• Non ci sono risultati.

il quadro internazionale delle linee guida per la storia orale

Con la redazione del documento presentato in questo volume, l’AISO si è sostanzialmente allineata alle esperienze maturate in altri paesi, in partico- lare quelli anglosassoni, dove testi contenenti principi e indicazioni operative sugli aspetti etici e metodologici della storia orale esistono ormai da diversi decenni e vengono periodicamente aggiornati per adeguarli al mutato con- testo in cui si sviluppa il lavoro con le fonti orali e alle nuove esigenze dei ricercatori e ricercatrici. Questo contributo intende offrire una panoramica di tali documenti presentandone una cronologia essenziale, evidenziandone i punti salienti e mettendo in luce le principali analogie e differenze rispetto alle «Buone pratiche» recentemente adottate in Italia1.

A far da battistrada in questa ideale opera di ordinamento delle norme de- ontologiche del «mestiere di storico orale» fu la Oral History Association statunitense (OHA), che varò le sue prime «Goals and Guidelines» già nel 1968, per poi sottoporle a varie revisioni e integrazioni fino all’ottobre 2009, quando venne redatto il documento attualmente vigente che reca il titolo «Principles and Best Practices for Oral History»2. L’esempio americano ven-

ne seguito, a notevole distanza di tempo, dalla Oral History Society del Re- gno Unito (OHS), che nel 1995 diede alle stampe un opuscolo sugli aspet-

1 La ricerca è stata condotta prevalentemente su Internet, partendo dal sito della International Oral History Association (IOHA), che nella sezione «Ethics and copyrigths» [sic] riporta però solo link non aggiornati ai siti di alcune tra le principali associazioni nazionali: <http://www.iohanet.org/ethics-and-copyrigths/> (ultima consultazione 26 agosto 2016). Le traduzioni dall’inglese all’italiano sono dell’autore.

2 OHA, «Principles and Best Practices for Oral History». <http://www.oralhistory.org/about/principles-and- practices/> (ultima consultazione 26 agosto 2016).

ti etici e il copyright nella storia orale e pubblicò delle brevi linee guida sulla propria rivista3. Otto anni dopo vide la luce la prima versione del testo «Is

Your Oral History Legal and Ethical?», poi rivisto e ampliato nel 2012 in una guida dallo stesso titolo che ha integrato e sostituito tutti i precedenti docu- menti in materia elaborati dagli oralisti britannici4. Nel frattempo, avevano

provveduto a stilare propri codici di condotta o linee guida anche la National Oral History Association of New Zealand (NOHANZ), nel 20015, e succes-

sivamente la Oral History Association of Australia (OHAA) e la Oral History Association of South Africa (OHASA), entrambe nel 20076.

Il fatto che le «Buone pratiche» italiane vedano la luce più tardi rispetto agli analoghi documenti dei paesi citati è riconducibile a una serie di fattori con- nessi tra loro. Innanzitutto, fu proprio negli Stati Uniti e poi in Gran Bretagna che, a partire dal secondo dopoguerra, la storia orale modernamente intesa ebbe origine e mosse i suoi primi passi. Inoltre, in diversi paesi anglosassoni le associazioni professionali degli oralisti vennero costituite molto precoce- mente: mentre la OHA nacque nel 1966, la OHS nel 1973 e la OHAA nel 1978, per la costituzione dell’AISO si dovette attendere il 2006. In Italia, infatti, nei decenni precedenti la ricca fioritura di iniziative e attività di ricer- ca, spesso articolate su base locale, non fu accompagnata da un corrispon- dente sviluppo di forme istituzionali di raccordo tra i singoli, i gruppi e le varie realtà attive sul territorio: i progetti di costituire un’associazione nazio- nale di oralisti, in particolare, non andarono a buon fine. Generalmente par- lando, d’altronde, nei paesi anglosassoni la pratica della storia orale è stata, e tende almeno in parte ancora ad essere, più formalizzata – e soprattutto negli Stati Uniti, più istituzionalizzata – rispetto all’Italia, dove lo spirito spon- taneistico, artigianale e alternativo delle origini ha largamente permeato di sé anche gli sviluppi successivi, nonostante l’attenuazione della dimensione militante di un tempo e la parallela «accademizzazione» della storia orale7.

Un altro aspetto da non trascurare, infine, è che nei paesi anglosassoni è

3 Ward 1995. «Oral History Society Ethical Guidelines». Oral History, a. 23, n. 2: 87.

4 OHS, «Is Your Oral History Legal and Ethical?». <http://www.ohs.org.uk/advice/ethical-and-legal/> (ultima consultazione 26 agosto 2016).

5 NOHANZ, «Code of Ethical and Technical Practice». <http://www.oralhistory.org.nz/index.php/ethics- and-practice/> (ultima consultazione 26 agosto 2016).

6 OHAA, «Guidelines of Ethical Practice». <http://www.ohaa.net.au/guidelines.php> (ultima consultazione 26 agosto 2016). OHASA, «Outline of a Code of Ethics for Oral History Practitioners in South Africa». <http:// www.ohasa.org.za/docs/ethics.rtf> (ultima consultazione 26 agosto 2016).

7 Per una sintetica ricostruzione delle origini della storia orale e dei suoi sviluppi nei vari paesi considerati, mi permetto di rimandare a Bonomo 2013: 43-82. Per una discussione degli aspetti etici della «oral history», con particolare riferimento al contesto statunitense, Shopes 2007.

prassi consolidata che le ricerche condotte in ambito universitario siano sot- toposte a un vaglio preventivo delle loro implicazioni etiche, anche con il ri- corso ad appositi «research ethics committees», in relazione alla tutela dei soggetti coinvolti e ai dati personali che si intende raccogliere.

I documenti prodotti dalle associazioni di oralisti dei paesi anglosassoni ri- sultano assai diversi tra loro in quanto a lunghezza e livello di dettaglio. Le linee guida della OHAA e i codici di condotta della NOHANZ e della OHA- SA sono testi molto sintetici e schematici che – oltre a ricordare le origini e le finalità delle rispettive associazioni, nei primi due casi – si limitano a elen- care le responsabilità che ricadono sugli intervistatori, i committenti e i fi- nanziatori dei progetti, nonché sugli archivi che custodiscono fonti orali. I punti principali che ricorrono in questi documenti sono l’onestà e la traspa- renza nei confronti delle persone intervistate; la loro tutela attraverso il con- senso informato e la possibilità di esercitare forme di controllo o limitazione sull’uso delle interviste; la titolarità e l’assegnazione del copyright; la consa- pevolezza della sensibilità e confidenzialità dei materiali raccolti, come pure dei potenziali rischi di diffamazione; le competenze e l’equipaggiamento ne- cessari per ottenere registrazioni di buona qualità; l’opportunità di conserva- re le interviste raccolte e gli accorgimenti da adottare a tal fine.

Il documento della OHASA richiama chi intenda cimentarsi in un progetto di storia orale a documentarsi in merito alla cultura e alle usanze delle persone da intervistare e delle loro comunità, a considerare ogni possibile danno che potrebbe arrecare alla loro sensibilità o reputazione, a seguire un protocollo «culturally-appropriate» per relazionarsi con i testimoni, a rispettare le loro forme di auto-presentazione e interazione (abbigliamento, linguaggio, po- stura, contatto visivo), e a trattare in maniera adeguata argomenti dolorosi o altamente emotivi8. Il particolare rilievo assegnato a queste raccomandazio-

ni appare legato all’eredità del regime di segregazione e discriminazione razziale ai danni della popolazione nera che ha segnato la società sudafrica- na fino ai primi anni Novanta e al percorso avviato dopo la fine dell’apartheid per superare tali divisioni in un’ottica di riconciliazione nazionale: processi nei quali affondano le radici della stessa OHASA, nata sulla scia di un pro- gramma di storia orale lanciato per impulso governativo nel 1999 al fine di integrare la documentazione istituzionale e la memoria pubblica del paese con le memorie dei gruppi subalterni e oppressi.

8 OHASA, «Outline of a Code of Ethics», punti 1, 3, 4, 9 e 11. <http://www.ohasa.org.za/docs/ethics.rtf> (ultima consultazione 26 agosto 2016).

Rispetto a quelli adottati in Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica, i docu- menti delle associazioni britannica e statunitense sviluppano i propri conte- nuti in forma più estesa e maggiormente discorsiva. Quello della OHS, in particolare, si presenta come un ipertesto assai dettagliato e ricco di riman- di interni che fornisce indicazioni operative per le più svariate circostanze: interviste a bambini, a persone disabili, in famiglia, al telefono o via Skype, e così via. È inoltre corredato da una serie di testi esplicativi, documenti e moduli cui si accede attraverso i link: ad esempio, delle linee guida per i ri- cercatori o archivisti che ricevano richieste di materiali da parte di radio o tv9.

Esso contiene infine una ventina di FAQ, domande ricorrenti che spaziano dalla possibilità di caricare le interviste su internet all’atteggiamento da te- nere in caso la polizia volesse accedere alle registrazioni in proprio posses- so, dalle questioni legate al copyright e alla legislazione in materia alle obie- zioni di terzi eventualmente menzionati nelle interviste alla diffusione pubblica delle stesse.

I documenti elaborati dalle associazioni di oralisti degli altri paesi hanno rappresentato per noi membri del gruppo di lavoro dell’AISO una preziosa fonte di ispirazione e degli importanti punti di riferimento nel percorso che ha condotto alla stesura delle «Buone pratiche». Quello che – al di là delle pur notevoli differenze, come si vedrà in seguito – più si è avvicinato a costituire un modello è il testo della OHA, di cui il nostro ricalca in buona misura la struttura (con la suddivisione in un preambolo seguito dai princi- pi generali e poi dalle indicazioni relative alle varie attività e fasi del lavoro con le fonti orali) e che in qualche passaggio abbiamo ripreso fin quasi alla lettera.

In generale, tutti i documenti muovono dal presupposto che le previsioni di legge non siano sufficienti a regolare la raccolta, la conservazione, il tratta- mento e la pubblicazione delle fonti orali nelle loro molteplici implicazioni (tra l’altro, spesso non esiste una normativa specifica in materia), e che sia necessaria un’assunzione di responsabilità collettiva da parte della comuni- tà dei praticanti per formalizzare in maniera autonoma quelle «norme di buo- na condotta» che vengono abitualmente seguite da quanti – ricercatori, ar- chivisti, collaboratori – maneggiano tali fonti con la dovuta consapevolezza e attenzione. Questo intento può anche essere reso esplicito nei documen-

9 OHS, «Media Guidelines». <http://www.ohs.org.uk/documents/Media_Guidelines_1006.pdf> (ultima consultazione 26 agosto 2016).

ti considerati, come in quello dell’associazione britannica10, ma il più delle

volte ne costituisce una sorta di tacita premessa.

In tutti i documenti, inoltre, ricorrono una serie di raccomandazioni che co- stituiscono i fondamenti del bagaglio deontologico dell’«oralista consapevo- le»: informare adeguatamente le persone da intervistare sulla natura e gli obiettivi della ricerca, nonché sulle modalità relative alla raccolta, al tratta- mento, alla conservazione e all’uso dell’intervista, e ottenere il loro consenso informato; concedere agli intervistati un ventaglio di opzioni e, nei limiti del possibile, la massima libertà di scelta relativamente alla conservazione, all’accessibilità, all’utilizzo e alla diffusione delle interviste (possibilità di ano- nimato, vincoli temporali alla consultazione e/o pubblicazione, controllo del- le trascrizioni, eccetera); farsi carico della conservazione delle fonti orali, individuando e prendendo accordi con archivi che possano custodirle ga- rantendone così la durata nel tempo e l’accessibilità ad altri ricercatori in futuro.

Ciò detto, le differenze non mancano e su alcuni punti, anche qualificanti, le «Buone pratiche» dell’AISO si discostano in maniera significativa dai vari documenti adottati dalle associazioni anglosassoni. Il testo della OHA, ad esempio, risulta più dettagliato e soprattutto più prescrittivo del nostro, che tende a rimanere su un livello più orientativo. Nel fornire tutta una serie di indicazioni tecniche e operative, la sezione delle «Best Practices» detta, tra l’altro, le modalità per contattare gli intervistati: il primo passaggio consiste- rà nell’invio di una lettera o e-mail introduttiva che delinei il tema e la finalità dell’intervista, poi si procederà per telefono o con una seconda e-mail, men- tre solo in progetti che vedano coinvolti soggetti scarsamente alfabetizzati o in presenza di altre condizioni particolari «la partecipazione potrà essere richiesta attraverso incontri faccia a faccia»11. Dopo aver ottenuto la dispo-

nibilità all’intervista, si fisserà un incontro preliminare, che non verrà regi- strato, durante il quale l’intervistatore dovrà fornire tutte le informazioni rile-

10 «La Oral History Society ritiene che, se il lavoro di storia orale deve rispettare la legge, i requisiti di legge da soli non forniscono un quadro adeguato per la buona prassi. Nessuna legge del Regno Unito è stata redatta appositamente per regolamentare il lavoro della storia orale; in realtà nessuna legge la menziona affatto. Al di là delle considerazioni legali, riteniamo da lungo tempo che gli storici orali debbano rispettare una serie di linee guida etiche su base volontaria. Per tali ragioni questa guida tratta delle responsabilità e degli obblighi al di là dei requisiti legali. I membri della Oral History Society, compresi coloro che sono custodi delle fonti, archivisti e bibliotecari, hanno accettato di rispettare queste linee guida», OHS, «Is Your Oral History Legal and Ethical?», 1 Practical Steps. <http://www.ohs.org.uk/advice/ethical-and-legal/> (ultima consultazione 26 agosto 2016). 11 OHA, «Principles and Best Practices for Oral History», Best Practices for Oral History, Pre-Interview, punto 5. <http://www.oralhistory.org/about/principles-and-practices/> (ultima consultazione 26 agosto 2016).

vanti in merito alle ragioni e alle modalità dell’intervista stessa, illustrare possibili domande, spiegare la necessità del consenso informato e delle autorizzazioni da parte dell’intervistato assicurandosi che questi abbia ben compreso le finalità e le procedure della storia orale in generale nonché gli scopi della sua intervista in particolare, gli usi che si prevede di farne e i suoi diritti in materia di copyright, restrizioni all’accesso, editing e così via12. Si

raccomanda poi agli intervistatori di preparare una traccia di argomenti e domande da usare come guida durante l’intervista13, nonché di concordarne

anticipatamente la durata14.

Indicazioni così precise – e così rigide se confrontate con quelle delle nostre «Buone pratiche» – riflettono il carattere maggiormente formalizzato della «oral history» statunitense, nella quale si prevedono procedure standardizza- te per la preparazione e realizzazione delle interviste soprattutto perché tutt’altro che infrequentemente queste vengono effettuate da équipes di intervistatori stipendiati nell’ambito di «institutional projects», ovvero raccol- te di testimonianze spesso su vasta scala promosse da archivi e centri di ricerca universitari o legati a istituzioni pubbliche o private con il supporto di finanziamenti anche ingenti. Una realtà assai distante da quella italiana, dove sono prevalentemente i ricercatori stessi a raccogliere di persona, al più con l’ausilio di qualche collaboratore, le interviste per i propri specifici progetti di ricerca. È alla luce dell’intento di codificare gli standard profes- sionali per questi «institutional projects» di natura archivistica che vanno dunque lette indicazioni come quella secondo cui «gli intervistatori sono te- nuti a porre domande storicamente rilevanti, che riflettano un’attenta prepa- razione dell’intervista e la comprensione degli argomenti da affrontare»15.

Ciò non toglie che alcuni passaggi possano suonare vagamente lapalissiani, se non naïf, come l’invito rivolto agli storici orali e agli altri responsabili dei progetti di ricerca a «scegliere i potenziali narratori in base alla rilevanza delle loro esperienze rispetto all’argomento trattato»16.

12 OHA, «Principles and Best Practices for Oral History», Best Practices for Oral History, Pre-Interview, punto 6. <http://www.oralhistory.org/about/principles-and-practices/> (ultima consultazione 26 agosto 2016). 13 OHA, «Principles and Best Practices for Oral History», Best Practices for Oral History, Pre-Interview, punto 8. <http://www.oralhistory.org/about/principles-and-practices/> (ultima consultazione 26 agosto 2016). 14 OHA, «Principles and Best Practices for Oral History», Best Practices for Oral History, Interview, punto 3. <http://www.oralhistory.org/about/principles-and-practices/> (ultima consultazione 26 agosto 2016). 15 OHA, «Principles and Best Practices for Oral History», General Principles for Oral History. <http://www. oralhistory.org/about/principles-and-practices/> (ultima consultazione 26 agosto 2016).

16 OHA, «Principles and Best Practices for Oral History», Best Practices for Oral History, Pre-Interview, punto 3. <http://www.oralhistory.org/about/principles-and-practices/> (ultima consultazione 26 agosto 2016).

Un’altra differenza sostanziale consiste nel diverso rilievo assegnato all’in- terpretazione e all’uso delle fonti orali, in particolare al modo in cui vengono riportate le parole delle persone intervistate e a come esse e le loro comu- nità vengono rappresentate nei prodotti della ricerca. Il documento della OHA affronta l’argomento sin dal primo capoverso, che evidenzia la neces- sità di «un approccio critico alla testimonianza orale e le interpretazioni»17.

Nei principi generali si afferma che «nell’uso delle interviste, gli storici orali si attengono all’onestà intellettuale e alla migliore applicazione delle com- petenze della loro disciplina, evitando stereotipi, rappresentazioni falsate o manipolazioni delle parole dei narratori»18. Il punto viene poi ripreso nell’ulti-

ma sezione, con un occhio al rispetto per gli intervistati e l’altro al politically correct, esortando quanti impiegano le fonti orali a «impegnarsi per mante- nere l’integrità della prospettiva del narratore, riconoscendo la soggettività dell’intervista, e a interpretare e contestualizzare il racconto secondo gli standard professionali delle discipline accademiche applicabili», nonché, nei progetti che trattino di «community history», a «essere sensibili nei confronti della comunità, facendo attenzione a non alimentare stereotipi sconsiderati»19.

Richiami del genere non compaiono nel nostro documento, che in sostanza tende a dare questi punti per acquisiti.

Se tutti i documenti concordano nel richiedere che le persone da intervistare siano rese debitamente edotte della natura e finalità dell’intervista, delle mo- dalità della sua conservazione, degli usi che ne verranno fatti e delle forme di diffusione che potrà avere, significative variazioni si registrano riguardo alla forma in cui andrà espresso il loro consenso informato. Strettamente con- nessa, nei documenti anglosassoni, è la questione del copyright e del suo trasferimento da parte della persona intervistata, titolare originaria dei diritti sulle proprie parole registrate: questione che trova ampio spazio soprattutto nel testo britannico e, in misura più contenuta, in quello statunitense, mentre le nostre «Buone pratiche» si limitano a un breve cenno alla coautorialità dell’intervista e alla titolarità della registrazione da parte di chi l’ha effettuata. La OHS, il cui documento presta notevole attenzione agli aspetti legali ac- canto a quelli più propriamente deontologici, fa deciso affidamento sui mo-

17 OHA, «Principles and Best Practices for Oral History», Introduction. <http://www.oralhistory.org/about/ principles-and-practices/> (ultima consultazione 26 agosto 2016).

18 OHA, «Principles and Best Practices for Oral History», General Principles for Oral History. <http://www. oralhistory.org/about/principles-and-practices/> (ultima consultazione 26 agosto 2016).

19 OHA, «Principles and Best Practices for Oral History», Best Practices for Oral History, Post Interview, punto 8. <http://www.oralhistory.org/about/principles-and-practices/> (ultima consultazione 26 agosto 2016).

duli cartacei. Si raccomanda innanzitutto, quando si contattano le persone da intervistare, di fornire loro una scheda informativa sulle caratteristiche e gli obiettivi del progetto nel cui ambito si intende raccogliere l’intervista. Per l’espressione del consenso informato alla realizzazione e all’uso dell’intervi- sta stessa e il trasferimento del copyright si prevede il ricorso a un «Recor- ding Agreement», che andrà illustrato prima che cominci la registrazione e poi compilato e firmato in doppia copia da intervistatori e intervistati alla sua conclusione. Una delle FAQ chiede se il copyright possa essere trasferito anche oralmente: la risposta spiega che solo in casi particolari in cui non sia possibile farlo per iscritto, ad esempio se l’intervistato è affetto da una disa- bilità, «una dichiarazione orale registrata potrebbe essere accettabile ed è certamente meglio di niente»20. Pur riconoscendo che la compilazione del

modulo potrebbe risultare seccante per le persone intervistate, si evidenzia che in questo modo esse sono rese consapevoli dei diritti che detengono sulla registrazione, delle sue finalità e degli usi che ne verranno fatti, «assi- curando così che la loro intervista non sia soggetta a sfruttamento o ad altri usi indesiderati»21.

Se su altri aspetti, come le modalità per contattare le persone da intervistare, l’associazione britannica si mostra più flessibile rispetto alla sua omologa sta- tunitense22, relativamente a questo le parti risultano invertite. La OHA distin-

gue infatti tra il consenso a essere intervistati, che può essere espresso non solo per iscritto ma anche a voce con una dichiarazione registrata prima dell’intervista, e la cessione del copyright, che invece avviene «firmando una liberatoria o in circostanze eccezionali registrando una dichiarazione orale con gli stessi effetti»23. Pure l’associazione australiana raccomanda di far sotto- 20 OHS, «Is Your Oral History Legal and Ethical?», 7 Frequently Asked Questions. <http://www.ohs.org.uk/