufficiente per tutti» (1967, 74).

Questa citazione di Le Corbusier caratterizza il pensiero razionalista, secondo il quale la città è motore del progresso e, per questo motivo, un sistema in costante sviluppo; esso basa le sue convinzioni sulla considerazione che la città non è un sistema in evoluzione bensì il prodotto di un processo produttivo: essa cresce perché aggiunge nuovi moduli a quelli già esistenti, moduli che non hanno né significato né anima per cui non ha alcun senso pensare alla città come ad una struttura che è in continua ricerca di un senso di comunità, o heimatsgefühl, tanto per citare ancora Sitte.

Ad onor del vero, una parte della cultura urbanistica non si è mai riconosciuta nelle ipotesi razionaliste dell’espansione senza fine, sostenendo che tali ipotesi conducono alla morte della città. È possibile citare, tra tutti, Mumford che scrive, a proposito di New York (1945, 37): «nel corso dell’espansione imperialistica, la metropoli, come Patrick Geddes ha detto, diventa la Megalopoli, concentrandosi sulla dimensione, sulla grandezza astratta e sulle finzioni numeriche della finanza; la megalopoli diventa parassitopoli, dominata da processi monetari secondari che prosperano sugli esseri viventi; e parassitopoli lascia il posto a patholopolis, la città che smette effettivamente di funzionare e così diventa la preda di ogni sorta di malattia, fisica, sociale, morale».