Lanfranco Ferroni *
3. La precomprensione o “aspettativa di senso”, quale strumento necessario per l’individuazione della soluzione interpretativa più
adeguata, opportuna e pertinente ai valori ed agli interessi reputati
preminenti, in un dato momento storico, all’interno di una data
società
Nel paragrafo 1 si è fatto riferimento anche alla precomprensione quale strumento del quale il giurista può avvalersi.
Con tale termine, nel suo significato filosofico più ampio, s’intende rappresentare che il pensiero, quando si accinge intenzionalmente a conoscere qualcosa (ad es., in
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particolare, un testo scritto), tende ad attribuire all’“ente da indagare o conoscere” un significato in qualche misura preconcetto, che, tuttavia, non può reputarsi arbitrario perché riflette il senso o l’accezione in cui la tradizione della comunità in cui il ricercatore è inserito, intende quell’“ente”.
E quando per comprendere un “ente” presente si deve indagare nel passato, questa indagine del passato o intorno al passato risulta oggettivamente impossibile perché la cultura presente, attuale, genera inevitabilmente una precomprensione che rende la visione del passato qualcosa di diverso dal passato stesso.
Nel suo significato giuridico, il termine precomprensione sta ad indicare che l’interpretazione dei testi normativi è sempre influenzata da previe valutazioni di opportunità, di realizzabilità e di giustezza di un progetto decisionale, le quali ne condizionano inevitabilmente gli esiti.
Gli ingredienti della precomprensione sono molteplici: la formazione dell’interprete, i canoni o argomenti interpretativi, le figure dogmatiche consolidate, l’opinione dottrinale prevalente, i princìpi dell’ordinamento e lo strumentario concettuale dei quali si avvale la prassi giudiziaria che è chiamata a realizzare una forma di mediazione di interessi.
E la precomprensione è legittima, plausibile ed adeguata e comunque tale da evitare il travisamento dei testi normativi – secondo il pensiero di Gadamer – quando riesce ad assicurare e garantire l’“accordo” tra il testo giuridico interpretato e la “cosa stessa” che quello regola.
Si tratta dello stesso risultato cui perviene Paola Mittica (2014: 229 ss.), nel suo bel saggio sulla mousiké, quando afferma che “[…] l’armonia [accordo?] è in estrema sintesi proporzione delle differenze” e laddove reputa “[…] che la saggezza possa ancora discendere da una particolare sensibilità poetica nell’individuare la proporzione, e nel restituirla nelle umane vicende”. Ed infine là dove conclude:
Si tratta di avvicinarsi e intercettare l’armonia nel significato originario di ‘armonizzazione di differenze’ senza che un’architettura armoniosa possa essere individuata una volta per tutte; nella consapevolezza che l’unica qualità costante della vita sia la sua multiformità crescente. [Mittica 2014: 231]
Al fondo di queste affermazioni s’intravede un’esigenza di superamento del dogmatismo, del concettualismo e del formalismo. Esigenza, questa, in attuazione della quale
[L]o strumentario concettuale non deve porsi come ostacolo all’intelligenza del caso concreto, del fatto, né deve contribuire a sacrificare le particolarità soggettive, ambientali, quantitative del fatto sia pure considerato nella ‘totalità dell’esperienza’ [in altri termini, non deve verificarsi quella singolare inversione per cui, in ossequio alle categorie concettuali, si operi una compromissione o un sacrificio delle peculiarità del fatto (‘ex iure oritur factum’) piuttosto che non il contrario (‘ex facto oritur ius’)]. Ciò non significa che oggetto della valutazione critica e ricostruttiva debba essere ‘il principio di diritto che l’esperienza abbia mostrato operante nell’ordinamento’ e che la proposizione normativa non abbia un’autonoma ed a volte innovativa portata rispetto alla corrente interpretazione. La storicità del fatto e della sua valutazione giuridica postulano che nel giudizio sia presente tanto l’esperienza del passato quanto quella del presente, il profilo strettamente storico e quello sociologico [oltre a quello economico], sì che l’esperienza non è il valore o l’oggetto normativo, non è la realtà dell’ordinamento giuridico; essa, piuttosto, concorre all’individuazione della realtà normativa che può ben esprimere valori anche più progrediti rispetto all’interpretazione corrente sia pure giurisprudenziale.
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100 Ciò consente di respingere ogni tentazione di realismo giuridico, sia pure espresso in termini, per così dire, di effettività empirica o sociale, e di sottolineare, accanto all’esperienza giurisprudenziale, del passato e del presente, la necessità di rispettare la singolarità di ogni fatto concreto e la dinamica dell’ordinamento giuridico nella sua unitarietà esprimente valori e valutazioni che spesso si pongono in netto, a volte aperto, dissenso dalle interpretazioni dominanti. [Perlingieri 1979: 67 s.]
Anche con riguardo a quanto qui affermato sembra opportuno offrire delle esemplificazioni a chiarimento.
Caso C.
Quale esempio della tendenza a piegare alle costruzioni e categorie giuridiche le stesse ricostruzioni e qualificazioni dei fatti concreti (tendenza ben stigmatizzata da Piero Calamandrei laddove, dopo aver premesso che “Ex facto oritur ius è una vecchia massima, cauta ed onesta, che impone a chi vuol ben giudicare di accertare prima di tutto, con fedeltà pedantesca, i fatti di cui si discute”, soggiungeva che però “[…] certi avvocati [e si potrebbe aggiungere certi magistrati e certi studiosi del diritto] la intendono a rovescio: quando hanno escogitato una loro brillante teoria giuridica che si presta a virtuosismi del facile ingegno, i fatti se li aggiustano alla lesta, secondo le esigenze della teoria; e così ‘ex iure oritur factum’” (Calamandrei 2008: 161), si possono indicare le vicende giurisprudenziali che hanno interessato i contratti preliminari ad effetti anticipati, frequentemente utilizzati nella prassi delle compravendite immobiliari, in cui al promissario acquirente viene immediatamente consegnato il bene alienando ed al promittente venditore viene corrisposto in tutto o in parte il prezzo, in via anticipata e, cioè, prima della conclusione del contratto definitivo, al perfezionamento del quale soltanto dovrebbero conseguire, da un lato, la produzione dell’effetto traslativo (e con esso dell’obbligo di consegna) e, dall’altro, l’insorgere dell’obbligazione di pagamento del prezzo.
La questione principale sottesa a tale prassi contrattuale si risolve nel precisare se la situazione giuridica nella quale viene a trovarsi il promissario acquirente a seguito dell’anticipata consegna del bene, sia qualificabile come possesso ovvero come detenzione. E la soluzione di tale interrogativo si rivela poi prodromica e funzionale per stabilire se il promissario acquirente immesso anticipatamente nel rapporto materiale col bene, possa di questo usucapire la proprietà, nel caso in cui tale rapporto si sia protratto per il tempo a tal fine previsto dalla legge, senza che nel frattempo sia intervenuta la conclusione del contratto definitivo.
Tale questione, tuttavia, rimanda a sua volta ai noti problemi ed alle incertezze che hanno caratterizzato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale in ordine ai rapporti tra i due negozi, preliminare-definitivo, che compongono la sequenza.
Com’è noto, pur essendo prevalsa la tesi che ha riconosciuto natura negoziale al definitivo (se si eccettua la posizione isolata di una autorevole dottrina la quale aveva invece sostenuto che soltanto il preliminare avrebbe natura negoziale, non anche il definitivo che si configurerebbe come atto dovuto meramente riproduttivo del contenuto del preliminare e che si presenterebbe dunque privo del carattere della libertà e spontaneità che è presupposto indefettibile di ogni attività negoziale), si è poi però discusso se la fonte del regolamento contrattuale e dunque la causa efficiente degli effetti sia da rinvenirsi nel preliminare ovvero nel definitivo.
Al riguardo si sono formati due orientamenti: secondo il primo, il contratto definitivo andrebbe a sostituire integralmente il preliminare così ponendosi come unica fonte del rapporto giuridico; per il secondo (che può reputarsi prevalente), invece,
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sarebbe il preliminare ad assumere un ruolo centrale ed a porsi come fonte dell’unico regolamento contrattuale, mentre il definitivo costituirebbe un mero atto di adempimento vincolato.
Questo secondo orientamento, di là dalle molteplici sfaccettature e diversità di costruzione prospettate dalla dottrina, ha finito sostanzialmente per inquadrare la sequenza preliminare-definitivo nello schema del titulus-modus adquirendi, proprio del diritto tedesco, così qualificando il preliminare come una vera e propria vendita obbligatoria, e riservando al definitivo una funzione meramente solutoria.
Da queste premesse di carattere generale sui rapporti preliminare-definitivo si deve muovere anche per affrontare i problemi posti dal preliminare ad effetti anticipati, in cui, cioè, le parti contraenti non si limitano ad assumere l’obbligo di contrarre ma anticipano l’esecuzione di prestazioni (consegna del bene e pagamento del prezzo) che dovrebbero invece seguire alla stipula del contratto definitivo.
L’apparente antinomia fra la funzione propria del preliminare (che dovrebbe generare soltanto effetti obbligatori) e la produzione di effetti che dovrebbero ricollegarsi soltanto al definitivo contratto di vendita è stata variamente risolta.
A fronte di una tesi risalente e superata che nel preliminare ad effetti anticipati ha intravisto una vera e propria vendita, si sono registrati due ulteriori orientamenti che, pur continuando a ravvisarvi i caratteri di un vero e proprio preliminare, lo ha qualificato come un contratto innominato o atipico (il contratto preliminare si porrebbe come mero titolo provvisorio che integra il segmento di una sequenza procedimentale i cui effetti finali sono desinati a prodursi col definitivo), ovvero come contratto misto (la cui causa sarebbe costituita in parte da quella propria del preliminare ed in parte da quella del definitivo). Infine, invocando il principio di autonomia contrattuale, si è comunque affermato che il contratto preliminare, ancorché, di per sé, caratterizzato da una efficacia obbligatoria, non sarebbe incompatibile con l’esecuzione anticipata della consegna del bene e del pagamento del prezzo (il preliminare costituirebbe così il “titolo provvisorio” dell’esecuzione di quelle prestazioni che costituiranno oggetto del definitivo).
A prescindere dagli orientamenti più risalenti (secondo i quali il preliminare ad effetti anticipati veniva ricostruito come vendita definitiva a tutti gli effetti, sì che, inevitabilmente, la situazione del “promissario” acquirente veniva qualificata come possessoria) la giurisprudenza in tempi relativamente recenti (v. Cass., 13 luglio 1993, n. 7690), pur continuando ad attribuire al preliminare natura di contratto ad effetti obbligatori, ha precisato che, al fine di stabilire se la situazione nella quale versi il soggetto immesso nel godimento di un bene sulla base di una convenzione sia qualificabile come possesso (in quanto tale idoneo a giustificare l’usucapione) ovvero come detenzione, si dovrebbe prima accertare se la convenzione medesima abbia efficacia reale ovvero obbligatoria. Soltanto nel primo caso potrebbe parlarsi di possesso. Tuttavia tale principio veniva disatteso e/o disapplicato, proprio nelle “[…] convenzioni che, per quanto con effetti soltanto obbligatori, tendono a realizzare il trasferimento della proprietà del bene o di un altro diritto reale su di esso quando ad essi acceda un patto accessorio di immediato effetto traslativo del possesso sostanzialmente anticipatore degli effetti traslativi del diritto che, con la convenzione le parti si sono ripromesse di realizzare”. E si soggiungeva che “Nelle ipotesi predette, tra le quali rientra quella più diffusa del contratto preliminare di compravendita, la convenzione non tende solo ad attribuire il godimento del bene […], ma è in funzione di un comune proposito di trasferimento della proprietà […], alla quale è coerente il passaggio immediato del possesso, che costituisce solo un’anticipazione dell’effetto giuridico finale perseguito.” [così, testualmente, Cass., 13 luglio 1993, n. 7690].
Tale posizione non risultava tuttavia univoca, in quanto in altre pronunce si escludeva, invece, che potesse sussistere l’animus rem sibi habendi necessario per
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l’usucapione “[…] nel caso in cui il godimento dell’immobile sia stato disposto in favore del promissario con apposita clausola del contratto preliminare – ovvero con un atto negoziale a tale contratto intimamente connesso – che per definizione è un contratto ad effetti obbligatori e non reali.” (Cass., 30 maggio 2000, n. 7142).
Si è registrata nel frattempo una significativa ed autorevole giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass., Sez Un., 27 febbraio 1985, n. 1720 e 18 maggio 2006, n. 11624) che ha determinato un progressivo arricchimento del contenuto tipico del preliminare in una con l’abbandono della concezione che vi ravvisava un mero pactum de contraendo, al fine di assicurare alla parte reputata normalmente più debole (il promissario acquirente) maggiori garanzie e tutele:
- dapprima col riconoscimento al promissario acquirente anticipatamente immesso nel godimento del bene della possibilità di esperire le azioni edilizie (actio redibitoria ed actio quanti minoris) reputate dall’orientamento tradizionale invocabili soltanto a seguito della vendita definitiva;
- successivamente col superamento del principio di intangibilità del preliminare in applicazione del quale era inibito al giudice in sede di pronuncia ex art 2932 c.c. di discostarsi dalle previsioni contenute nel preliminare, ancorché le sopravvenienze ne avessero determinato in qualche misura l’iniquità.
- infine (con la pronuncia delle Sez. Un. del 18 maggio 2006, n. 11624) con l’ampliamento del contenuto tipico del preliminare, nel quale si è riconosciuta la coesistenza di due distinte ma correlate funzioni: una di facere (la prestazione del consenso) ed una di dare (trasferire), ancorché futura.
La più recente pronuncia in materia (Cass., Sez Un., 27 marzo 2008, n. 7930), pur riconfermando la compatibilità della stipula di un preliminare di compravendita con pattuizioni di esecuzione anticipata della traditio e/o del pagamento anche integrale del prezzo, ha puntualizzato che, quando sulla base dell’indagine compiuta ex art 1362 c.c. risultasse che le parti, seppur contestualmente prevedendo l’esecuzione anticipata delle prestazioni (consegna del bene e pagamento del prezzo) che costituiscono oggetto del definitivo, avessero comunque inteso chiaramente escludere l’effetto reale tipico del definitivo, dovrebbe allora escludersi che la situazione del promissario acquirente possa essere qualificata come possesso. Ciò in quanto il possesso, concretandosi in un’attività che può si essere intrapresa ma mai autonomamente trasferita, non può trasmettersi disgiuntamente dal diritto del quale esso costituisce l’esercizio. Il promissario acquirente pertanto sarebbe mero detentore, seppur qualificato.
Il requisito dell’animus possidendi (necessario per la configurazione della situazione possessoria) non sarebbe configurabile ogniqualvolta il godimento del bene derivi da una convenzione negoziale cui non accedano effetti reali. Alla stregua di questa concezione oggettiva in cui viene assunto il concetto di possesso, l’elemento discretivo tra possesso e detenzione viene individuato non già (soltanto) nell’animus possidendi, bensì (anche e soprattutto) nel titolo in forza del quale si è iniziato ad esercitare il potere sulla cosa. In altri e più chiari termini, laddove il godimento del bene sia stato convenzionalmente attribuito, ciò che rileva ai fin della qualificazione del rapporto di fatto come possesso ovvero come detenzione è la natura, rispettivamente, degli effetti reali ovvero obbligatori del contratto.
Dal punto di vista ricostruttivo, nella peculiare fattispecie del contratto preliminare ad effetti anticipati, le Sezioni Unite rinvengono “[…] la convergenza in un’unica convenzione, degli effetti costitutivi di più contratti tipici”. In altri termini, al fine di giustificare la compatibilità del preliminare, reputato contratto ad effetti
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esclusivamente obbligatori, con l’esecuzione anticipata di prestazioni che dovrebbero conseguire soltanto alla stipula del definitivo, si opta per la tesi del collegamento negoziale. Il quale si realizzerebbe fra il preliminare (contratto ad effetti obbligatori), il contratto di comodato (sul quale si fonderebbe e giustificherebbe la consegna anticipata del bene) ed il contratto di mutuo gratuito (sul quale si fonderebbe il pagamento anticipato del prezzo).
Innanzitutto, come si è già posto in risalto, dal nuovo orientamento inaugurato dalle Sezioni Unite con la pronunzia ora richiamata e riassunta nei suoi passaggi argomentativi, deriva che la situazione in cui versa il promissario acquirente deve essere qualificata come mera detenzione (alla stessa stregua di come viene qualificata la posizione del comodatario). In secondo luogo e conseguentemente si deve escludere che il promissario acquirente possa usucapire il bene, in difetto dell’essenziale presupposto di tale acquisto a titolo originario, rappresentato dal possesso.
Dovrebbe derivarne, anche, una battuta d’arresto della tendenza evolutiva della figura del preliminare riscontrabile nella precedente giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass., Sez Un., 27 febbraio 1985, n. 1720 e 18 maggio 2006, n. 11624); linea evolutiva che, come sopra sottolineato, era volta ad ampliare il contenuto tipico del preliminare (nel quale, oltre al pactum de contraendo, si ravvisava anche il quid pluris rappresentato dal futuro dare) al fine di meglio tutelare il promissario acquirente, reputato contraente debole.
Viene da chiedersi anche se, col recente orientamento che è tornato a ricollegare al preliminare soltanto effetti obbligatori (l’obbligo a contrarre), possa ancora giustificarsi la possibilità dell’esperimento (anticipato) da parte del promissario acquirente delle azioni edilizie.
Parimenti viene da chiedersi se un passo indietro non sia stato compiuto anche in ordine alla connessa questione dell’intangibilità del preliminare.
Quali che siano le risposte agli interrogativi ora posti, alla nuova ricostruzione (del collegamento negoziale) operata dalle Sezioni Unite con la sentenza del 27 marzo 2008, n. 7930, possono essere mosse significative censure.
Dubbi possono essere espressi in ordine alla riconduzione della consegna anticipata del bene nell’ambito della figura del comodato, come pure alla qualificazione in termini di mutuo gratuito del pagamento anticipato del prezzo. Tali qualificazioni, infatti, da un lato, sembrano tradire gli intenti pratici perseguiti dalla parti in sede di contrattazione preliminare ad effetti anticipati, e, dall’altro, non paiono neppure tecnicamente compatibili con tali finalità.
Infatti, il comodato nella sua configurazione legislativa tipica presuppone necessariamente l’obbligo di restituzione della cosa attribuita in godimento, mentre, al contrario, nelle contrattazioni preliminari complesse è assolutamente esclusa qualsiasi previsione di restituzione, intendendo le parti assicurarsi la “disponibilità” anticipata e provvisoria di effetti destinati (semplicemente) a consolidarsi (non già a prodursi) con la conclusione del definitivo.
Parimenti, il mutuo, ancorché gratuito, reclama sempre, quale suo indefettibile presupposto causale, la restituzione del tantundem, ciò che, invece, non è dato affatto riscontrare nel preliminare complesso, in cui il promittente venditore, nel ricevere anticipatamente il pagamento del prezzo, reputa di aver già definitivamente consolidato nel suo patrimonio l’acquisto della somma di denaro, senza minimamente prefigurarsi di doverla restituire.
Infine deve osservarsi come assolutamente inconcepibile sia il collegamento negoziale che viene instaurato fra due negozi, entrambi gratuiti, che si suppongono autonomi (comodato e mutuo). Invero le prestazioni anticipate della consegna del bene
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e del pagamento del prezzo, lungi dal configurarsi come autonome ed indipendenti concessioni gratuite, si fondono nel preliminare in una sorta di relazione sinallagmatica, costituendo una modalità mediante la quale si realizza il riequilibrio degli interessi.
Insomma, la costruzione da ultimo propugnata dalla giurisprudenza non è affatto condivisibile, anche perché, anziché muovere dai concreti interessi versati nel preliminare complesso ai fini della qualificazione (ex facto oritur ius), sembra voler aprioristicamente e forzatamente applicare le categorie concettuali tradizionali (cioè, le figure tipiche del comodato e del mutuo), così adattando ad esse, con una singolare inversione di metodo, il ben diverso assetto di interessi che le parti con la contrattazione preliminare ad effetti anticipati intendono perseguire, ed invertendo, singolarmente, i termini del principio: ex iure oritur factum.
Caso D.
Con riguardo alla questione, di grande rilevanza sociale, della tutela degli investitori posta in maniera drammatica dai ben noti fenomeni distorsivi del mercato finanziario (dai bonds argentini sino ai bonds Lehman), le Sezioni Unite della Cassazione (il riferimento è alle due sentenze gemelle nn. 26724 e 26725 del 19 dicembre 2007), anziché ispirarsi ai nuovi principi generali del sistema italo-comunitario delle fonti ed alle esigenze di effettività della tutela dei contraenti deboli lesi o danneggiati, hanno risolto il problema (o meglio non l’hanno risolto affatto), riaffermando (o meglio riesumando) la piena e generalizzata vigenza della distinzione concettuale fra “regole di validità e regole di comportamento” (secondo la quale soltanto la violazione delle prime genererebbe la nullità, mentre la violazione delle seconde determinerebbe sempre l’insorgere di una responsabilità precontrattuale o contrattuale) elaborata dalla dottrina esclusivamente sulla sistematica del codice civile del 1942.
Un ruolo del tutto marginale, nella motivazione della sentenza, è assegnato e riconosciuto alla legislazione di derivazione comunitaria, la quale, peraltro, si rivela assolutamente coerente col principio costituzionale di eguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2, cost.), del quale, in fondo, il principio di proporzionalità rappresenta una più moderna rappresentazione. Vi si legge, infatti, che: “l’assunto [sostenuto nell’ordinanza di rimessione] secondo il quale, nella moderna legislazione (anche per l’incidenza della normativa europea) la distinzione tra norme di validità e norme di comportamento starebbe sbiadendo e sarebbe in atto un fenomeno di trascinamento del principio di buona fede sul terreno del giudizio di validità dell’atto non è sufficiente a dimostrare il già avvenuto sradicamento dell’anzidetto principio nel sistema del codice civile […]. Il carattere sempre più frammentario e sempre meno sistematico della moderna legislazione [piuttosto che sollecitare l’opera necessaria di sistemazione organica