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L’immaginazione nel diritto (penale) e la mobilitazione dei sentimenti per motivare l’adesione alla legge

Gabrio Forti *

3. L’immaginazione nel diritto (penale) e la mobilitazione dei sentimenti per motivare l’adesione alla legge

Il passaggio successivo e conclusivo cui vorrei dedicarmi concerne alcuni risvolti pratici (nel senso anche di una rilevanza nella sfera della “ragion pratica”) del confronto tra forme letterarie e giuridiche che oggi esaminiamo. Mi limiterò solo a qualche cenno in argomento, rinviando ad altra fonte per qualche maggiore approfondimento (Forti 2013b). Vorrei in sostanza cercare di tematizzare la questione del se e del come l’immissione della “fluidità senza confini della scrittura letteraria” (che ho cercato di descrivere come un costante intrecciarsi e interagire delle sue due “forme”) nel tessuto del sistema giuridico possa contribuire all’osservanza dei precetti e, quindi, al conseguimento dei risultati di tutela cui la loro previsione e applicazione sono indirizzate.

Si tratta, come accennato in apertura di questa mia riflessione, di una tipica questione kantiana (Kant [1788] 1955: 94), che assume accresciuto rilievo ai giorni nostri. Essa investe il ruolo dei sentimenti nella motivabilità dei soggetti al comportamento conforme e pone al giurista, specie a quello che abbia finalmente maturato una sensibilità politico-giuridica (Preterossi 2011) o politico-criminale, l’interrogativo riguardante le tecniche di formulazione dei testi normativi più idonee a renderli riconoscibili e indirizzare i sentimenti delle persone verso l’osservanza dei precetti o, come anche è stato detto, a realizzarne una “obbedienza intelligente” (Conte 1997).

Con tutte le immancabili e doverose distinzioni tra sfera giuridica e morale (Dworkin 2013: 454 ss.), non credo si possa negare che l’intero diritto e, specialmente, il

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diritto penale debba considerare l’istanza morale tutte le volte in cui sia intenzionato – ma soprattutto vincolato dai suoi princìpi – a convincere i destinatari delle norme, con diversa intensità, in ciascuna delle molte fasi in cui si articola la criminalizzazione, circa la necessità dell’osservanza. Ne consegue che esso debba appoggiarsi, in almeno una di queste fasi (e comunque immancabilmente nell’ultima, quella “rieducativa”), alla “forza motivazionale del giudizio morale”.

Ciò implica una certa consapevolezza del ruolo svolto dalle emozioni e dai sentimenti sia nella ricettività delle persone alle prescrizioni giuridiche, sia nelle condizioni necessarie a rendere effettivi i diritti fondamentali e i principi di giustizia.

A proposito del giudizio morale, si è detto (non a caso ispirandosi alle classiche riflessioni kantiane) che la sua autorevolezza dipende dal fatto che esso “ci impegna ad allontanarci dalla prospettiva particolare e personale dell’auto-interesse e cercare ‘la corda con la quale tutti gli uomini hanno un accordo armonico’”: un accordo che “è garantito da un comune sentire, e questo sentire garantisce anche la forza motivazionale del giudizio morale”(Bagnoli 2007: 156).

Una certa elaborazione di filosofia morale ha dato conto di come il mantenimento di una tale “comunanza” sia fondamentale per il processo deliberativo e decisionale del singolo attraverso il quale si perviene alla “attualizzazione” della regola in rapporto alla situazione concreta: percorso necessario affinché questa sia in grado di orientare le condotte individuali.

L’attivarsi di un tale percorso, al contempo cognitivo e morale, dipende largamente dall’operatività e dalla buona manutenzione nell’ambiente sociale di quelle che sono state dette le “norme di salienza”, che “consentono di avere una comprensione della situazione come di una situazione morale di un certo tipo” (Ivi: 139). All’attivazione della procedura deliberativa, sarebbe dunque preliminare la caratterizzazione della situazione in termini morali, attraverso “una fase ricognitiva delle sue caratteristiche rilevanti”, che è governata, appunto, da criteri di salienza: “le norme di salienza rendono valutativa una descrizione, cioè ci danno modo di usare categorie che mettono a fuoco certi aspetti della situazione come descrittivamente e al tempo stesso valutativamente significativi”.

Si tratta di un meccanismo icasticamente rappresentato dalla situazione del passante che si imbatte in una bambina in bilico su un ponte e che, grazie all’efficace operare delle sue norme di salienza, è mosso a intervenire istintivamente per impedirne la caduta: tali norme gli hanno permesso di dirigere lo sguardo verso la bambina e “ritagliare mentalmente questo frammento del proprio campo visivo”, con “un’o- perazione epistemica e percettiva che comprende già categorie valutative” (Ivi: 138 ss.). Se ciò avviene è perché si è stati in grado di “prestare attenzione alla bambina, darle im- portanza, dare più importanza a lei che all'arcobaleno che sta attraversando il cielo”.

Uno dei problemi maggiori che incontra ogni forma di regolazione, ivi compresa quella penale, prima ancora che la conoscenza dei precetti da parte dei soggetti, è infatti quello di un effettivo e concreto “richiamo” degli stessi con riferimento alla propria situazione di vita. Si tratta di un’operazione fondamentale per sentirsi davvero, appunto, “chiamati” al rispetto della norma. Già il grande Blaise Pascal ([1669] 2004: 496 ss.) ricordava che la ragione “si assopisce o si smarrisce a ogni momento; se non ha presenti tutti i suoi principi”, mentre il sentimento “agisce in un istante ed è sempre pronto ad agire”.

La questione presenta innumerevoli profili di rilevanza. Si pensi, nell’ambito dei comportamenti colposi, alle condizioni idonee a richiamare all’agente la necessità di applicare e osservare le regole di natura cautelare. La questione è ampiamente affrontata nella letteratura giuridica (Forti 1990: 217, nota 174; 231; 273), con riguardo al c.d.

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Anlaß, ossia a quell’insieme di dati ontologici grazie ai quali l’agente è in grado di richiamare la regola preventiva conosciuta astrattamente nella situazione concreta. Operazione dal cui successo dipende evidentemente la percezione del pericolo e l’adozione delle cautele preventive conformi alla diligenza prescritta. In un’area affine si colloca anche il rilievo attribuito dalla giurisprudenza, ad es. in tema di responsabilità dei vertici aziendali per reati economici, ai c.d. “segnali d’allarme”, peraltro con esiti discutibili laddove si pervenga in questi casi alla configurazione di una responsabilità dolosa (Pulitanò 2008: 904).

Per certi versi anche la valorizzazione in chiave preventiva delle c.d. checklist (Gawande 2011) può essere considerata una sorta di compensazione e surrogazione, di possibili difetti nella attualizzazione del precetto nella situazione concreta dell’agente. La ripetizione di prassi virtuose costituisce una sorta di “gruccia” in grado di sorreggere la modesta capacità di richiamo emozionale che caratterizza certe prescrizioni, specialmente di natura tecnica (Caputo 2012).

Ma è proprio questa constatazione a segnalarci, all’inverso, come il pur costante adeguamento a pratiche preventive virtuose sia solo un pallido surrogato di un atteggiamento complessivamente morale e, dunque, dell’operare di fattori soggettivi ed emozionali in grado di attivare l’orientamento normativo. Del resto perfino in uno dei sistemi di pensiero ritenuti più astratti e avulsi dall’empiria come la teoria morale kantiana, le pratiche sono ritenute necessarie per “stabilizzare la motivazione morale e mantenere ferme nel tempo le nostre intenzioni” (Bagnoli 2007: 36).

Il ruolo dell’ Anlaß in materia colposa, sulla base del quale si può misurare l’esigibilità dell’osservanza da parte del soggetto della diligenza doverosa mi pare un concetto al contempo cognitivo e valutativo. E’ difficile negare che il “mastice” che tiene insieme e, soprattutto, permette di richiamare nel caso concreto, nella propria situazione di vita, le regole preventivo-cautelari, sia di natura valutativa, e abbia a che fare con un piano di sensibilità, di “comune sentire” rispetto al quale l’attenzione alla protezione dei beni giuridici è certamente una componente, ma che più in generale si connette al radicamento sociale e, quindi, individuale di certe norme di salienza. Quando si parla di norme di salienza, infatti, “non bisogna pensare a procedure o codici di comportamento, ma al modo diffuso e pervasivo con cui usiamo certe categorie”, attraverso le quali “si declina la nostra sensibilità” (Ivi: 141).

Sono proprio tali norme che ritengo vengano beneficamente rinforzate dalla frequentazione delle forme “concentrate” e “molteplici” della letteratura. Per usare una metafora oculistica, la robustezza delle terminazioni nervose, che presiedono alla funzione visiva e che ci permetteno di cogliere le “salienze” del mondo circostante, richiede una costante vascolarizzazione, un ripetuto trofismo, ad opera principalmente della capacità immaginativa.

La letteratura ha la potenzialità di irrobustire la nostra capacità, e, soprattutto, disponibilità, di prestare attenzione (che è “una capacità inevitabilmente limitata”, come scrive Sontag) e anche di contribuire a una buona manutenzione delle norme di salienza, preservandole dalla “corruzione”, ossia dalla condizione nella quale si ha “una visione distorta delle proprie capacità e opportunità”, non si percepisce, per una debolezza immaginativa, il proprio “spettro di possibilità”, non ci si sente “promotori di alternative”(Ivi: 142 ss.).

Questo mi pare un passaggio significativo della riflessione sul rapporto tra moralità e letteratura e, soprattutto, sul ruolo di quest’ultima quale sostegno alla forza motivazione dei precetti giuridici. Ciò almeno (insistiamo, a differenza di molta critica letteraria e mediatica, a ritenere valida questa differenziazione) della letteratura “alta”: la

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sola capace di spiazzare il lettore, porlo di fronte a problemi inediti a cui non suggerisce facili conclusioni, costringerlo a ‘riempire i vuoti’ lasciati intenzionalmente dall’autore e ad andare alla ricerca del suo senso nel testo, con uno sforzo di immedesimazione in prospettive nuove e soprattutto complesse, come complessa è la infinita varietà e singolarità dei casi concreti, delle singole situazioni individuali (Ost 2007).

È il tipo di letteratura in grado di proteggere da quella astenia morale che rende inclini alla “collusione anziché all’azione, all’omertà anziché alla denuncia, al silenzio invece che alla rivendicazione” (Bagnoli 2007: 143 s.), grazie alla coltivazione e stimolazione di una capacità immaginativa cui le narrazioni di tante storie importanti, possono contribuire potentemente, e che dota di quelle categorie valutative che permettono di indirizzare lo sguardo su ciò, anzi su colui/colei che è davvero “saliente” in una data situazione.

Si potrebbe dire che con le sue narrazioni la letteratura sia in grado di trasmettere ai lettori una percezione di “ampiezza, peso, solidità” del “corso del tempo”, propiziando, con essa, una dilatazione del sé, e rafforzando un’adesione alle regole più profonda, duratura e persuasa (e, quindi, moralmente più pregevole) della mera obbedienza meccanica, indotta dalla scarsa qualità morale della paura della sanzione. Del resto, la giustizia di una società, come è stato scritto magistralmente, richiede “la temperanza, il giusto ritmo dei tempi mescolati” (Ost 2007: 220) e, quindi, una immissione, nella visione curva sul presente, della prospettiva eterna aperta alle infinite possibilità delle storie.

La “coltivazione dell’umanità” (Nussbaum 2001) e dell’immaginazione nei destinatari dei precetti giuridici, quale condizione perché questi siano motivati (e convinti) all’osservanza, presuppone però che analoga “educazione” dei sentimenti sia acquisita anche da chi è chiamato a creare e applicare tali precetti. È una tale educazione che permette di avvedersi dei diversi effetti delle decisioni e avere quindi anche piena cognizione delle responsabilità derivanti dall’esercizio delle proprio libere scelte professionali, istituzionali e personali, senza lasciarsi rinchiudere nei frame cognitivi imposti dall’organizzazione di appartenenza.

Anche l’“operatore” giuridico, quale che sia il livello in cui si trovi a esercitare i propri compiti, nel momento in cui si confronta con un ordinamento “dato” e si immette in prassi applicative (e in una successione di “precedenti”), si trova ad agire in un contesto organizzativo cui dovrà recare a sua volta un apporto organizzativo. E l’organizzare, di per sé, “favorisce le percezioni basate su schemi, la deduzione piuttosto che l’abduzione, un atteggiamento mindless (poco attento) piuttosto che mindful (vigile), un’attitudine verso la produzione di scenari plausibili (imagination) piuttosto che di ipotesi fantasiose ma non realistiche (fancy)”(Catino 2009: 201 s.)

Come ha rilevato un attento analista, l’attacco suicida dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York era stato immaginato durante l’amministrazione Clinton da Richard Clarke, anche se gli enti della difesa non avevano ritenuto la segnalazione meritevole di approfondimento. E la prospettazione di un tale insolito scenario, poi tragicamente realizzatosi, era derivata a Clarke dalla lettura dei libri di Tom Clancy, uno scrittore di fantapolitica. Tanto che, nella primavera del 2007, le agenzie federali degli Stati Uniti si sarebbero rivolte agli scrittori di fantascienza per elaborare ipotesi utili a migliorare la sicurezza nazionale. Infatti, “chi è dentro le strutture, per quanti sforzi faccia, rischia di vedere sempre le stesse cose e di essere soggetto agli stessi condizionamenti, l’apertura radicale a persone che fanno un altro mestiere ha l’obiettivo di accrescere il ventaglio delle analisi” (Ivi: 201).

Il valore immaginativo dell’apertura a sempre nuovi legami è espresso da Martha Nussbaum (2012: 39 s.) in una serie di considerazioni molto interessanti, proprio per la

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loro applicabilità alla prospettiva del giurista oltre che, più in generale, al pensare pubblico. Rileva in particolare come la narrativa abbia l’attitudine di far “immaginare come sarebbe vivere la vita di una persona che potrebbe essere, fatti i debiti mutamenti, un altro se stesso o uno dei propri cari”, sollecitando dunque i lettori a “mettersi al posto di persone di vario tipo e di assimilarne le esperienze”. In tal modo le opere letterarie, favorendo l’identificazione e la partecipazione, “comunicano la sensazione che esistano dei legami possibili, almeno a un livello molto generale, tra i personaggi e il lettore”.

Essa dunque innescherebbe “una fervida attività emozionale e immaginativa” e, soprattutto, a differenza di altre forme di comunicazione o di analisi, offrirebbe un salutare antidoto nei confronti di quegli “espedienti autoprotettivi” con i quali si tengono a distanza persone e fatti che “non ci riguardano” e ci spingerebbe (peraltro in un modo che la buona letteratura sa rendere piacevole e a volte avvincente) a “prestare attenzione” e a “reagire a molte cose che possono essere difficili da affrontare”. Anche quanto scrive Danilo Kiš – per il quale la letteratura è “individualità” e “concretizzazione dell’astratto della Storia” (2009: 199) –, conduce a ravvisare nel testo letterario (o, meglio, nell’insieme dei testi letterari che si spalancano alla libera scelta del lettore) una sorgente copiosa e inesauribile di storie possibili, che permettono di “stringere vincoli di identificazione e di empatia” con i protagonisti delle vicende narrate (Nussbaum 2012: 42).

Del resto è stata proprio Susan Sontag (2008: 168-176) a osservare come la letteratura – in quanto forma di conoscenza e comprensione – possa “dirci come è fatto il mondo”: uno scrittore è infatti “qualcuno che presta attenzione al mondo”, cercando di capirne e assimilarne la malvagità di cui sono capaci gli esseri umani. Essendo mosso da senso di responsabilità “nei confronti della letteratura e della società”, questi è dunque “un agente morale” (Ivi: 175), capace di evocare “la nostra comune umanità in narrazioni con cui possiamo identificarci, anche quando le vite narrate sono remote dalle nostre […]. Le storie che racconta […] educano la nostra capacità di giudizio morale”.

In questo passo ci pare peraltro rappresentata una sorta di “base ideologica” per muovere all’“esplorazione” del rapporto tra il mondo giuridico e quello letterario. Vi è infatti espressa una visione della letteratura nient’affatto condivisa da tutti o almeno non da un certo recente mainstream che, come lamentava Abraham B. Yehoshua (2000: VII), sembra disinteressarsi di questioni morali e nel quale “concetti come valori morali, giustizia e bene compaiono […] di rado e del tutto incidentalmente”.

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