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Davos 1929: il dibattito tra Heidegger e Cassirer

Nel romanzo La montagna incantata di Thomas Mann il protagonista Hans Castorp incontra due uomini con cui trascorrere le giornate durante il suo ricovero presso un sanatorio di Davos: Lodovico Settembrini, rappresentante di un illuminismo cosmopolita, sostenitore dei valori della tradizione umanistica e borghese e il professor Naphta che invece nega ogni valore all’operosità e al progresso umano. Queste figure, utilizzate da Mann per esprimere l’antitesi tra Kultur e Zivilisation, sono servite anche per rappresentare il contrasto che vide opposti Cassirer e Heidegger durante una serie di incontri che si tennero proprio a Davos nel 1929: da un lato un fiero rappresentante della tradizione umanistica e del razionalismo

75 Ivi, pp. 209-211

76 Approfondimenti su questi temi si trovano in M. FERRARI, E. Cassirer. Dalla scuola di

Marburgo alla filosofia della cultura, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1996 e in R. LAZZARI (a cura di), Disputa sull’eredità kantiana. Due documenti (1928 e 1931), Unicopli, Milano 1990.

europeo, dall’altro un filosofo che proclama la necessità di distruggere i fondamenti del pensiero occidentale. Si tratta, come è ovvio, di una contrapposizione simbolica e il lettore giudicherà da sé quanto la finzione letteraria riesca a riprodurre la concreta vicenda storica dopo che avrà presente alcuni momenti del dibattito che vide impegnati i due pensatori. Questo, infatti, è il compito che ci poniamo nelle pagine che seguiranno.

Ritorniamo, pertanto, agli interrogativi con cui abbiamo concluso il precedente paragrafo. La prima considerazione da fare è che Cassirer li giudica come la dimostrazione dell’incompletezza del discorso heideggeriano: essi rivelano, infatti, che le analisi condotte nel saggio del ’29 non riescono a cogliere il punto veramente centrale della filosofia kantiana, vale a dire la necessità di spiegare la “forma di assolutezza che Kant ha affermato in campo etico, teoretico e nella Critica del giudizio”. Secondo Cassirer, infatti, Heidegger avrebbe solo mostrato la finitezza che caratterizza le nostre facoltà ma non sarebbe riuscito a spiegare in che modo l’Esserci riesca a raggiungere ciò che non appare legato alla sua costituzione finita come le verità universali e necessarie postulate in campo scientifico: “Per Kant”, sostiene Cassirer, “il problema era proprio questo: com’è possibile nonostante la finitezza che proprio Kant ha messo in luce, che ci siano verità universali e necessarie? Come sono possibili i giudizi sintetici a priori? Ossia giudizi che nel loro contenuto non sono unicamente finiti, ma universalmente necessari?”. In sostanza, si chiede il filosofo, Heidegger intende “ritirarsi completamente all’interno dell’ente finito o, in caso contrario, dove si trova secondo lui la breccia per passare a questa sfera [dell’assolutezza]?”77.

Con questa domanda Cassirer obbliga il suo interlocutore a dar ragione di un’interpretazione del pensiero kantiano che sembra troppo condizionata dalla sua filosofia e dall’eccessiva attenzione rivolta solo alla prima delle tre Critiche. Un dubbio senz’altro legittimo se si pensa al fatto che Heidegger sin dall’inizio mostra la volontà di leggere la Critica della ragion pura alla luce del problema ontologico che, come sappiamo, costituisce il tema centrale della sua riflessione. I riferimenti presenti alle altre opere di Kant, inoltre, sono tutti funzionali a sostenere un’argomentazione che sviluppa unicamente questioni presenti nella prima critica senza tener conto di quegli sviluppi maturati nel corso delle altre due. In questo senso, ad esempio, secondo Cassirer la riflessione etica contenuta nella Critica della ragion pratica, affrontando il problema della libertà e dell’imperativo categorico, aprirebbe già “una breccia” verso il mundus intellegibilis, permettendo di raggiungere “un punto che non è più relativo alla finitezza dell’ente che conosce, ma dove è posto un assoluto”78.

In questo modo Cassirer sembra muovere ad Heidegger le stesse critiche che questi mosse ad Husserl quando lo accusò di essere rimasto prigioniero di una considerazione strettamente teoretica dell’essere del soggetto. Se la prima Critica non esaurisce né riassume la totalità degli interessi che animano la filosofia kantiana, è necessario, allora, rivedere l’importanza che Heidegger attribuisce allo schematismo per la comprensione dell’opera di Kant dal momento che la sua funzione sarebbe fondamentale soprattutto in relazione alla conoscenza teoretica ma non alla ragion pratica: in altre parole, lo schematismo rappresenta sì un momento decisivo nello

sviluppo del discorso kantiano ma non bisogna dimenticare che il problema che intendeva risolvere, quello della sintesi tra intuizione e pensiero, è destinato a riproporsi e ampliarsi nel seguito delle altre Critiche assumendo caratteri che difficilmente si lasciano spiegare rimanendo all’interno di una prospettiva conoscitiva.

Le risposte di Heidegger riprendono e sviluppano i punti toccati dalle obiezioni di Cassirer. Innanzitutto si giustificano le motivazioni che hanno determinato un’interpretazione del testo kantiano in chiave ontologica, successivamente si cerca di chiarire in che modo, partendo proprio da tale lettura, sia possibile affrontare le questioni sollevate nel dibattito, vale a dire il modo in cui l’uomo è in grado di superare i limiti della propria condizione finita per accedere nel campo della ragione e della verità universali. Ne risulta la difficoltà di conciliare due modi completamente diversi di accostarsi alla lettura della pagina kantiana segno di quella difficoltà di tradurre i differenti linguaggi nei quali i due filosofi si esprimono. Non è un caso se la discussione si conclude con la presa di coscienza da parte dei due interlocutori di una sostanziale divergenza tra le loro posizioni.

Nel precedente paragrafo abbiamo visto come l’antropologia non sia in grado di fondare la metafisica dal momento che rimane preclusa alle sue indagini la ragione profonda di questa tendenza dell’animo umano. La riflessione di Heidegger ha mostrato che solo un’analisi approfondita della finitezza umana (l’ontologia fondamentale) è in grado di rivelare la radice dell’atteggiamento metafisico: riconoscendo, infatti, la trascendenza come quella determinazione di fondo della soggettività a cui l’Esserci risulta rinviato in virtù della sua condizione finita, diventa possibile

accedere all’orizzonte originario (la temporalità) nel quale si dà il rapporto con l’ente e quindi la possibilità di una metafisica e di tutte le attività umane. Questa conclusione dimostra che nessuna scienza ontica può legittimare il proprio operato senza la garanzia offerta da una fondazione ontologica. La critica kantiana, pertanto, non approda a definire l’ambito problematico di una determinata disciplina ma “persegue una teoria dell’essere in generale” nella quale diventa problematica la possibilità stessa della metafisica.

Si comprendono così le critiche mosse a quei tentativi di interpretare l’opera di Kant come una fondazione delle scienze fisiche e matematiche: “L’intento della Critica della ragion pura resta quindi fondamentalmente misconosciuto, qualora si interpreti quest’opera come «teoria dell’esperienza» o addirittura come teoria delle scienze positive. La critica della ragion pura non ha nulla a che fare con una «teoria della conoscenza»”79 ma rappresenta la ricerca del

fondamento originario della conoscenza ontologica. Queste convinzioni chiariscono molte delle questioni affrontate da Heidegger nel libro del ’29: il rifiuto di attribuire all’intelletto un’importanza maggiore rispetto alla sensibilità si spiega, infatti, con la polemica nei confronti di quelle interpretazioni neokantiane favorevoli ad una logicizzazione dell’esperienza attraverso la subordinazione dell’Estetica trascendentale ai bisogni e alle necessità dell’Analitica trascendentale. Contro questa impostazione si cerca di ritrovare il fondamento inespresso della logica nell’estetica avviando una riflessione che si conclude con la constatazione del carattere temporale dell’io-penso: il momento categoriale che ha

79 Ivi, p. 24: “L’intento della Critica della ragion pura resta quindi fondamentalmente

misconosciuto, qualora si interpreti quest’opera come «teoria dell’esperienza» o addirittura come teoria delle scienze positive. La critica della ragion pura non ha nulla a che fare con una «teoria della conoscenza»”

nell’appercezione trascendentale la sua garanzia, si costituisce, insomma, in base al privilegio accordato alla determinazione temporale del presente secondo quell’orientamento che aveva già determinato la concezione greca della teoria come intuizione di ciò che è semplicemente presente. Per ottenere tale risultato diviene necessario sottolineare la centralità dello schematismo e mostrare che i concetti puri dell’intelletto affondano le loro radici nella temporalità. Così facendo, infatti, cade la necessità di una “deduzione” capace di giustificare la legittimità della loro applicazione all’ambito fenomenico dal momento che le categorie derivavano proprio da quell’orizzonte che costituisce la possibilità dell’esperienza, il terreno in cui l’ente stesso si manifesta attraverso la ricettività del soggetto conoscente. Si scopre, così, che il carattere recettivo dell’intuizione e la spontaneità dell’intelletto sono intimamente connessi in virtù di quella temporalità originaria la cui intuizione è affidata all’immaginazione trascendentale che, proprio per questo motivo, si pone come la radice unitaria della conoscenza.

Chiarite le linee generali dell’interpretazione heideggeriana di Kant appare più semplice affrontare il rapporto tra la finitezza dell’Esserci e l’infinità a cui sembra condurlo la capacità creativa dell’immaginazione. Per Cassirer questa facoltà è in grado di assicurare la produzione di quelle “forme” che, permettendo all’uomo di vedere la propria esistenza finita raccolta in una qualche figura oggettiva, assicurano la possibilità di percorrere tali oggettivazioni come le tappe di un percorso durante il quale si sperimenta una sorta di “infinitezza immanente”: “Come dice Goethe, «se vuoi avanzare nell’infinito, non hai altro da fare che camminare nel finito in tutte le direzioni». In quanto la finitezza si

compie, cioè cammina in tutte le direzioni, avanza nell’infinità”80.

Questa capacità di “compiere la finitezza” nella creazione di forme simboliche è la dimostrazione dell’infinità dell’uomo, della possibilità di riportarsi su quel terreno universale che, aprendo la finitezza alla dimensione interpersonale, la mette al riparo da ogni solipsistico ripiegamento su se stessa. La cultura in quanto “spirito oggettivo” prodotto dalla razionalità, si pone come la dimensione in cui l’uomo si appropria della sua condizione finita nel tentativo di trascenderla verso “la regione della forma pura”. Di conseguenza, egli possiede l’infinità solo facendo esperienza di quel mondo spirituale da lui stesso creato.

Per Heidegger, invece, non è pensabile nessuna elaborazione concettuale o immaginativa in grado di condurre al di là della finitezza. Questa rimane la condizione insuperabile di ogni umana attività nel senso che l’Esserci è costantemente rinviato al suo carattere creaturale e finito proprio dalla sua stessa azione creativa. Non è in questione il fatto che proprio riflettendo sulla costituzione finita dell’essere umano emerga la sua tendenza a raggiungere la dimensione dell’assoluto: secondo Heidegger anche lui ha riconosciuto questa situazione chiarendo il motivo per cui Kant definisce l’immaginazione dello schematismo come exhibitio originaria. Come abbiamo avuto modo di vedere a suo tempo, la trascendenza richiede che l’immaginazione riveli la sua capacità formatrice in quanto “originarietà dell’esposizione”, nella misura in cui, cioè, offre liberamente lo sfondo a partire dal quale è possibile la ricezione dell’ente. L’uomo può avere l’esperienza dell’infinito non nella creazione dell’ente a cui si riferisce ma solo cogliendo la dimensione

che gli permette di attuare tale riferimento81, ovvero, la dimensione

ontologica in cui è possibile determinare concettualmente l’essere. In definitiva, “quest’infinità che nell’immaginazione si apre una breccia, è proprio l’argomento più forte a favore della finitezza. Infatti l’ontologia è un indice della finitezza. Per Dio non c’è l’ontologia e che l’uomo abbia l’exhibitio è l’argomento più forte a testimonianza della sua finitezza. Soltanto un ente finito, infatti, ha bisogno dell’ontologia”82.

Si ripropongono, in sostanza, le considerazioni che abbiamo svolto a proposito della “distruzione fenomenologica”: l’uomo, essendo limitato e condizionato dai presupposti che hanno determinato la situazione alla quale si trova assegnato, deve innanzitutto impegnarsi a chiarire il contesto originario a partire dal quale è costretto ad operare. Quest’opera di chiarificazione e di accertamento critico dei limiti che costituiscono l’ambito della sua azione mondana diventa l’unica possibilità che si offre alla riflessione filosofica. Per questi motivi non occorre rivolgere l’attenzione agli obiettivi che la ragione si pone nel suo tentativo di andar oltre la finitezza e ribadire, come fa Cassirer, che negli scritti di etica kantiani la libertà e l’imperativo categorico sono la principale via di accesso in quel mundus intellegibilis a cui guarda la metafisica83: più che aprire

“una breccia” che conduce oltre la finitezza, è necessario rimanere

81 Ivi, p. 224: “L’uomo, come ente finito, ha una certa infinità nell’ontologico. Ma l’uomo

non è mai infinito e assoluto nel creare l’ente stesso, bensì nel senso dell’intendere l’essere”

82 Ibid.

83 Ivi, p. 223: “Io credo che si cada in errore nell’intendere l’etica kantiana, quando ci si

orienta previamente a ciò a cui si rivolge l’agire etico e non si considera abbastanza la funzione interna della legge stessa per l’esserci. Non si può spiegare il problema della finitezza dell’ente morale, se non si pone la questione: che cosa significhi qui legge e in che modo la legalità è costitutiva per lo stesso esserci e per la per la personalità? Che nella legge morale si trovi qualcosa che va oltre la sensibilità è innegabile, ma la questione è un’altra, e precisamente: la struttura interna dell’esserci stesso è finita o infinita?”

dentro il limite e meditare sul significato dell’impresa che intende oltrepassarlo.

La costituzione finita dell’uomo, insomma, non rappresenta un impedimento alla realizzazione degli scopi propri della metafisica costituendo, semmai, la condizione principale perché possa darsi un atteggiamento definito come metafisico. Per riprendere una metafora utilizzata da Cassirer, non si tratta di scorgere un’infinità immanente percorrendo tutte le direzioni del finito e allargando, così, la critica della ragion pura in una critica della cultura e dei suoi diversi ambiti quanto di muoversi continuamente sullo stesso tragitto al fine di individuare ciò che era stato ignorato durante il percorso compiuto. Se di infinità si vuole parlare, essa sarà un’infinità contenuta nel finito e, precisamente, in quel processo di ripetizione che ci permette di svolgere in tutta la sua radicalità il rapporto che lega la metafisica alla finitezza dell’Esserci84: “Il principale atto ontologico-fondamentale

della metafisica dell’esserci, in quanto fondazione della metafisica, è perciò una «rammemorazione»”85.

Il riferimento a ciò che rimane nascosto ci dà l’opportunità di introdurre l’ultimo degli argomenti toccati nelle obiezioni di Cassirer, quello della verità86. Questo tema verrà sviluppato prima in

riferimento a quello della non-verità e, successivamente, insisteremo

84 Ivi, p. 177: “Per ripetizione di un problema fondamentale intendiamo l’esplicitazione

delle sue possibilità originarie ancora nascoste. Nella messa in opera di tali possibilità il problema si trasforma; ma questo è anche il solo modo per salvaguardarne il contenuto problematico. Salvaguardare un problema significa, peraltro, mantener libere e deste quelle forze interne che lo rendono possibile come problema, nel fondo della sua essenza.”

85 Ivi, p. 201

86 Ivi, p. 222 “[…] Heidegger pone il problema della verità e dice: non ci possono essere

verità in sé o verità eterne, ma, nella misura in cui in generale ci sono verità, sono relative all’esserci. E poi: un ente finito non può in generale possedere verità eterne, per gli uomini non ci sono verità eterne e necessarie. E qui torna ad aprirsi l’intera questione. Per Kant il problema era proprio questo: com’è possibile nonostante la finitezza che proprio Kant ha messo in luce, che ci siano verità universali e necessarie? […] come arriva quest’ente finito a determinare oggetti che come tali non sono legati alla finitezza?”

sul rapporto che lo lega alla nozione di tempo. In questo modo avremo occasione di introdurre il problema della storicità, oggetto delle riflessioni del prossimo capitolo.

L’interesse rivolto soprattutto all’Analitica trascendentale ha relegato ad una posizione di secondo piano gli argomenti discussi nella Dialettica: non sembra, ad esempio, chiaro il ruolo svolto da quella che Kant definisce “illusione trascendentale”. Come deve essere interpretata una questa nozione? Bisogna forse credere che anche questo tipo di “non-verità” è una conseguenza della costituzione finita del soggetto87? La riflessione di Heidegger intende

mostrare l’originaria coappartenenza di “verità” e “non-verità” muovendo proprio dal carattere trascendente e finito dell’Esserci. Se la verità va pensata come quella apertura nella quale l’ente si svela mostrandosi per quello che è, la non-verità si identifica con l’oscurità dalla quale l’ente viene sottratto. La verità implica, cioè, nella sua stessa essenza la non-verità, come d’altronde testimonia il vocabolo greco la cui composizione evidenzia proprio il fatto che il processo di svelamento indicato dall’alfa privativa presuppone un nascondimento originario. In quanto essere-nel-mondo, l’Esserci è inserito nella totalità dell’ente da cui cerca di far emergere il singolo ente rispetto al quale risulta continuamente aperto. Ogni atto di illuminazione nei confronti dell’ente comporta, però, un oscuramento nel senso che l’ente appare proprio in quanto la totalità alla quale appartiene rimane sullo sfondo88. Da ciò deriva la parzialità della

87 Ivi, p. 211: “Qual è l’essenza trascendentale della verità in generale? Com’è che l’essenza

della verità e la non-essenza della non-verità, più che mai nel fondo della finitezza dell’esserci fanno originariamente tutt’uno con la fondamentale indigenza dell’uomo, il quale, essendo un ente”gettato” nell’ente, ha appunto bisogno di comprendere qualcosa come l’essere?”

88 Ivi, 224: “La verità stessa è unita nel modo più intimo alla struttura della trascendenza

per il fatto che l’esserci è un ente aperto all’altro e a se stesso. Noi siamo un ente che si mantiene nel non nascondimento dell’ente. Mantenersi nella disvelatezza dell’ente è quello

nostra conoscenza, la possibilità di cadere nell’errore nei confronti del quale risultiamo sempre esposti proprio perché il nascondimento da cui deriva rappresenta la condizione stessa della verità.

Ma quale rapporto si pone, a questo punto, tra l’uomo e la verità? Da un lato è l’atteggiamento scoprente dell’Esserci che svela l’ente portandolo nella verità, dall’altro tale azione è possibile proprio perché l’uomo, grazie alla sua struttura trascendente, risulta già da sempre nella verità, aperto nei confronti dell’ente con cui si relaziona, un ente che a sua volta, in quanto fenomeno, è sempre suscettibile di esser scoperto. Vi sono, insomma, tre modi di intendere l’espressione “esser vero”: 1. vero in senso primario è l’Esserci che avvia il processo di svelamento rapportandosi all’ente 2. vero in senso secondario è l’ente che viene scoperto 3. vero è ciò che sta “fra” le cose e l’Esserci, vale a dire l’orizzonte ontologico che rende possibile l’incontro con l’ente nei confronti del quale l’Esserci si trova costantemente aperto in quanto essere-nel-mondo89. Heidegger sintetizza queste tre

articolazioni del concetto di “verità” con la frase “l’Esserci è nella «verità»”90, intendendo dire che la verità non è il risultato di

un’occupazione occasionale dell’Esserci ma è qualcosa che lo determina nella sua stessa essenza: essa non si rivela solo come uno dei suoi modi d’essere (primo significato) ma costituisce il presupposto fondamentale (terzo significato) del suo essere.

In base a queste considerazioni è possibile affrontare il problema delle verità eterne e della conoscenza oggettiva. “Quando

che chiamo essere-nella-verità, e vado ancor oltre e dico: a base della finitezza dell’essere- nella-verità dell’uomo sussiste al tempo stesso un essere-nella-non-verità. La verità appartiene al nucleo più interno della struttura dell’esserci, e qui credo di aver finalmente trovato la radice in cui viene fondata metafisicamente l’«apparenza» metafisica in Kant.”

89 Sui modi in cui si articola il concetto di verità si veda il paragrafo 44b di Essere e tempo,

op. cit. e il paragrafo 18 de I problemi fondamentali della fenomenologia, op. cit.

dico”, osserva Heidegger, “la verità è relativa all’esserci non si tratta