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«Buone pratiche per la storia orale»

1. Perché – e come – darsi delle regole

Il primo aspetto da chiarire è la ragione della creazione di un documento come le «Buone pratiche».

Non si tratta di un profilo di poco momento. La struttura stessa del docu- mento ne dimostra l’importanza e offre di per sé una risposta visto che ciò che viene definito, in senso stretto, come «Buone pratiche per la storia ora- le» è collocato in una seconda parte del testo. La prima – la «Presentazione» – è dedicata proprio a illustrare i motivi che hanno indotto AISO a procede- re in tal senso.

Tali motivi sono riconducibili, sostanzialmente, a tre esigenze:

a) una è strettamente correlata alle peculiarità metodologiche della storia orale, che comportano un contatto diretto con la dimensione personale e con l’identità dei testimoni specifici, producendo di conseguenza fonti contraddistinte dal carattere occasionalmente confidenziale, se non sen- sibile, delle informazioni in esse contenute (si veda il primo paragrafo della «Presentazione», intitolato «Storia orale, fonti orali»6);

b) un’altra esigenza, invece, attiene alla dimensione deontologica più ampia dello «svolgere un certo tipo di ricerca», dimensione che, se da un lato richiama comunque la considerazione attenta e doverosa delle specifici- tà di un metodo (che si distingue per il fatto di procurarsi intenzionalmen- te il materiale di studio e di ricerca), dall’altro esprime la naturale tenden- za di una qualsiasi comunità scientifica settoriale a darsi autonomamen- te regole di riconoscimento e di accreditamento (si veda soprattutto il secondo e il terzo paragrafo della «Presentazione»);

c) una terza esigenza, infine, non meno significativa delle prime due, riguar- da il bisogno di trasmettere le consapevolezze e le competenze di cui ogni oralista deve essere titolare, e quindi di informare e formare tutti coloro che vogliano qualificarsi tali, tutti i loro collaboratori nonché tutti i soggetti, privati o pubblici, con cui gli oralisti vengano di volta in volta in contatto (università e altre istituzioni di ricerca, committenti privati, enti pubblici, archivi eccetera).

Queste tre esigenze non sono irrilevanti nemmeno sul piano del diritto: a) Non lo è la prima esigenza, poiché è assai noto che se l’acquisizione, la

manipolazione e l’utilizzo di dati personali sono oggetto di una disciplina

6 La definizione data in questo paragrafo delle fonti orali è assai sintomatica: «Esse consistono in genere in un racconto approfondito di esperienze e riflessioni personali, reso possibile concedendo ai narratori un tempo sufficiente per dare alla propria storia la pienezza che desiderano».

particolarmente rigorosa (si veda il «Codice in materia di protezione dei dati personali»: d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196), tali azioni possono trova- re un trattamento più favorevole allorché esse vengano svolte «per scopi storici», esistendo, in proposito, un «Codice di deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati personali per scopi storici» (si veda l’al- legato A.2 al d.lgs. n. 196/2003, che ha peraltro la peculiarità di essere stato formato per iniziativa del Garante per la protezione dei dati perso- nali nella vigenza della precedente disciplina legislativa in materia7).

Il punto è che, con riguardo alle «Fonti orali», questo Codice di deontologia (all’art. 8) detta prescrizioni assai vaghe e generali8, la cui applicazione con-

creta, dunque, non è opera di ‹mera esecuzione›, ma presuppone comporta- menti consapevoli, capaci di ‹tradurre› il senso di dette prescrizioni in tutte le possibili situazioni – meglio, di fronte a tutte le possibili ‹personalità› e a tutte le possibili ‹storie› – in cui è chiamato a imbattersi l’oralista. Di qui, dunque, deriva l’opportunità di individuare un protocollo operativo che sap- pia orientare l’oralista e che gli permetta di rispettare le indicazioni prescrit- tive del Codice di deontologia senza con ciò rinunciare alla propria profes- sionalità e alle cautele che il metodo scientifico di riferimento gli impone di osservare. Le «Buone pratiche» costituiscono questo protocollo operativo. In questa prospettiva, peraltro, le «Buone pratiche» hanno anche la finalità di porsi quale luogo di incontro e di mediazione tra le istanze di tutela che la normativa statale pone come inderogabili e la domanda di personalizzazio- ne, con quelle spesso sinergica, che l’approccio scientifico degli oralisti pro-

7 Si veda, nello specifico, il Provvedimento del Garante n. 8/P/2001 del 14 marzo 2001, in G.U. 5 aprile 2001, n. 80. Il testo è disponibile anche online (<http://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/ docweb-display/docweb/1556419>, ultima consultazione 20 febbraio 2017). Il Codice di deontologia è stato adottato dal Garante previa consultazione di determinati soggetti rappresentativi del mondo della ricerca (tra i quali figurava anche AISO). La necessità di adottare questo Codice derivava dal d.lgs. 30 luglio 1999, n. 281, recante «Disposizioni in materia di trattamento dei dati personali per finalità storiche, statistiche e di ricerca scientifica». Come si è avuto modo di specificare in altro contesto (Cortese 2014), la natura giuridica del Codice di deontologia non è così facile da definire (è una fonte regolamentare? È un atto amministrativo generale? O è una delle tante ed eterogenee espressioni della discussa e indecifrabile categoria della ‹soft law›?). Sul punto si veda anche più avanti, nota 10.

8 Questo è il testo della disposizione in esame: «1. In caso di trattamento di fonti orali, è necessario che gli intervistati abbiano espresso il proprio consenso in modo esplicito, eventualmente in forma verbale, anche sulla base di una informativa semplificata che renda nota almeno l’identità e l’attività svolta dall’intervistatore nonché le finalità della raccolta dei dati. 2. Gli archivi che acquisiscono fonti orali richiedono all’autore dell’intervista una dichiarazione scritta dell’avvenuta comunicazione degli scopi perseguiti nell’intervista stessa e del relativo consenso manifestato dagli intervistati». La disposizione va coordinata anche con quanto stabilito dal d.lgs. n. 281/1999 citato, che comunque, oltre a rinviare al Codice di deontologia, detta principi (importanti ma) di portata parimente generale (si veda in particolare l’articolo 7, laddove si affermano il principio della «pertinenza» e il principio relativo all’«interesse pubblico» dei dati raccolti per finalità di carattere storico).

muove da tempo e che impronta di sé la natura stessa delle fonti orali9.

Nelle «Buone pratiche», in definitiva, si dettano ‹regole› con cui, ribadendo dall’interno i profili tecnici e deontologici essenziali per ogni operatore del settore, si ‹esprimono› in modo adeguato e ragionevole le modalità con cui adempiere a norme e principi fissati dall’ordinamento giuridico e dalle istitu- zioni in esso operanti10.

b) Anche la seconda esigenza non è estranea al mondo del diritto. Non lo è, innanzitutto, perché è un fenomeno essenzialmente giuridico già il fat- to che una comunità scientifica si dia delle ‹regole› che ne qualificano lo ‹statuto›: anche queste regole sono, a loro modo, regole giuridiche; an- che una comunità scientifica settoriale è, a suo modo, un ordinamento giuridico, un gruppo sociale organizzato capace di esprimere prescrizioni specifiche e di dotarsi di organismi che, quanto meno, riconoscano o accreditino la qualità dei soggetti che vi appartengono e il rispetto di quelle prescrizioni. Con ciò si vuole dire che il diritto non è solo quello che si palesa con la veste dell’autorità pubblica statale strettamente intesa. E difatti, nello scenario globale della ricerca storica, la comunità degli ora- listi, nelle sue articolazioni più consolidate e prestigiose11, ha già avuto

occasione di formare documenti simili alle «Buone pratiche» ovvero dei vademecum assai analitici12, anch’essi definiti come «principles» e «best

practices»13, ed eventualmente idonei a costituire o a integrare – e da qui

deriva l’ulteriore profilo di «giuridicità» di questa attività, in ipotesi apprez- zabile anche da un giudice – un possibile parametro di riferimento in base al quale formulare valutazioni di correttezza o di diligenza in ordine all’operato del singolo oralista e dei suoi collaboratori.

Tali valutazioni non saranno solo quelle concernenti l’appropriatezza scienti- fica del lavoro svolto dall’oralista; potranno anche essere quelle involgenti

9 Si veda sopra, nota 6.

10 Va specificato, comunque, che i principi e le regole stabiliti nel Codice di deontologia adottato dal Ga- rante per la protezione dei dati personali esprimono solo ‹formalmente› precetti deontologici, giacché si tratta di indicazioni che, pur essendo elaborate sulla base di un’istruttoria aperta ai contributi dei soggetti interessati, provengono da un soggetto ‹esterno› alla comunità scientifica di riferimento. Nelle «Buone pratiche», viceversa, si intravedono norme deontologiche, le quali vengono ‹bilanciate› con riguardo alla considerazione diretta dei vincoli che il diritto statale impone di osservare.

11 Si allude alla Oral History Society, britannica, e alla Oral History Association, di origini statunitensi, la quale aspira a essere globale e a riunire, di fatto, tutti gli studiosi interessati nel mondo. Ad essa è affiliata anche AISO. 12 Si veda Il documento redatto dalla Oral History Society: <http://www.ohs.org.uk/advice/ethical-and- legal/8/#squelch-taas-accordion-shortcode-content-0> (ultima consultazione 20 febbraio 2017).

13 Confronta, ad esempio, il documento pubblicato, sin dal 1989, dalla Oral History Association: <http://www. oralhistory.org/about/principles-and-practices/> (ultima consultazione 20 febbraio 2017). Esso ha costituito, almeno in parte, un interessante modello per la ‹costruzione› delle «Buone pratiche».

un giudizio sulla responsabilità dello studioso che abbia ‹agito› o divulgato alcune informazioni o alcuni dati o alcune notizie14, ma anche quelle relative

all’attendibilità e alla migliore contestualizzazione di specifiche testimonian- ze (e quindi alla utilizzabilità e al peso specifico di esse come elementi even- tualmente rilevanti in un procedimento giurisdizionale15).

c) La terza esigenza non è meno «giuridica» delle prime due. Un po’ perché un operatore specializzato, agli occhi del diritto, non può dirsi ingenuamente incosciente delle regole che governano il settore nel quale opera, né può essere estraneo alle azioni che vengono compiute da tutti coloro che, coo- perando, ne completano o ne integrano l’azione, aumentandone i rischi e gli ambiti in cui questi si possono manifestare (sicché nei confronti di questi soggetti – aiutanti, stagisti, studenti, allievi, ricercatori juniores o meno esper- ti eccetera – l’oralista ha comunque un dovere informativo e formativo); un po’ perché è la stessa comunità scientifica ad aver bisogno di raccogliersi e di identificarsi anche in forza dell’adozione di comportamenti che siano defi- nibili come «tecnicamente» adeguati da parte di coloro che ne fanno parte. Questa prospettiva chiama in gioco, in un certo senso, uno spazio di «auto- responsabilità» della comunità scientifica di riferimento, «poiché è difficile trovare occasioni istituzionali che preparino a riflettere adeguatamente su alcune criticità fondamentali della ricerca storica» e perché «nel fare storia con le fonti orali le responsabilità della riflessione deontologica sono spesso lasciate esclusivamente sulle spalle del singolo ricercatore, al suo apprendi- mento sul campo e al suo personale – e spesso solitario – dialogo con le esperienze di ricerca degli storici e delle storiche che l’hanno preceduto»16.

È naturale, allora, che l’iniziativa venga da AISO, principale soggetto espo- nenziale, in Italia, della comunità degli oralisti, costituito, tra l’altro, anche con le finalità specifiche di formare «alla pratica della storia orale (intesa sia come preparazione dei nuovi ricercatori e ricercatrici sia come loro

14 Ad esempio, anche in un processo – civile e/o penale – per diffamazione o per violazione della normativa a tutela del diritto d’autore.

15 Un caso che ha fatto molto discutere la comunità internazionale degli oralisti è il cosiddetto «Boston Col- lege case»: un notissimo leader di un movimento politico è stato indagato e arrestato sulla base di informazioni ricavate dall’autorità giudiziaria in seno ad alcune interviste raccolte da ricercatori della Boston University (per un piccolo riassunto, in italiano, della vicenda, <http://www.ilpost.it/2014/05/01/arresto-gerry-adams/>, ultima consultazione 20 febbraio 2017. Per un’analisi più approfondita del caso, si veda il saggio di Roberta Garruccio contenuto nel presente volume). Ma quel caso ha anche richiamato, alla memoria degli oralisti italiani, una vicenda accaduta in Italia, a Reggio Emilia, negli anni Novanta del Secolo scorso. A tal proposito si veda il contributo di Antonio Canovi contenuto nel presente volume.

16 Così si esprime il terzo paragrafo della «Presentazione» alle «Buone pratiche», laddove il richiamo alla responsabilità, del singolo ricercatore come della comunità alla quale appartiene, è svolto anche con riferimento alla diffusione delle nuove modalità di diffusione e di fruizione (anche sul web) delle informazioni e delle ricerche.

formazione continua) e alla consapevolezza degli aspetti deontologici che sono peculiari a questa metodologia»17.

2. Il ricorso alla formulazione di