In quell’anno 1990 qualcuno si accorse che la memoria lunga della guerra di civiltà combattuta due generazioni prima tra fascisti e antifascisti aveva ripreso a graffiare. Un libro a tema contribuì a riaccendere la polemica mai sopita sul rapporto tra i Cervi e il partito comunista, con argomentazioni in- vero consunte, ma che finirono tuttavia – data forse la prossimità biografica dell’autore all’oggetto storico – per chiamare in causa l’Istituto Cervi e la stessa famiglia14. Contestualmente cominciarono a rimbalzare sui quotidiani
locali, in chiave di attualità polemica, diverse testimonianze autobiografiche. Fu quello un lungo e combattuto spartiacque memoriale. Una fonte utile per cogliere gli umori e le ragioni agite in seno al mondo resistenziale è il bime- strale dell’Associazione nazionale partigiani [ANPI] di Reggio Emilia. Sarà questo foglio a riprendere l’appello-documento «In difesa della ricerca», a firma dei Giovani Storici Emiliani [GSE], un gruppo di studiosi aggregatosi con forte slancio etico nelle due settimane seguenti l’appello del «Chi sa parli»15. Obiettivo immediatamente polemico dell’appello erano il «dilettanti-
smo (se non la strumentalità) con cui i mass-media e la classe politica han- no affrontato l’argomento», quindi il ricorso a «vuote ripetizioni di stereotipi trascorsi e abusati, ricerca dello scoop e dell’evento a sensazione anche a costo di approfittare di dolorose vicende personali»16.
Lo stile d’intervento, formulato in una coralità appassionata d’intenti, piac- que enormemente ai partigiani. L’appartenenza generazionale dei firmatari – l’essere nati dopo la guerra, anagraficamente figli se non nipoti della ge- nerazione che aveva fatto la Resistenza – ebbe probabilmente un certo peso, unitamente alle punte polemiche, nella ricezione immediata prestata dai media al sodalizio dei GSE17. Dopo tutto, pur trattandosi della Emilia già 14 Fanti 1990; Canovi 1999.
15 L’appello dei GSE ebbe la sua prima sortita pubblica il 15 settembre 1990. L’appello sarà ripreso integral- mente dal Notiziario Anpi a distanza di un anno, già in chiave di riflessione di storia della memoria; coincide in effetti con l’inaugurazione di uno spazio editoriale cui prestai personalmente cura nell’arco degli anni novanta: «Mai più senza memoria: rubrica di storia della resistenza e lavoro storico» (GSE 1991; Canovi 1991). Dentro una confezione artigianale, il periodico dell’Anpi di Reggio Emilia assolse in quegli anni – per il carisma di Giuseppe Carretti, che ne era direttore, nonché presidente provinciale dell’Associazione – alla funzione di libera tribuna storico-memoriale. Al momento è una fonte largamente trascurata da quanti, studiosi e appassionati, frequentano in chiave storico-memoriale gli anni novanta a Reggio Emilia.
16 GSE 1991.
17 Naturalmente pesava, e continua tuttora a pesare, il diffuso pregiudizio della società italiana nei confronti dei più giovani. Ricorro a un aneddoto: al momento di accogliermi, pur essendovi condotto da un familiare dei Cervi, un famoso antifascista e tra i primi comandanti gappisti («Toscanino») non si peritò di appellarmi con voce stentorea: «O sono giovani, o sono storici».
‹rossa›, una simile levata di scudi da parte di studiosi formatisi nei corsi ac- cademici di storia della regione – questo il secondo vincolo di appartenenza quasi per tutti – era un dato sociologicamente interessante, anche inatteso. Il terzo vincolo solidale rimane tema controverso del nostro presente. Nell’ap- pello dei GSE la «difesa della ricerca» viene fatta collimare con la difesa degli Istituti storici della Resistenza; la cui frequentazione negli anni a segui- re verrà intensificata sino a strutturarsi come arena professionale per molti tra i firmatari. Istituti da armare dunque con lo scudo: nei confronti dell’acca- demia, per ottenere il necessario riconoscimento scientifico; nel confronto con la politica, un piano inevitabilmente controverso presso enti che sono chiamati per statuto a contemperare il ruolo pubblico di attori officianti i riti della commemorazione.
Su questo versante, dell’uso pubblico della storia, matureranno poi dentro gli Istituti riflessioni teoriche di grande interesse, ma all’atto pratico si pale- serà anche qualche imbarazzo18. Come comportarsi – l’esempio è pregnan-
te – dinanzi a comunità locali percorse da memorie ‹divise›?19 Decostruendo
le grandi narrazioni collettive per raccontare il rimosso, secondo scienza, o piuttosto confezionando una versione aggiornata e sostenibile (politica- mente) di ‹memoria comune›? Nonché acerbe sotto il profilo teorico, do- mande siffatte erano nel 1990 largamente soperchiate dal peso che tutte le parti in agone pretendevano di attribuire al livello politico. I GSE, ad esem- pio, riservano il solo affondo ad personam (pur non facendone il nome) a Otello Montanari: «ex funzionari di partito improvvisatisi storici che contribu- iscono ulteriormente alla confusione dei ruoli e delle competenze»20. Toni
indubbiamente sopra le righe, motivati da una posta in gioco che verrà così riassunta da Marco Paterlini, tra gli estensori materiali dell’appello GSE: «È contro questa sottovalutazione del proprio lavoro che son insorti i ‹giovani storici› riproponendo una visione del dibattito storiografico più vicino al me- todo scientifico»21.
Va detto che Paterlini, mentre difendeva la professione di storico, non volle
18 Gallerano 1995. Il rapporto distinto che intercorre tra public history e uso pubblico della storia costituisce il nodo problematico da cui ha preso avvio nell’autunno 2015 il primo Master italiano in Public History, presso la sede modenese di Unimore. Sull’argomento, Noiret 2009; Noiret 2011. Ma fu proprio l’Istituto per la Storia della Resistenza di Reggio Emilia, già evoluto in Istoreco con l’intento di comprendere appieno nel proprio statuto storiografico la didattica e la divulgazione della storia contemporanea, a tentare nel 1995 un convegno nazionale sul tema: Istoreco 1997. Una riflessione di metodo in argomento è ora in fase di pubblicazione: Canovi 2017. 19 L’introduzione di questa categoria interpretativa avvenne alla metà degli anni novanta, in corrispondenza della rivisitazione di alcune stragi naziste perpetrare dai nazisti nel 1944, e fece scaturire un denso e fertile dibattito storiografico: Contini 1997; Paggi 1996.
20 GSE 1991: ??. 21 Paterlini 1990.
risparmiare loro un appunto critico intorno alla reale capacità di uscire dagli steccati accademici e promuovere presso il grande pubblico la cultura sto- rica. È questo un tema ancora attuale, sovente ricondotto a un problema di scrittura: quante voci si sono levate in questi anni, presso gli storici, a pero- rare uno stile più ‹divulgativo›! Che significa più accessibile, ma anche più coinvolgente. Verso il testo di storia si sviluppa un’attesa narrativa affatto banale: una scrittura che faccia mollare gli ormeggi del presente e porti alla deriva, in un tempo altro da sé. È scrittura che nutre lo spazio di un’attesa, scuote l’immaginario; ma non è fantascienza, è scienza del tempo, insieme narrazione evenemenziale ed esplicitazione del metodo. Facendo salva la bella scrittura, il nodo è dunque epistemologico, concerne la natura e am- piezza dei campi investiti dal discorso sulla storia, ma anche il posto dello storico nel processo storiografico attivato.
Non a caso gli ultimi cinquant’anni hanno registrato un proliferare di ‹nuovi› approcci storiografici: microstoria, people’s stories, every day life, nouvelle hi- stoire, storia della mentalità, histoire immédiate, present history, public history, naturalmente la storia orale22. Talvolta metodologicamente meditati, talaltra
solo approssimati, ciò che li accomuna è la messa in discussione di rilevanze storiografiche che erano state date per acquisite: cercare la persona nel pro- filo di un determinato personaggio, metterlo in relazione alle dinamiche socia- li e non soltanto statuali, interrogare il testimone quale fonte per la storia e correlarlo alla memoria collettiva. La buona storiografia, peraltro, si forgia e sperimenta le proprie categorie analitiche in relazione al farsi del movimento storico. Che l’evento politico andasse risolto, come ‹fatto›, nella lunga durata era un esito storiografico maturato in seno alle Annales a cavallo di due spa- ventose guerre europee; quanto all’irruzione del soggetto, fu la mobilitazione generazionale degli anni sessanta e settanta, quindi la sua declinazione in chiave gender a farne rapidamente un crocevia metodologico.
Eppure, di tanta complessità analitica si trova ben poco rileggendo i com- menti degli storici alle cronache del settembre 1990, sul piano nazionale non meno che locale.
Il travaglio della scena macropolitica ha finito per improntare il piano del di- scorso. Episodi di violenza politica differenziati per luogo e tempo sono sta- ti sostantivati come «i fatti del dopoguerra». Il «Chi sa parli» ha acquisito notorietà non per le cose dette nel merito, ma per la reazione visceralmente opposta che ne è sortita. Si legga il commento di Massimo Storchi – storico di primo piano nei GSE e nella rete degli Istituti storici della resistenza – sul
numero di aprile-maggio 1991 del «Notiziario Anpi»:
«‹Chi sa parli›? Contrariamente a quanto più volte ripetuto nelle ultime settimane, sono convinto di come la fragorosa campagna di polemiche seguite al ‹chi sa parli› sia stata assolutamente dannosa per un serio approfondimento delle vicende legate all’ordine pubblico del dopoguerra (identificazione delle fosse comuni comprese). Chi si occupa di queste ricerche in campo storico può testimoniare come prima del 29 agosto 1990 le condizioni per una reale pacificazione fossero maturate nella coscienza delle persone, prima che per opportunità politica o personale»23.
Quel commento fu largamente condiviso tra quanti negli anni precedenti si erano posti in una dimensione, storiograficamente corretta, non di giudizio, bensì di ‹comprensione› della fonte storica24. Non pochi, altrimenti, mostraro-
no di accogliere l’appello politico alla ‹verità› sotto un segno liberatorio: con immagine retorica sempreverde, si voltava pagina. In un caso come nell’altro, se ne può dedurre che quel passaggio controverso sostanziò – ed è forse l’ultima volta che accade – il peso della Politica nella costruzione della grande narrazione storico-morale della «Repubblica nata dalla Resistenza».