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Il tema è Per la critica della violenza di Walter Benjamin1, il saggio pubblicato dall’«Archiv

für Sozialwissenschaften und Sozialpolitik» nel 1921. Il suo titolo originale è Zur Kritik der Gewalt. Un titolo che non lascia indifferenti, così denso, pur nella sua apparenza schietta e precisa, da esigere che si rimanga sulla soglia del testo, in uno stato d’arresto del pensiero, a riflettere intorno alle due parole che lo compongono: Kritik e Gewalt. Escludo però che il titolo costringa in un luogo chiuso di implicazioni. Il suo autore ha il potere delle chiavi. Né credo di forzarne il significato se lo riferisco a un reale contrasto o a una possibile unità dei due termini in gioco, come fosse un chiasmo filosofico; cioè se assumo il titolo come l’indice di una valutazione negativa, di un rigetto, di una condanna della violenza, o, viceversa, come la prova di un giudizio, di un esame che si dà i mezzi per discernere l’uso della violenza. Leggi. Sei tratto da una parte e vai per l’altra, esiti, prima di attraversare la porta che conduce tra le stanze in cui si custodisce il tesoro enigmatico, forse il più inquietante, del saggio. Kritik, critica, è una parola decisiva del giovane Benjamin. Risuona in essa un’eco kantiana, e non può essere diversamente per un pensatore che in quegli stessi anni avviava un programma della filosofia futura in cui il metodo trascendentale è rivisitato nella sua medesima possibilità metafisica, ben oltre la degenerazione e l’impoverimento imposti dall’illuminismo (Benjamin 1982a). Critica è la parola che sposta l’indagine dalle certezze della scienza ai limiti della conoscenza, dalla natura alla storia, come alla teologia, concentrandosi su quel che propriamente non è possibile recepire con la percezione né afferrare con il concetto. Critica apre un movimento. Significa percorrere l’intero dominio della possibile esperienza, tracciare delle linee per terra, fino al loro limite estremo, stabilire dove può spingersi il pensiero, riconoscere di non poter procedere oltre con le sue categorie, volgere lo sguardo al paese della verità, abbracciare un’isola che la natura chiude in confini immutabili, dopo esserci chiesto se possiamo accontentarci di ciò che questa terra contiene e a quale titolo noi la possediamo, cioè ne abbiamo diritto. Ma critica è anche ciò che impedisce di stare su questa terra ben fondata, arabile, che fugge via dal

* Domenico Sergio Scalzo è ricercatore di Filosofia politica presso il Dipartimento di Economia, Società,

Politica dell’Università di Urbino Carlo Bo.

1 Le citazioni del saggio Per la critica della violenza sono tratte da Angelus Novus a cura di R. Solmi (Benjamin

[1955] 1962), la celebre antologia cui si deve la diffusione del pensiero di Benjamin in Italia. Ma va detto che questo mio scritto sviluppa al massimo l’arte di citare senza virgolette, cara al filosofo tedesco.

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suo nomos, dalle sue misure, come se le facoltà in forza delle quali occupiamo una tale terra, la coltiviamo, la edifichiamo, non sono autoctone. Critica è quindi ciò che avverte il bisogno della ragione di arrischiarsi sul mare dei discorsi che circonda le proprietà dell’intelletto, ovvero è il medesimo intelletto che abbandona le proprie carte, che si fa viandante. Critica è l’intelletto preso dalla necessità di conoscere la propria forma, pronto a slanciarsi oltre la sfera delle apparenze, perché non è all’interno di un tale cerchio che esso ritrova la propria origine, perché non è l’ombra di un fenomeno il suo riparo. Critica è l’intelletto che esplora le vie di un oceano vasto e tempestoso, l’io penso che si espone alle antinomie delle idee, come un navigante attirato in avventure che non sa rifiutare e che, tuttavia, non può mai condurre a termine.

C’è nel concetto di critica di Benjamin come un’energia priva di espressione che proviene da un’arte nascosta dell’animo umano, una radice a noi sconosciuta che fa getto di sé in un’immaginazione passiva, direi orientale, mistica, che ascende agli estremi, che va oltre la forma. Un dettato che, come la rosa di Silesio, fiorisce senza un perché, germinando in un’opera che include in se stessa la propria negazione, tale che la sua maturazione nei frutti della conoscenza non può più raccogliersi, se essi non siano prima caduti in ciò che non viene trovato, non siano finiti nell’idea della cosa in sé, ma come un fenomeno ora assicurato nella propria inaccessibilità. C’è che un tale concetto di critica muove il proprio passo al di là della frontiera kantiana, verso un essere assoluto, al fine di una fondazione gnoseologica di un superiore concetto di esperienza, ovvero ripercorre a ritroso quella terra della verità, la sua partizione in giudizio, dirigendosi al suo principio, come se il pensiero avesse nostalgia della propria origine. E l’origine del flusso del divenire, cui resta immanente, nella misura in cui continua ad agire in esso, accompagnando il tentativo dell’altra di prendere il largo e di accedere a una sfera autonoma della conoscenza dalla neutralità totale rispetto ai concetti di soggetto e oggetto come da ogni loro dialettica relazione. Mi spiego. Un orientamento kantiano del pensiero guida la ricerca del concetto di critica del giovane Benjamin lungo le strade a senso unico che portano alla verità dell’opera d’arte nel romanticismo tedesco (Benjamin 1982b). E tuttavia non c’è pensiero che non si arresti d’improvviso in una costellazione satura di tensioni, che non provochi un urto in forza del quale la costellazione si cristallizza come una monade, producendo somiglianze, affinità, analogie tra fenomeni disparati. Corrispondenze simboliche, la cui temporalità è un attimo rapido, guizzante, imprendibile. Sono convinto che anche di un tale passaggio al limite del tempo, di questo errare della verità che muore all’intenzione della critica quale presa soggettiva espressa in un giudizio riflettente, di un sentimento aperto a un attraversamento partecipe dell’opera d’arte, vive l’immaginazione di Benjamin, il suo canto notturno sulle vie della lingua pura e della lingua degli uomini. Un fare esperienza nel quale a destarsi è la riflessione in vista di cui l’opera si scopre alla conoscenza di se stessa. Un’autocoscienza che compie la singolarità dell’opera, il suo essere individuale come monade, nel continuum dell’idea dell’arte, in cui l’opera è ora raccolta nel divenire delle proprie forme, adempiendosi la sua vita postuma, ora dissolta come manifestazione visibile dell’assoluto nel regno in cui ogni bellezza che appare si spegne. Ecco la critica cercare allora il contenuto di verità dell’opera d’arte, come il commento il suo contenuto reale, seguire la loro separazione mentre essi decidono della immortalità dell’opera, per cui la medesima distruzione diviene paradossalmente l’attimo del suo compimento, la redenzione della sua idea (Benjamin [1955] 1962). Ecco il messianesimo ebraico situarsi al centro della concezione romantica del tempo e della storia. Ecco la filosofia lottare per la rappresentazione di poche singole parole, che sono sempre di nuovo le stesse - le idee. E l’idea restituire il primato simbolico della parola, della parola che, a sua volta, rivendica il diritto a un proprio nome. Il nome proprio. Ecco sullo

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sfondo Platone, rosso di vergogna, che, nel ricordo, cerca di risalire a un’interrogazione iniziale, la filosofia, e con la navigazione, attraverso la tempesta dell’essere, nel mare mosso dei doppi discorsi, volendo salvare i fenomeni, concedere ciò che non è, ciò che non è stretto dai vincoli possenti della ben rotonda verità, ovvero che il primo ad assumere un tale comando fu Adamo, padre dell’uomo in quanto padre della filosofia. Ecco Atene rivolgersi verso Gerusalemme.

Gewalt è un termine complesso, di difficile traduzione in altre lingue, il cui significato comprende al tempo stesso potestas e violentia, la loro doppia referenza prima di ogni loro possibile distinzione. Ovvero la violenza legittima e la violenza illegittima, l’ambiguità del loro fenomeno catturata dal medesimo bando sovrano nel luogo in cui si stringe, appunto, il patto tra la forza e il diritto. Risuona in esso un’eco de La politica come professione di Max Weber ([1919] 2006). La violenza quale mezzo decisivo della politica. La definizione di Stato che ne segue, il potere che pretende per sé il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica, rappresentandosi quale fonte esclusiva del “diritto” all’uso della forza. E, più in generale, la sua idea di potere, il fatto per cui una volontà manifesta dei dominanti, il loro comando, vuole influenzare l’agire dei dominati, e di fatto lo influenza, in maniera tale per cui un tale esercizio, in un grado socialmente rilevante, viene eseguito come se i dominanti avessero fatto del contenuto del comando la massima della loro azione. Furio Jesi, che di traduzione e duplicità dei linguaggi si intendeva, nelle sue ricerche di scienza del mito - di una scienza di ciò che non c’è, perché il mito è il presunto motore immobile e invisibile di una macchina che funziona a meraviglia quando produce il nulla dal nulla esibendo il vuoto di potere come una forma spettacolare di dominio - ha scritto che il termine Gewalt può essere reso in italiano soltanto allineando l’una dopo l’altra le parole “violenza”, “potere”, “autorità”, come se le pronunciassimo di un fiato (Jesi 2002). Un soffio vitale della forza che solleva le pagine del libro della sovranità moderna fino a dove si cela il suo segreto, nel suo punto più oscuro, tra gli arcana di una rappresentazione dello Stato in cui l’autorità appare, ma come di spalle, rigirata su se stessa, mentre esce di scena, alla ricerca di un’altra fonte o di una ragion d’essere differente della propria persona teologica, abbandonando il dramma barocco della sovranità alla sua rovina. Un commiato o l’elaborazione di un teatro del lutto in cui una maschera malinconica, in luogo della propria figura, lo stato d’eccezione e l’impossibilità di deciderlo, lo stato d’emergenza come regola, la vigenza senza significato della legge, gioca violenza e potere, confonde i loro ruoli, recitando in una finzione che è insieme simbolo della loro potenza e allegoria della loro morte. Il sovrano che tiene in mano l’accadere storico come uno scettro e il teschio in cui si configura la facies ippocratica della storia come un pietrificato paesaggio primevo.

Apro Per la critica della violenza come fosse la scrittura cifrata del libro della sovranità moderna. Di un tale libro di favole dell’umanità, come Nietzsche una volta lo definì, dopo aver voltato la pagina che tratta della decadenza dello Stato, della morte e della rimozione del suo cadavere, per un’astuzia della democrazia, la mia ricerca darà forma a un’immagine dialettica (Nietzsche [1878] 1965). Avverto anch’io quanto sia vicino il tempo in cui le società private incorporeranno gli affari interni ed esteri dello Stato, tanto che persino di ciò che resta del vecchio lavoro del governare si finirà per provvedere da imprenditori privati, ma non credo che la fine dell’entusiasmo per lo Stato, l’idea per la quale lo Stato è un mistero, un’istituzione soprannaturale, dipenda soltanto dalla secolarizzazione dei concetti politici che ha scosso la venerazione e la pietà del popolo verso la sua istituzione. Un’altra potenza ha ripiegato allora le sue ali. Parole che dicevano che gli uomini sono tutti uguali sono state espropriate della forza del passato, private del canto della necessità, ridotte a canzoni da organetto, scaricate nelle reti del potere, ascoltate come l’eco di ritorno della propria voce. L’irruzione delle

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masse è stata catturata dall’estetizzazione della politica (Benjamin [1955] 1966). Lo scacco alla realtà è stata la mossa più furba della strategia fatale del capitale nell’epoca della sua riproduzione democratica. L’autoestraniazione dell’umanità ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di primo ordine. E, tuttavia, la sovranità del popolo può scacciare anche l’ultimo incantesimo del potere dello Stato, dopo le adunate di massa e l’acclamazione del proprio capo da parte del fascismo, soltanto quando la democrazia avrà dissolto in gloria il suo messaggio, cioè avrà moltiplicato e disseminato nei media, al di là di ogni immaginazione, l’essenza della propria rappresentazione, reinventando la sua morte ed esaltandola come vita. Ovvero quando il “nuovo idolo” si sarà decapitato da solo la propria testa e l’avrà lanciata nell’etere, squarciando il velo di maia che separa il pubblico dalla pubblicità, come fosse protagonista dello spettacolo in cui opinione e consenso si scambiano le parti in barba all’agire comunicativo e a ogni deliberazione ben informata di una cittadinanza attiva. Una tale crisi della rappresentazione - delle sue regole come dei suoi valori, delle sue procedure come dei suoi riti, della manipolazione del linguaggio politico, ma più in generale del manifestarsi di un vuoto di senso della democrazia, dell’infinito intrattenimento del proprio discorso in luogo dell’intesa o del carattere performativo della sua parola, della decisione alla fine di ogni mediazione parlamentare, quando la sua costituzione diviene flessibile, funzionale al dispositivo del governo come alle tecniche dell’economia - è già all’opera in Zur Kritik der Gewalt.

Attraverso quella porta. La stanza che mi accoglie si arreda di uno stile singolare del pensiero. Non è un interno borghese, un intérieur, non ha l’aria di una camera in cui è stato appena commesso un delitto. La concentrazione è totale, non si cade mai nel banale. Le frasi sono sature di idee. Ognuna è scritta come se fosse la prima o l’ultima, come se dovesse dire tutto, quasi che fosse congeniale alla scrittura arrestarsi e ricominciare da capo a ogni frase. Uno sparo. Capisci che l’esecuzione di un tale stile abbia qualcosa di disumano, come il carattere distruttivo sia già al lavoro, che ogni argomentazione impegna il suo autore in tutta la sua persona. Ti fermi all’incipit:

Il compito di una critica della violenza si può definire come l’esposizione del suo rapporto col diritto e con la giustizia. Poiché una causa agente diventa violenza, nel senso pregnante della parola, solo quando incide in rapporti morali. La sfera di questi rapporti è definita dai concetti di diritto e di giustizia. [Benjamin (1955) 1962: 5]

Ti viene in mente un pensiero di Pascal su forza e giustizia, ricordi quello che dice, la giustizia senza la forza è impotente e la forza senza la giustizia è tirannica, e poi che occorre congiungere giustizia e forza, facendo in modo che quel che è giusto sia forte e quel che è forte sia giusto, affinché la giustizia non sia contraddetta o la forza riprovata. Ma ne rammenti anche il resto, quello che forse spinse Arnaud a omettere questo pensiero nell’edizione di Port Royal, che la giustizia è soggetta a contestazione mentre la forza si fa riconoscere di primo acchito, e senza dispute. Ovvero che nonostante il generale biasimo la forza si è levata contro la giustizia, affermando che essa solo è giusta. “E così – mi pare concluda il suo genio - non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto” (Pascal [1897] 1978: 228). Certo un tale pensiero rimanda al peccato originale, alla corruzione della ragione, e, tuttavia, le cose stabilite dalla forza valgono anche, al secolo, per il diritto. Del vero diritto e della vera giustizia conserviamo soltanto ombre e immagini. Un simulacro di verità - giusto la rappresentazione può conferire certezza al suo soggetto - la credenza che la giustizia del diritto, la giustizia come diritto, sia giustizia.

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Non la verità, dunque, ma l’autorità fa le leggi. Noi non ubbidiamo alle leggi in quanto le riteniamo giuste bensì perché diamo credito alla loro autorità. Un’autorità che cessa d’aver voce nel contratto da cui nasce l’obbligazione politica. Un’autorità, il cui silenzio è murato nella pietra di fondazione come uno scrigno del nulla. Ti sovviene ancora un pensiero di quell’uomo.

Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza, un meridiano decide della verità, nel giro di pochi anni le leggi fondamentali cambiano, il diritto ha le sue epoche; […] Singolare giustizia, che ha come confine un fiume. Verità di qua dai Pirenei, errore di là. [Pascal (1897) 1978: 225]2

Spazi sterminati si aprono di là dal diritto. E tu nel pensiero non puoi fingere più che una stella orienti il cammino. Ora sai che non si dà commensurabilità tra diritto e giustizia, che un abisso si è scavato nella terra ben fondata della verità, che una discrepanza che suscita sgomento esiste tra le due sfere. L’esperienza del mondo ti ha insegnato che il diritto non è la giustizia, che il diritto ha una relazione intima con la forza, che esso, benché non sia al servizio del potere, riceve la sua forza dalla struttura violenta dell’atto fondatore, mentre la giustizia viene da sé ma come la possibilità dell’impossibile, forse il medesimo tempo della redenzione, come l’idea di una lingua pura che compie ogni discorso, che si rinnova alla fonte della parola, ogni qualvolta il diritto si esercita in suo nome. Hai letto dei frammenti di Benjamin o degli schizzi preparatori a lavori che non hanno visto la luce. Lo hai fatto per entrare con il passo giusto nello spirito del saggio. Uno, di cui dà notizia Gerhard Scholem, dice che la giustizia è lo sforzo di fare del mondo il sommo bene, che la giustizia, in fin dei conti, può solo essere come stato del mondo o come stato di Dio (Benjamin [1955] 2010). Mediti su come la giustizia si sottragga alla buona volontà del soggetto, scavi un abisso dal diritto, divenga la parte etica della lotta, esiga una responsabilità verso il mondo. L’altro, recuperato da Giorgio Agamben, suona ancora più perentorio, solo il Messia porta a compimento tutto l’accadere storico nel senso che egli redime, compie e produce la relazione tra questo e il messianico stesso (Benjamin 1982c). Comprendi come nulla di ciò che storico può porsi da se stesso in relazione al messianico, come nessun ordine mondano, quand’anche sia riconosciuto legittimo e sostenga il tentativo del diritto di realizzare la giustizia, può essere costruito per la salvezza degli uomini. Rileggi una frase del Frammento Teologico-politico, una citazione che non ti stanchi di appuntare ad ogni testo che scrivi come una gala al vestito:

Per questo il regno di Dio non è il telos di una dynamis storica, esso non può essere posto come fine. Da un punto di vista storico, esso non è il fine, ma la fine. [Ivi: 171]

La giustizia inizia il suo viaggio al termine della notte del diritto, esige il suo adempimento, il suo tramonto, che calino quelle tenebre, per albeggiare sul mondo, rivelarsi al sole dell’avvenire, sebbene essa stessa resti inadempibile per il diritto, mai valicabili i Pirenei. La giustizia come principio di ogni finalità divina è veramente un altro giorno, il giorno levante, dal potere quale principio di ogni diritto mitico. Eppure un rapporto si dà tra diritto e giustizia. Avvistarlo presuppone che si scruti la loro reazione con la Gewalt. Vivere l’ora della sua conoscibilità. Orientarsi nella relazione tra violenza e diritto, all’incrocio tra la violenza che pone e la violenza che conserva il

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