I figli e le persone che gli sono state vicine riferiscono che Rabito, prima di divenire ‹scrittore›, si è dimostrato per decenni un valente, straordinario ta- lento della narrazione orale. Non raccontava necessariamente vicende au- tobiografiche, ma anche le trame di romanzi di avventura, di azione, di cappa e spada, come I tre moschettieri, Il Conte di Montecristo, l’«Opera dei pupe della storia dei palatine di Francia, e il libro di Querino il Meschino», letture fatte soprattutto nelle ore notturne a causa di una ricorrente insonnia103.
«Della narrazione orale [Rabito] possiede con sicurezza tempi e modi: il gusto del particolare, la sapiente mescolanza di eventi tragici e risvolti comici, l’enfasi patetica e la battuta salace. L’aria di epica popolare che si respira […] nasce dal ricorrere di situazioni e immagini formulari, dalla frequenza di proverbi e modi di dire, dai gesti sempre teatrali e dalla reazioni polarizzate tra pianto e bestemmia, tra inferno e paradiso»104.
Il racconto di Rabito è pari a quello di un cantastorie senza musica (che nondimeno è capace di produrre una prosa musicale), di un affabulatore di tradizione popolare dotato di una torrenziale, potenzialmente e quantitativa- mente infinita capacità di raccontare, particolarmente fornito di una innata e sempreverde energia comica che interviene con candida disinvoltura anche (o soprattutto) nei frangenti più drammatici, senza mai apparire fuori luogo, e sembra ricordarci che la vita è anche un gioco e che niente andrebbe preso con eccessiva gravità.
Il salto compiuto da Rabito dall’arcaica cultura contadina alla scrittura del ‹Novecento› ricorda mutatis mutandis il percorso scrittorio compiuto dal già menzionato Gavino Ledda con Padre padrone: l’educazione di un pa-
store. Vanno però sottolineate due sostanziali differenze. Il salto di Ledda
è enorme, abissale, di una vastità cronologica e culturale dirompente, dalla civiltà neolitica della pastorizia fino alle competenze e all’abilità scrittoria di un laureato in glottologia, che ha iniziato a lavorare come assistente univer-
103 Riguardo al retroterra culturale di Rabito, il figlio Giovanni afferma: «A parte l’alfabeto […] il resto dei suoi modelli provenivano dalle fonti più disparate: primo tra tutti il cunto parlato della nostra tradizione e quello dei cantastorie, che lui riesce pienamente a trasfondere in quella che lentamente viene configurando come la sua ‹scrittura›. Lo stesso vale per l’opera dei pupi e per altre rappresentazioni teatrali a cui occasionalmente avrà assistito, come quella volta al teatro la Pergola di Firenze, per esempio, o nel teatro di Angelo Musco a Catania o al cinema…anche Totò, perché no, negli anni Cinquanta. A tutto questo miscuglio non scritto bisogna aggiungere la lettura di pochissimi libri (primo tra tutti il conte di Montecristo e gli altri romanzi d’appendice francesi, trovati in una cassa, quand’era malato in Africa, tipo Il Fabbro del convento o il visconte di Bragelonne, possibilmente pubblicati da Salani editore)» (Rabito Giovanni 2008).
sitario presso la cattedra di filologia romanza. Nel caso di Rabito il passo è più breve ma non meno significativo, perché il suo dattiloscritto rappresen- ta la transizione dal cantore completamente immerso nell’oralità verso un rapsodo, che decide di cimentarsi nella scrittura senza avere acquisito tutti gli strumenti culturali, che consentono di elaborare un testo in una lingua codificata, corretta, colta. Difatti nel memoriale di Rabito (che nelle intenzio- ni dell’autore sarebbe dovuto essere il più vicino possibile all’italiano della Crusca) incontriamo sicilianismi, solecismi, termini ricalcati sui vari dialetti in cui si è imbattuto nel corso della sua travagliata esistenza, ripetizioni, sgram- maticature ecc., che hanno dato luogo a un idioletto o a una nuova lingua (appunto il ‹rabitese›), che costituisce uno dei punti di forza di Terra matta. Un semianalfabeta che scrive, nella quasi totalità dei casi, non si pone l’o- biettivo di scrivere in dialetto: intende piuttosto (come si è appena accen- nato) produrre un testo il più vicino possibile all’italiano corrente e formal- mente corretto. Poiché le carenze culturali non gli consentono di centrare l’obiettivo si genera un linguaggio nuovo, originale, un idioletto105. D’altronde
il processo creativo non si discosta molto nel caso di un autore colto che decida di esprimersi in vernacolo. Poiché i dialetti, nonostante la presenza in molti casi di vocabolari o grammatiche, non sono codificati ‹rigidamente› come le lingue ufficiali, accade spesso che l’autore (che non sia un epigo- no) finisca per inventare, almeno parzialmente, l’idioma che usa. Si pensi, ad esempio, a Giuseppe Gioachino Belli e in tempi più recenti ai neodialettali, a Franco Loi, Mauro Marè e ad Achille Serrao, solo per fare tre nomi.
Il fascino106 del laborioso memoriale di Rabito risiede in gran parte proprio
nell’originalità della lingua (nonché nell’effetto ‹comico› che essa produce, tal- volta involontariamente) e nella sua efficacia espressiva, che in alcuni passaggi si dimostra potente, adeguata e coinvolgente come accade nella migliore let- teratura; nel nostro caso si tratta di un’opera ascrivibile a un epos della soprav- vivenza, disincantato e denso, senza gloria e senza eroi. Vi sono, anzi, dei brani nei quali l’autore confessa ‹onestamente› delle falle etiche nella sua esistenza:
105 «Rabito sfugge a qualsiasi coerenza e incasellamento linguistico, dato che nel testo uno stesso fatto di lingua può ricorrere o meno o essere presente con varie caratteristiche. Ciò ha indotto a definire l’idioletto di Rabito: ‹rabitese›» (Amenta 2011: 103).
106 Il ‹rabitese› affascina anche perché ci riconduce alle nostre radici e alle origini della letteratura italiana che, benché scritta da autori colti, si nutre di volgare, la lingua del vulgus, del popolo, delle masse rozze e illetterate. Boccaccio, in alcune novelle del Decameron, si rivela un grande interprete dei sentimenti popolari, ad esempio laddove prevalgono beffe, impudente astuzia, sensualità, o laddove l’uomo, alla mercé della fortuna, di avversità naturali o di potenti e spregiudicati antagonisti, deve cavarsela solo con le sue proprie forze. Tali circostanze vengono rese utilizzando un volgare infarcito di termini quotidiani, realistici, rozzi, gergali, dialettali e persino stranieri.
«E così finio la desonesta vita mia di miletare, e ora comincia la desonesta vita di Vincenzo Rabito di borchese, che ene più disonesta di quella che io aveva fatto militare»107.
Riguardo alle note dei curatori Evelina Santangelo e Luca Ricci, si eviden- ziano i seguenti passaggi, volti a sottolineare gli interventi che hanno so- stanzialmente emendato il testo originale:
«Il testo che qui si presenta è una scelta dalle 1027 pagine del dattilo- scritto originale.
I criteri cui ci siamo attenuti hanno inteso dar conto dell’intero percorso biografico dell’autore e della sequenza dei blocchi narrativi. Inoltre abbiamo voluto a ogni costo rispettare le scelte linguistiche dell’autore, conser- vandone quasi integralmente la peculiare grammatica. Nostra è invece la suddivisione in capitoli, paragrafi e capoversi, dove l’originale si presenta come un flusso continuo. Abbiamo operato alcune integrazioni solo nei casi in cui si rendevano necessarie per la comprensione di frasi o passaggi narrativi. […]. I principali interventi si sono concentrati sull’ortografia e la punteggiatura. Nel primo caso si è cercata una mediazione tra leggibilità e caratteristiche espressive. In particolare, abbiamo inserito l’h nel verbo avere e i segni diacritici secondo l’uso corrente. In alcuni casi abbiamo scomposto le parole che Rabito scriveva abitualmente unite (diaiutarle,
famorire), in casi sporadici abbiamo viceversa ricostruito unità lessicali
che si presentavano graficamente scomposte (inafabeto per i nafabeto). La punteggiatura originale prevedeva un uso ipertrofico del punto e virgola, e un uso sostanzialmente casuale delle altre forme di punteggiatura»108.
Alcuni studiosi hanno manifestato delle perplessità, sollevato delle conte- stazioni rispetto alle scelte effettuate dai curatori. Ad esempio Giuseppe Antonelli osserva a proposito della rielaborazione dei curatori:
«Per andare incontro alla leggibilità, viene alterato a più livelli lo specifico della scrittura semicolta, che è proprio la tendenza a trasferire di peso sulla pagina i tratti tipici del parlato. Capitoli, capoversi, periodi, ad esem- pio, sono tutte divisioni posticce; anche se il flusso continuo del testo è stato agevolmente segmentato facendo leva soprattutto sul connettivo ‹così›, che già nella versione originale cadenzava il ritmo secondo lasse di lunghezza variabile»109.
107 Rabito Vincenzo 2007: 151. 108 Santangelo – Ricci 2007. 109 Antonelli 2007.
Giovanni Ruffino sottolinea otto punti critici nel «confronto tra il testo ori- ginale e l’edizione einaudiana»; tra questi: l’eccesso degli «interventi nor- malizzanti sulle forme univerbate»; l’arbitraria «suddivisione in (22) capitoli, paragrafi e capoversi»; «sul piano lessicale (robustamente dialettale) sono assai scarse le note esplicative e manca un glossario finale»; «non convince la sostituzione del titolo originale Fontanazza con Terra matta»110.
Il titolo del libro Einaudi, assegnato dai curatori per denominare il lungo memoriale, si ricava da un episodio avvenuto quando Rabito si trovava presso una località nei dintorni di San Donà di Piave. Un comportamento invadente e maleducato di Tano, un suo commilitone, fa andare su tutte le furie i membri di una famiglia con cui Rabito intratteneva dei buoni rap- porti di amicizia, i quali gridano all’indirizzo di Tano: «Descraziate, siciliane terramatta!...»111.
Tra le altre notazioni linguistiche di Giovanni Ruffino, si rileva la tendenza di Rabito all’univerbazione e frequenti casi di ipercorrettismo112, derivanti dall’a-
spirazione di Rabito – come si è già avuto modo di osservare – di scrivere in italiano corretto. Sono inoltre presenti osservazioni sulla morfologia, tra le quali l’uso di ‹ci› nel significato di ‹gli› («a mio fratello ci faceva coraggio, cidi- ceva, cio detto, ciodato») e l’uso molto frequente di ‹ni› per ‹ci› («nianno», «ci hanno»)113.
A essere precisi si può agiungere che ‹ni› viene usato anche nel significato della particella pronominale ‹ne›, ad esempio in: «Io contravvinzione non ni prenteva annessuno»114. Un’ultima possibile osservazione riguarda un erro-
re molto frequente, che si riscontra nell’uso dell’ausiliare nei tempi composti: ‹avere› al posto ‹di essere›, come ad esempio nell’espressione «Ci abiammo messo a piancere»115.
Nella narrazione di Rabito emerge, come si è accennato, una forza espres- siva che si respira nei componimenti in prosa delle origini della letteratura italiana. Si avvertono echi della novellistica di Boccaccio, non solo per i con- tenuti legati al realismo e alla quotidianità, ma anche per l’uso delle cadenze del ‹volgare›, naturalmente e necessariamente impiegato da Rabito senza ambizioni di letterarietà ma soltanto per l’esigenza di raccontare la sua sto-
110 Ruffino 2012: 79-80. 111 Rabito Vincenzo 2007: 70.
112 «L’ipercorrettismo sembra portare Rabito a sostituire con la e la vocale finalea atona i, avvertita come propria del dialetto, in solde, quinte, avante, anne, a piede» (Amenta 2011: 100).
113 Ruffino 2012: 85.
114 Rabito Vincenzo 2007: 310. 115 Rabito Vincenzo 2007: 82.
ria. Terra matta è puntellata da una sapienza materiale, da quello scaltro
savoir-faire popolare, uno spontaneo talento nell’uso delle parole dalla sono-
rità più consona a comunicare eventi e stati d’animo, che ben si modellano per sostenere l’impatto con la dirompente modernità novecentesca. Rabito, rispetto al Decameron, potrebbe essere assimilato all’antecedente popolare e orale, il quale, con la sua esperienza di vita e la parola strettamente legata all’azione e alla materialità del reale, forgia il testo che si tramanda di voce in voce finché non viene rielaborato da Boccaccio in forma letteraria. Andreb- bero inoltre tenuti presenti fra i suoi predecessori virtuali Torquato Accetto e tra le filiazioni (sempre virtuali) Andrea Camilleri116.
Nel corso della sua esperienza di vita, il semianalfabeta Rabito sembra at- tenersi ai consigli esposti nel trattatello Della dissimulazione onesta pubbli- cato da Torquato Accetto nel 1641117, che certamente il nostro autore non
ha conosciuto. In sintesi Accetto, che vive nel Regno di Napoli dominato dagli spagnoli in piena Controriforma e si trova dunque immerso in una realtà di bieco conformismo e ineluttabile servilismo, scrive un prontuario per resistere alla tirannia e alla violenza del potere e della società, in attesa che giungano tempi idonei nei quali risorga il diritto di esprimere liberamen- te il proprio pensiero. Nel frattempo la persona onesta deve dissimulare, nascondere valori, idee, pensieri autentici del suo animo nobile, che può sopravvivere unicamente occultandosi, in una società ipocrita e prona alla volontà dei potenti. Non a caso – come si è già osservato – Andrea Camil- leri ha sostenuto che il diario di Rabito è un «un manuale di sopravvivenza involontario e miracoloso»118.
Sembra che il tempo di concludere con la dissimulazione sia giunto per Ra- bito soltanto verso gli ultimi anni di vita, attraverso un dialogo con sé stesso sostenuto attraverso la scrittura. In questa condizione di appartata riflessio- ne Rabito, facendo ricorso alla sua prodigiosa memoria119, può fare ordine 116 «È indubbio che la lingua di Rabito, quella del dattiloscritto originale, sia qualcosa di profondamente diverso ad esempio rispetto al ‹camillerese›, in quanto è una lingua genuina, vera, che nasce sotto la spinta dell’esigenza narrativa, e non un codice linguistico costruito a tavolino seppur ammantato da reminiscenze proprie dell’idioletto dell’autore» (Amenta 2011: 103).
117 Il testo è rimasto sepolto per secoli fino quando Benedetto Croce non lo riscopre e ne cura una ristampa nel 1928. È significativo che ciò avvenga in piena dittatura fascista, e che l’edizione rimanga fuori commercio. 118 «Cinquant’anni di storia italiana patiti e raccontati con straordinaria forza narrativa. Un manuale di sopravvi- venza involontario e miracoloso» (http://www.einaudi.it/libri/libro/vincenzo-rabito/terra-matta/978885841487, ultima consultazione 5 settembre 2016).
119 «Rabito riesce a ricostruire interamente se stesso in ogni singola epoca, anno dopo anno. La freschezza dei suoi ricordi di bambino e di ragazzo è sbalorditiva; insieme con i ricordi Rabito ha conservato l’animo e lo sguardo di tutte le età attraversate. Ogni esperienza, ogni stadio della vita, ci viene raccontato senza l’intercalare del tempo futuro, senza interferenza di consapevolezza: con le cognizioni limpide e incomplete del presente che
e chiarezza sul suo intenso, controverso, travagliato percorso biografico ed esprimere liberamente le sue verità.
Si direbbe che Rabito abbia rinviato la rivelazione integrale della sua auten- tica visione delle cose e del mondo fino a quando fosse stato certo di non incorrere più in alcun pericolo, scrivendo le sue memorie verso il tramonto della sua esistenza, al chiuso in una stanza. Ma come per garantirsi un ul- teriore margine di cautela, il suo monumentale scritto è rimasto sostanzial- mente serrato tra le mura di casa, per quasi un ventennio dopo la sua morte, avvenuta nel 1981. Come si è detto, soltanto nel 1999 il figlio Giovanni de- cide di consegnarlo all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. L’anno seguente, il manoscritto si aggiudica il Premio Pieve, mentre per la pubblicazione del testo capillarmente revisionato si dovrà attendere il 2007. L’originalità della narrazione di Rabito è riscontrabile anche nell’assenza di ogni sacrosanta ‹retorica› del pacifismo e dell’antimilitarismo, che si respira in molti romanzi autobiografici o memoriali, da Niente di nuovo sul fronte oc-
cidentale di Erich Maria Remarque a Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu,
pur sottolineando diversi aspetti negativi, intollerabili della guerra. Addirit- tura in un passo, che potrebbe apparire piuttosto sconcertante se non si focalizzasse lo sguardo sulla sua viscerale passione per il raccontare e il raccontarsi, l’ex cantoniere afferma:
«Amme mi piaceva di fare la querra e magare sofrire assai, ma restare vivo, che poi quanto si n’antava concerato racontava questa fatte di querra. Ma quanto uno muore, certo muore de fessa!»120.
Quanto alla fortuna di Terra matta, è lecito domandarsi come mai il suc- cesso sia stato ‹rinviato› di circa trent’anni rispetto alla composizione del dattiloscritto. Per chi fosse interessato a confrontarsi con alcune conside- razioni su questo tema, si rimanda al saggio di Chiara Ottaviano «L’imprevi- sto successo di Terra matta e la sua attualità»121. In questa sede ci si limita
a osservare che forse non è un caso se il libro arriva a essere pubblicato in piena età berlusconiana (sebbene, a essere precisi, nel 2007 fosse temporaneamente al governo Romano Prodi). Siamo in una fase in cui si esaltano le doti individualistiche e le qualità del denaro, che viene posto al di sopra di ogni altro valore etico, civile, ideologico. Insomma, i tempi sono
fu. La persona che narra è coerente perché la vediamo accumularsi; la vediamo cambiare e rassodarsi restando identica a sé medesima» (Domenico Scarpa, «L’oralità in scrittura dell’Italia analfabeta». Alias. Roma, 21 aprile 2007 (supplemento a Il Manifesto. Roma, 21 aprile 2007).
120 Rabito Vincenzo 2007: 102. 121 Ottaviano 2009.
maturi per incensare un autore che, con disarmante sincerità, esalta l’ita- lianissima arte di arrangiarsi. Negli anni berlusconiani non è più una virtù essere disposti a sacrificare la vita per sostenere un’idea, dire la verità per onestà intellettuale o tenere fede alla parola data; vale invece molto di più sapersela cavare e badare al proprio tornaconto. In sintesi, l’opera e la biografia di Rabito hanno riscosso successo all’apice del manifestarsi della società liquida: i tempi erano giunti a maturazione per comprendere e apprezzare il romanzo di un uomo che non si è dimostrato fedele ai suoi ideali ma che è ha saputo destreggiarsi tra le mille asperità della vita e che è stato in grado di adattarsi a ogni situazione pur di sopravvivere e di guadagnare.
Un’ulteriore lezione di Terra matta consiste nell’indurci a riflettere su una questione nodale nella storia della letteratura: quanto pesa il bagaglio della cultura colta nella realizzazione di un capolavoro? Rabito sembra suggerirci, con i suoi modi sornioni, che talvolta dicono e non dicono, che per fare buo- na letteratura non è sempre necessario possedere una sapienza ‹letteraria› fuori dal comune, conoscere a menadito i classici da Omero a Dante a Pi- randello o, tantomeno, i più acclamati saggi critici; contano altresì il talento ovvero la capacità di affabulare, un’appassionata dedizione all’attività scrit- toria e l’esperienza della vita e del dolore122.