• Non ci sono risultati.

Dalla critica all’iconografia

Jean Marie C AREY

2. Dalla critica all’iconografia

L’International Art Historians Congress fu fondato a Berlino nel 1992. All’inaugurazione era presente una delegazione del Deutsches Dokumentationszentrums für Kunstgeschichte (http://www.fotomarburg.de), al tempo operativa con il patrocinio dell’archivio fotografico Marburg. Lì sono stati creati quattro sistemi di database noti con gli acronimi: HiDA, MIDAS, DISKUS e ICONCLASS. HiDA (http://www.startext.de/ produkte/hida/hida-x) o Hierachical Document Administrator, era un software fornito da MIDAS, Marburger Informations- Dokumentations- und Adminstrations-System (Bove et. al. 2001). DISKUS, (http://www.kulturerbe-digital.de/de/projekte/9_38_363730.php) Digitales Informationssystem für Kunst und Sozialgeschichte, era sponsorizzato dalla Fondazione Volkswagen e implementato dapprima nei maggiori musei tedeschi, e in seguito arricchito dalla fusione con archivi regionali e locali e con società storiche, che cominciarono a registrare e a condividere i dati: una pratica che continua con gli sistemi emergenti HiDA-MIDAS (Lauplicher 1998).

Il movimento pioneristico e lungimirante delle digital humanties era rimasto sorpreso da quei risultati, che avevano lo scopo di creare un vasto database cooperativo di immagini d’arte e d’architettura generato e conservato da quei sistemi. In concomitanza con la diffusione del database nelle biblioteche e nei musei in ambiente francofono e anglofono, è nato anche ICONCLASS (http://www.iconclass.nl/home), un sistema per la classificazione informatica del materiale iconografico, sviluppato a partire degli anni cinquanta del Novecento dallo storico dell’arte olandese Henry van de Waal. Inizialmente, van der Waal concentra i propri studi sulla possibilità di ricavare un algoritmo utilizzabile per autenticare la paternità dei dipinti. Utilizzando questo sistema, si può, ad esempio, catalogare l’espressione del viso di una donna nella pittura di Johannes Vermeer con il parametro “soddisfacente” nella stringa alfanumerica 88A73EA, che a partire dalla sequenza gerarchica> 8 interni / 8 abbigliamento / 73 donne / E espressione / A volto, produce la risultante collocazione (nel caso di mancato riconoscimento di uno di questi parametri in un’opera di Vermeer, il sistema è ingrado di rilevare la contraffazione (Wynne 2006)). una simile indicizzazione nell’era del Web 3.0 potrebbe sembrare troppo rigida, ma a quel tempo – anche prima che i computer fossero regolarmente introdotti nelle università, nelle biblioteche e nei musei – il sistema permetteva di effettuare ricerche iconografiche affascinanti.

La mia frequentazione delle digital humanities, tuttavia, non nasce da DISKUS e ICONCLASS, ma da un interesse per la tassonomia zoologica, dove, prima del sequenziamento genetico, i tratti del comportamento così come quelli caratteristici della figura furono utilizzati per raggruppare e identificare gli animali.

In zoologia – di cui Franz Marc ha spesso intuitivamente emulato la pratica – non si tratta di una prassi originale, ma piuttosto di una pratica consolidata, concepita dai naturalisti del XIX secolo, tra cui Charles Darwin e Georges Cuvier e, naturalmente, anche da attenti autodidatti come Wilhelm Bölsche e John James Audubon. Appassionati osservatori di animali, costoro affidandosi all’incontro tra testo e immagine e attraverso la produzione di disegni, fungevano da tassonomisti e storici dell’arte entusiasti. Inoltre, ho imparato a mettere in discussione l’applicazione delle tecnologie digitali in modo

critico, per comprendere in quale rapporto esse stiano rispetto alla metodologia della storia dell’arte e in che modo rendano giustizia al tema della ricerca.

La questione delle conseguenze metodologiche dell’uso delle tecnologie digitali fu sollevata nel 1986 dallo storico dell’arte britannico William Vaughan, presidente della CHArt Association (https://ch-art.org/) (Computers and the History of Art). Vaughan era convinto che la tecnologia digitale offrisse la possibilità di ridurre o eliminare l’attenzione per la linguistica quale “disciplina maestra” (Vaughan 1987: 98).

Questo ci riporta al confronto tra l’approccio basato sul testo e quello basato sulle immagini; mentre la svolta linguistica ha portato a trascurare i metodi analitici a favore della proiezione iconografica, Vaughan ha osservato, quasi 20 anni fa, che «[…] in vista della informatizzazione della storia dell’arte, l’ironia di questa situazione è sempre più frequente il ricorso ai computer per automatizzare la teoria iconografica e la narrativa ai danni dell’analisi formale» (Vaughan 100). La sua tesi si basava sulla convinzione che le macchine potessero identificare le caratteristiche formali meglio dei tratti soggettivi. In realtà, nel corso degli ultimi due decenni, tale argomentazione non ha avuto un grande impatto sulla pratica generale della storia dell’arte digitale. E ciò è accaduto, perché la tesi di Vaughan si fondava sul presupposto che l’analisi dell’immagine potesse essere completamente automatizzata e disponibile tramite grandi network. Anche se al momento ci sono alcune collezioni interconnesse di opere d’arte on-line, il cui contenuto può essere rappresentato con vari tipi di visualizzazioni creative, queste grandi banche dati, come Prometeo (http://prometheus-bildarchiv.de/de/prometheus/) e il Bildindex der Kunst und Architektur (http://www.bildindex.de/) sono assemblate da persone, che fanno uso del testo generato dall’uomo per identificare il contenuto delle immagini, spesso sulla base di informazioni esterne. Inoltre questi tipi di analisi “automatica” dell’immagine sono, in genere, limitati a progetti di ricerca istituzionali, individuali o in-house.

La necessità di una riflessione critico-ideologica di cui si accennava sopra, tuttavia, non era tanto rilevante in riferimento a un equilibrio tra gli approcci di analisi analitico- formale e iconografica, ma è stata indotta dalla necessità di verificare che il lavoro dell’artista in questione non fosse stato analizzato e neppure inventariato secondo le caratteristiche più evidenti degli animali: contenuto e colore. Uno dei primi dipinti, al quale ho dedicato la mia attenzione nel 2009, è stata la tela di Franz Marc del 1912 Hund vor der Welt (figura 1), che a quel tempo faceva parte della mostra allestita Marc, Macke und Delaunay. Die Schönheit einer zerbrechenden Welt (1910-1914) allo Sprengel Museum di Hannover. Il dipinto – che mostra il cane di Marc, Russi, mentre contempla un paesaggio colorato –, a quanto pare, è stato incluso nell’esposizione per mostrare le somiglianze tra il lavori di Robert Delaunay, August Macke e Marc nel periodo cruciale dell’avanguardia storica. Ai miei occhi, tuttavia, Hund vor der Welt dimostrava il contrario; se anzi per dimostrare la mia tesi si potesse utilizzare anche l’esame degli scritti dell’artista e delle biografie pubblicate nelle stesse date, mi è parso che il confronto con un’analisi formale oggettiva – ad esempio tra Hund di Marc e Simultanfenster auf die Stadt (1912) di Delaunay (Figura 2) e Großes helles Schaufenster (1912) di Macke (Figura 3) – potesse raggiungere lo stesso obiettivo.

Figure 1-3: Franz Marc, Hund vor der Welt, 1912 (Svizzera, Collezione privata); Robert Delaunay, Simultanfenster auf die Stadt, 1912 (Amburgo, Hamburger Kunsthalle); August

Macke, Großes helles Schaufenster, 1912 (Hannover, Sprengel Museum).

Questa linea di pensiero, a sua volta, ha sollevato due ulteriori questioni interessanti. La prima è che, anche ipotizzando l’esistenza di immissione dati per l’analisi formale, non vi era un modo accurato per produrre parole chiave sui contenuti di un dipinto di difficile

descrizione, tra cui, ad esempio, le parole “prospettiva”, “visione” e “ambiente”, che sono concetti astratti della pittura di Marc. In quanto sostantivi, queste parole non sono realmente raffigurate in Hund vor der Welt, eppure esse rappresentano quel lavoro. In secondo luogo, pensare all’opera di Marc nei termini dei suoi contenuti più ovvi e importanti – gli animali – mi ha permesso di rendermi conto che non esisteva alcun inventario in grado di specificare quali dipinti rappresentassero animali. In altre parole, non vi era alcuna fonte autorevole che avesse risposto a semplici domande quali: «quanti dipinti di Franz Marc raffigurano cani?», «Quanti di quei cani rappresentano Russi?». La mancanza di risposte costituisce una grande lacuna nel lavoro di ricerca su Marc, che affronterò all’interno di questo articolo, cercando di colmarla.

Il problema dell’implementazione di un database di immagini d’arte rese oggettivamente sta nel fatto che tali tecnologie, finora, avevano come punto di partenza l’identificazione di oggetti. (Il dipinto Hund vor der Welt si presenta come campione di indagine: si provi ad immaginare la difficoltà nel cercare di catalogare una pièce di arti performative). Quindi, il vero problema sta nel fatto che le opere d’arte spesso eludono qualsiasi comprensibile definizione ontologica. La storia dell’arte, a ragione e in modo rilevante, si fonda su metodi analitici iconografici soggettivi e formali, e include la storia culturale, sociale e l’estetica della ricezione. Integrare queste caratteristiche nella storia dell’arte digitale rappresenta una sfida dall’esito incerto, ma ciò non esclude il valore degli esperimenti e dei tentativi fatti.

Queste indagini in realtà evidenziano la necessità di un’osservazione strettamente tradizionale e meditata che Michael Fried auspicava nel suo trattato del 2002 su Adolph Menzel, il pittore tedesco che spazia dal Realismo all’Espressionismo (Menzel 2002, 256). Le caratteristiche individuali di un’opera d’arte richiedono al ricercatore un esame estremamente esaustivo dell’opera in questione. Agli storici dell’arte è richiesto, attraverso uno sguardo attento, di cogliere nel profondo ciò che si vede e ciò che viene percepito e di descrivere di conseguenza tali sensazioni; queste osservazioni astratte possono essere indubbiamente concretizzate in un database. Tuttavia, poiché i database convenzionali, ordinati per parole chiave, sono costituiti da campi predefiniti, essi sono troppo limitanti per una storia dell’arte a livello avanzato. Nel campo degli studi umanistici, la storia dell’arte è una delle discipline più in pericolo poiché le domande che dovremmo porci sulle tassonomie, e che riguardano i nostri specifici interessi di ricerca, vengono ignorate. L’idea della trasformazione dell’università in azienda minaccia di rendere la nostra ricerca irrilevante.