Daniele M Cananzi ∗
2. Dalla morfologia all’estetica nel diritto
La struttura più elementare della normatività può essere intesa proprio la norma giuridica; elementare nel senso che gli ordinamenti giuridici si compongono di insiemi di disposizioni normative e nel senso che l’attività interpretativa vede nella disposizione giuridica l’oggetto di principale attenzione (Tarello 1980: 101 ss.; Guastini 2004; Modugno 2009: 99 ss.; Carcaterra 2012: 35 ss.).
Ora, è ormai generalmente riconosciuta la distinzione tra disposizione e norma che risolve il problema tra forma e contenuto assegnando alla disposizione il significato di espressione linguistica e alla norma quello di interpretazione di tale espressione linguistica (Guastini 1993: 17;Troper 1999: 473 ss.).
Ma questo dice qualche cosa di particolarmente interessante quanto alla struttura della norma, ovvero che questa è/ha una struttura complessa: 1) è un enunciato 2) scritto da qualcuno 3) che dice qualche cosa 3) a qualcun altro.
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A bene vedere questa scomposizione permette di vedere come l’enunciato normativo rispetti la definizione di enunciato ricoeuriano: “qualcuno dice qualche cosa a qualcuno su qualche cosa” (Ricoeur 1994: 8; 1998: 51).
Mi sembra interessante muovere da questa constatazione perché, in fondo, questo significa già dimensionare la norma, il diritto, l’attività interpretativa in modo diverso rispetto alla riduzione della prima, la norma, a semplice enunciato, del secondo, il diritto, a insieme di enunciati e la terza, l’interpretazione, ad attribuzione di significato a parola.
La qualificazione ricoeuriana consente infatti di tracciare quell’arco temporale, spaziale, operativo che è nominabile “mondo del testo” del quale fanno parte: l’autore, il testo, l’interprete2; nella qualificazione di Ricoeur, si dice anche che l’interpretazione non è
da ascrivere ad uno solo degli elementi ma, in fondo, attiene a tutti e tre e nella loro reciproca interazione; si avvia a considerare, oltre Ricoeur, che la norma ha una possibile struttura sintetica, è frutto di questa interazione tra gli elementi.
Una norma che è – non si sottolinea mai abbastanza – testo. Ma cosa significa testo?(Ricoeur 1989: 133 ss.) Cosa significa norma?
Significa, innanzi tutto, una disposizione linguistica dotata di significato e di senso. È così possibile – e forse doveroso – differenziare il significato e il senso.
Due o più sensi, due o più interpretazioni differenti, due o più norme differenti, tratte da una disposizione, da un significato.
La norma, in quanto disposizione, enunciato, proposizione, ha una forma e, con le dovute precisazioni, si può dire che è una forma.
Bisogna fare un passo indietro. Bisogna infatti chiedersi: quale forma ha/è la norma?
Perché la forma (testuale, dunque linguistica) della norma ha/è una forma particolare; non è una forma-fissata – come meglio si preciserà progressivamente – ma ha/è una formatività.
Testo significa, come già rilevato, che appartengono al “mondo del testo”, condividono quella qualificazione ricoeuriana per la quale qualcuno dice qualche cosa a qualcuno. E questo chiede di soffermarsi sul punto che può trovare trattazione seguendo la riflessione sulla formatività con la quale Luigi Pareyson pensa la forma estetica dell’opera d’arte. Una riflessione che si apre con le seguenti parole, che riporto per intero perché le assumo per intero:
Un’estetica della produzione e della formatività. Era tempo, nell’arte, di metter l’accento più sul fare che sul contemplare. Se malgrado l’ineleganza del termine, questa teoria preferì chiamarsi ‘estetica della formatività’ piuttosto che ‘estetica della forma’, fu soprattutto per due motivi. Anzitutto perché il termine ‘forma’, per la molteplicità di significati, finisce con l’essere ambiguo, e rischia di passare per il semplice contrapposto di ‘materia’ o ‘contenuto’, evocando così la vexata quaestio del formalismo e del contenutismo, mentre invece qui si intende la forma come organismo, vivente di vita propria e dotato di una legalità interna: totalità
2 Mentre anche Betti (1990: 205) rileva come: “carattere triadico del significare semantico […] che si
svolge fra tre termini: a) un soggetto (…) b) un oggetto, che è ‘expression’, ‘Gestalt’, Semàntema o forma rappresentativa […] c) un altro soggetto, attualmente o virtualmente presente, che è fulcro del senso e ‘parla’ attraverso l’oggetto”. L’impostazione bettiana è particolarmente feconda perché intende come (ivi: 206): “il semàntema della parola non sarebbe veramente significativo per chi in esso pensa, se esso non fosse significativo anche per altri soggetti. E non è possibile attribuire un significato alla parola che si pensa, se non la si riferisce alla comunione del parlare e alla totalità del discorso in cui la si adopra: onde, anche quando non sia in atto un processo comunicativo palese, può tuttavia dirsi che vi sia, in re ipsa, uno stato latente di comunicazione”.
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80 irripetibile nella sua singolarità, indipendente nella sua autonomia, esemplare nel suo valore, conclusa e aperta insieme nella sua definitezza che racchiude un infinito, perfetta nell’armonia e nell’unità della sua legge di coerenza, intera nell’adeguazione reciproca tra le parti e il tutto. In secondo luogo per mettere subito in chiara luce il carattere dinamico della forma, alla quale è essenziale l’essere un risultato, anzi la riuscita di un ‘processo’ di formazione, giacché la forma non può esser vista come tale se non la si scorge nell’atto di concludere, e insieme includere, il movimento di produzione che vi pone capo e vi trova il proprio successo. [Pareyson 2002: 7]
Vista alla luce di queste considerazioni programmatiche, la disposizione normativa appare come “forma formata” ma anche da considerare nella sua formatività: come forma che è conclusa e dotata di una legalità interna ma anche come “forma formante” (Ivi: 10), una forma col carattere dinamico dotato di vita propria, un’opera che formata non si esaurisce nell’atto di produzione ma, compiuto questo, rimane aperta a quella produzione continua che differenzia un’opera d’arte da una forma non artistica, una opera normativa da una forma fissata e replicata.
Quello che Pareyson chiede di considerare è come per alcuni tipi di opere la forma sia qualche cosa di diverso dalla semplice opposizione al contenuto, sia qualcosa che dice la sua formatività: “intesa come unione inseparabile di produzione e invenzione: ‘formare’ significa ‘fare’ inventando” (Ibidem) e sia qualcosa che non si arresta al momento del compimento, della produzione e rimane formatività di senso aperta all’interpretazione.
Formatività come formazione, prima.
Nell’arte, dice Pareyson, l’artista forma sempre la materia, e la forma secondo un
formare [che] significa, anzitutto, “fare”, poieîn […] si tratta di fare, senza che il modo di fare sia predeterminato e imposto, sì che basti applicarlo per far bene: lo si deve trovare facendo, e solo facendo si può giungere a scoprirlo, sì che si tratta, propriamente, d’inventarlo […] Formare, allora, significa “fare” e “saper fare” insieme. [Pareyson 2002: 59]
In questi termini formare significa inventare la forma, significa inventare trovare ciò che si inventa. E per aversi un formare, è semplice comprendere come serva un formatore, per l’arte serva un artista, per il diritto serva un giurista; ed infatti Pareyson subito chiarisce che “l’opera la fa l’artista” (Ivi: 78). La fa l’artista perché col procedere per tentativi e prove, per argomenti ed argomentazioni, si arriva dalla ispirazione, alla prova, dalla prova alla riuscita. Tanto che, l’espressione è teoreticamente tanto forte quanto impegnativa, “contenuto dell’arte è la persona stessa dell’artista, cioè la sua concreta esperienza, la sua vita interiore, la sua irripetibile spiritualità, la sua reazione personale all’ambiente storico in cui vive”. Ma questo non significa altro che l’artista forma e lo fa con tutto se stesso, nell’interezza del proprio se stesso. Però, detto questo e proprio perché si è detto questo, va sottolineato subito un apparente paradosso: l’opera la fa l’artista ma l’opera si fa da sé. Qui il “grande mistero dell’arte” (Ibidem) Un mistero che svela la non contraddittorietà se si pensa – come Pareyson invita a fare – ai due punti di vista: dell’artista che forma e dell’opera compiuta. Da una lato ci sono i tentativi e tutto il pathos (Ibidem) che qualifica e caratterizza il formare, dall’altro c’è l’opera, e formatività significa anche compimento, significa anche che l’artista, a lavoro riuscito, “giunge a porsi nel punto di vista dell’opera” (Ivi: 79); in questo momento lo sforzo personale e progressivo diventa opera.
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Perché se formare è lavorare la materia, se formare è inventare, scoprire, fare attraverso il saper fare, ciò che si forma è opera, compiuta una volta che la formazione è terminata. E opera significa, innanzitutto autonomia (Betti, 1990: 304 ss.). Significa osservare una forma – si sono già ricordate le parole iniziali e programmatiche di Pareyson – che è “organismo di vita propria” (2002: 97). L’opera, una volta compiuta è indipendente: “non dipende più dal suo autore, perché se n’è staccata per vivere per conto suo” (Ibidem). Ma cosa allora significa opera? Che forma ha/è la formatività?
Opera significa forma formata e compiuta ma, al contempo, questo non vuole dire
chiudere l’opera d’arte in sé stessa, proiettandola in un cielo intemporale in cui essa irrompe (…) proprio nella sua qualità artistica, cioè nella sua indipendenza e perfezione, l’opera d’arte include un passato e apre un futuro: come forma essa conclude un processo e ne inaugura di nuovi, perché è, insieme, compimento d’una formazione e stimolo di trasformazioni. [Pareyson 2002: 98]
C’è in questa forma formata anche un carattere che ha/è formatività: il profilo dinamico della formatività, la perfezione dinamica della formatività. Se non c’è questo essere compiuta, come forma che è però anche aperta, come formatività,
la perfezione dell’opera si irrigidisce in una fredda immobilità: l’armonia si congela in un mero decoro di corrispondenze, la totalità tradisce il carattere arbitrario o predisposto della costruzione, la forma si svuota in un’estrinseca formalità. [Pareyson 2002: 98]
La formatività è aperta e compiuta, è perfetta in quanto perfeziona progressivamente non perché si trasforma come materia ma perché si trasforma in quanto senso. L’opera, autonoma, ha una “vita propria”, ha una vitalità che non è quella iniziale che vi immette, col proprio agire, l’autore ma quella che vi immette col proprio agire l’interprete. L’interprete vivifica la forma e impedisce quella chiusura, quella immobilità vuota priva di mondo, priva di formatività.
Formatività come interpretazione, perciò.
Come interpretazione, perché la forma in continua formazione dell’opera ha un passato ed è aperta ad un futuro proprio in quanto è aperta alle tante interpretazioni che se ne potranno dare: “se formativa è tutta la vita spirituale, formativa dev’essere anche la conoscenza (…) la conoscenza umana in generale ha un carattere interpretativo” (Ivi: 179). Una vitalità che dice molto dell’opera ma anche dell’interpretazione come attività: “interpretare è una tal forma di conoscenza per cui, per un verso, recettività e attività sono indisgiungibili, e, per l’altro, il conosciuto è una forma e il conoscente è una persona” (Ibidem) tanto che la stessa interpretazione, la stessa attività interpretativa non si può comprendere se non come conseguenza della
applicazione alla conoscenza di due principi fondamentali per una filosofia dell’uomo: anzitutto il principio per cui ogni operare umano è sempre insieme recettività e attività, e in secondo luogo il principio per cui ogni operare umano è sempre personale. [Pareyson 2002: 180]
Solo considerando la conoscenza alla luce di questi due principi, per Pareyson, si ha interpretazione.
Questo significa che nell’interpretazione “è sempre una persona che vede e che guarda” (Ivi: 187), che dunque non avrebbe senso “né l’unicità né la definitività
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dell’interpretazione” (ibidem) perché “carattere specifico dell’interpretazione è che essa mira alla comprensione solo attraverso un processo che rischia continuamente l’incomprensione […] la vera comprensione […] è quella che si consegue al limite dell’incomprensione e dell’incomprensibilità” e questo, ancora, porta e deriva dal fatto che “solo la forma può essere interpretata, anzi esige d’esserlo, e solo la persona può interpretare, anzi esige di farlo” (Ivi: 186). Ecco perché l’opera, in quanto opera, è strutturalmente aperta alla sua esecuzione: “nasce ‘eseguita’” dalla formazione dell’artista e vive nelle esecuzioni che la formatività suscita e richiede. Alla vitalità che l’autore dona alla formatività, deve seguire la vitalità che l’interprete gli ridona: “l’esecuzione, dunque, è aspetto necessario e costitutivo” dell’opera” (Ivi: 223).
Ho seguito – anche molto da vicino – quanto Pareyson dice (esteticamente) della formatività; la formatività dell’opera d’arte, certo; ma il riferimento a questioni giuridiche non può non essere emerso3.
L’ipotesi, ormai esplicita, che avanzo è che quanto della formatività detto per l’opera d’arte vale anche per la formatività dell’opera giuridica; che – in altri termini – la norma ha una formatività, con tutto quello che segue con riferimento alla interpretazione ed al diritto.
E a ben vedere i tre momenti della formatività (come formazione, come opera, come interpretazione), in realtà, da un lato sono unitaria trattazione dell’opera e della sua struttura, dall’altro lato corrispondono alle componenti del “mondo del testo”: autore- opera-interprete.
Mondo che non è dell’autore o dell’interprete ma del testo, è bene precisare ed evidenziare, di quella formatività per la quale qualcuno dice qualche cosa a qualcuno.
A ben vedere, ancora, e così considerata la questione della formatività, autore e interprete sono elementi per il farsi da sé dell’opera; nella loro unità, i tre momenti delineano quell’arco (ermeneutico) che segna un nesso forte tra diritto ed essere umano.
Da qui, considerazioni ulteriori che nascono proprio dalla struttura ora evidenziata.
Una prima considerazione; si conferma la distinzione tra disposizione e norma ora alla luce strutturale della formatività che consente di intendere come da una disposizione sempre uguale a se stessa si possa arrivare a una pluralità di norme.
Una seconda considerazione; le norme sono possibili proprio perché frutto di interpretazioni che sono molteplici perché molteplici sono le esecuzioni dell’opera, molteplici gli interpreti che con la loro attività vivificano il testo.
Una terza considerazione; se disposizione e norma non coincidono, forse, è perché non c’è identità tra disposizione e diritto, nel senso che il diritto non può essere inteso come l’insieme delle disposizioni che compongono un ordinamento.
Una quarta considerazione; se c’è una differenza tra diritto e disposizioni e un nesso tra norma e interpretazione è forse perché c’è un nesso tra verità e diritto.
Una quinta e (conclusiva) considerazione; per comprendere il nesso tra verità e diritto e per evidenziarne le modalità, deve svolgersi il tema del nesso tra verità e interpretazione, sollecitato e richiesto proprio dalla struttura della formatività.
Questo perché la struttura della formatività – dall’attività dell’autore alla formatività dell’opera per finire con l’esecuzione dell’interprete – non ci sarebbero se non ci fosse una verità, interpretata dall’autore, imbrigliata (cioè in-formata) nell’opera e
3 Rinvio in senso ampio, sul punto al bel saggio di Viola (2013: 459-482), nel quale si delineano geometrie
e simmetrie tra arte e diritto sottolineando quanto siano d’età moderna molte questioni che queste sollevano e all’importante studio di Mittica (2014: 201-231), nel quale si evidenzia quanto sia antico e profondamente ancestrale il nesso tra nomos, mousiké ed eunomia.
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reinterpretata dall’esecutore (cioè ri-formata). Ma questo dice qualche cosa tanto dei caratteri della verità quanto dei caratteri dell’interpretazione.
Ed è quanto Pareyson esprime con la sua ermeneutica, dicendo che la verità è “ulteriore”, rispetto a qualsiasi formatività che la esprime, e “inesauribile”, rispetto alle formulazioni interpretative che la manifestano (1978: 43, 81 ss.). Si può allora affermare – riprendendone la tesi centrale – che “della verità non c’è che interpretazione e che non c’è interpretazione che della verità” (Ivi: 53).
Se questo lo caliamo e lo ambientiamo rispetto alla formatività ed al mondo del testo, abbiamo subito che interpreta l’autore della disposizione che forma secondo una sua interpretazione della verità così manifestata nella forma-testo, opera giuridica, interpreta il giurista che cerca di trarre fuori dal testo la norma, che interroga la disposizione per trarne fuori la norma giusta, quella che manifesta la verità che sola tramite interpretazione si dà, seppur solo parzialmente e solo tramite il lavoro personale dell’interprete.