• Non ci sono risultati.

Digitalizzazione ≠ l’analisi formale o soggettiva

Jean Marie C AREY

3. Digitalizzazione ≠ l’analisi formale o soggettiva

Finora ho toccato varie questioni, menzionando sia i progetti generali che quelli più specifici delle digital humanities, e stabilendo che, in termini di artefatti materiali, la lettura delle informazioni operata dalla macchina non è progredita rispetto a quanto ci si sarebbe aspettati all’inizio, quasi mezzo secolo fa. Le tecnologie digitali fanno riferimento ai metodi tradizionali di analisi soggettiva e formale dell’immagine. E comprendiamo le questioni implicite nel trattare progetti artistici che non sono né testo né immagine, ma

componenti strutturali o addirittura processi resi evidenti o del tutto impliciti nelle arti visive.

A questo punto vorrei ritornare sulle questioni relative alla “leggibilità automatizzata” delle immagini. Soprattutto agli albori della grafica computerizzata, l’obiezione riguardava la qualità della riproduzione delle immagini, che a partire dalle loro forme originali venivano riconfigurate in stringhe d’informazioni numeriche del tutto inaffidabili, con la conseguente e inevitabile perdita di informazione nel passaggio alla riproduzione digitale. Cosa che accade ancora oggi, anche se attualmente il problema è che gli archivi d’arte digitali sembrano volti a migliorare le immagini soprattutto per ciò che riguarda la saturazione e il contrasto. In particolare, ho notato che nel caso di opere espressioniste, nonostante le attente decisioni degli artisti riguardo all’applicazione e all’uso del colore basate su profondi principi filosofici, vi è la tendenza, per i database on-line, a regolare i toni, i contrasti e le sfumature in maniera eccessiva rispetto ai dipinti originari, come è avvenuto con le due immagini Die kleinen blauen Pferde (1911) di Franz Marc mostrate di seguito (figure 4 e 5).

Figure 4 e 5: un database di immagini on-line si è preso alcune libertà con Die kleinen blauen

Il fatto che questi ostacoli pratici persistano nella visualizzazione delle immagini via computer è tuttora un vero problema, poiché la maggior parte dei lavori di storia dell’arte svolti dagli studenti universitari di primo livello o condotti prevalentemente a livello divulgativo consistono in una simile visualizzazione . Gli storici dell’arte più esperti sono abituati a lavorare con le riproduzioni, ma ne conoscono anche i limiti e sanno che alla fine per le domande specifiche di ricerca stilistica o estetica è necessario ad un certo punto “incontrare” l’oggetto originale di persona.

Di fatto, le riproduzioni con le quali noi lavoriamo che sono state per lungo tempo basate sulla fotografia analogica, oggi sono diventate quasi esclusivamente digitali. Tuttavia, ciò non risulta essere determinante per i metodi pratici della storia dell’arte. Anche se la fotografia analogica esisteva come archivio fisico, e la grana delle pellicole era minuta e soggetta a manipolazione, anch’essa spesso non ha rappresentava o o incarnava la materialità degli originali in modo affidabile.

All’atto pratico, la perdita delle informazioni causata dalla digitalizzazione di solito è trascurabile, e la quantità rispetto alla quale la possibile risoluzione eccede, è enfatizzata. L’installazione Hyperplanes of Simultaneity (2016) di Fabio Giampietro e Alessio De Vecchi, per esempio, è un’esperienza “aumentata” di visione di un dipinto con gli apparati audio-visuali del Samsung Gear Virtual Reality. Ne risulta una trasformazione della superficie dipinta in paesaggi urbani tridimensionali in movimento che trasforma le scene in qualcosa che non esiste nel mondo “reale”, ed è reso da una densità di pixel non percepibile all’occhio umano. (Figura 6)2

2http://www.hyperplanesofsimultaneity.com/it/ e https://vimeo.com/160129412

Figura 6: Hyperplanes of Simultaneity offre un’esperienza digitale di realtà virtuale della pittura che supera la visione umana.

simili strumenti digitali emergenti non sono solo affascinanti in quanto accessibili a un vasto pubblico, ma sono esempi estremamente utili per gli studi tecnico-materiali delle singole opere. L’analisi comparativa, invece, lavora spesso attraverso la riduzione dei dati dell’immagine o del loro isolamento mediante filtri. Progetti importanti di questo tipo sono ben documentati nella letteratura della storia dell’arte digitale.3

Nel paragrafo 1.1 ho fatto riferimento alla tesi di William Vaughan, il quale sosteneva che l’analisi formale si presta meglio all’analisi assistita dal computer che non all’interpretazione dei dati iconografici raccolti soggettivamente. Pioniere in questo campo, Vaughan ha condotto un progetto di ricerca finalizzato a dimostrare la sua tesi. Il suo progetto, che prende il nome dal critico d’arte italiano Giovanni Morelli e fu avviato alla fine degli anni ottanta del Novecento, includeva un programma designato per la ricerca di immagini formali o di immagini simili nella composizione, utilizzando gli “identificatori visivi” come parametri estremamente ridotto (Vaughan 1992: 7-18).

Per quanto riguarda il metodo di analisi stilistica assistita dal computer, un progetto coordinato da Stefan Heidenreich nel 2003 ha fornito un esperimento formativo. Heidenreich ha provato ad utilizzare un processo abbastanza semplice: attraverso il procedimento di sfocatura dell’immagine di un dipinto “con lo stile del disegno rinascimentale” l’ha reso più “barocco”, ammorbidendo i suoi colori e lo stile lineare

distintivo. I risultati, così sorprendentemente chiari, hanno confermato che l’analisi stilistica, per il futuro, potrebbe essere supportata dalle tecnologie digitali.

Infatti, negli ultimi quindici anni, i metodi utilizzati per l’analisi automatizzata delle immagini sono stati ulteriormente sviluppati e sono in grado di eseguire tipi di analisi molto più sofisticate, che superano la semplice categorizzazione in “formale” o “soggettivo”. Lo Heidelberger Forschungsprojekt zur Gestenerkennung in mittelalterlichen Handschriften (https://hci.iwr.uni-heidelberg.de/COMPVIS/research/ gestures/) è un esempio di un sistema altamente complesso che coinvolge la combinazione di analisi iconografica e stilistica. Un altro progetto in corso, presso l’Università della California Riverside, è quello che utilizza un software di riconoscimento facciale applicato alle figure dei dipinti, tenendo in considerazione la categorizzazione e l’identificazione dei ritratti storici (Miller 2013). Comprensibilmente questa impresa è molto più difficile dell’identificazione delle persone viventi come avviene con le banche dati fotografiche, e si fonda su un’analisi concettuale dello stile degli artisti.