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Metafisica, antropologia e umanesimo

Nella lettura heideggeriana della Critica della ragion pura l’immaginazione rappresenta quella facoltà unificatrice che permette la sintesi ontologica ma è anche ciò dinanzi a cui Kant si ritrae impaurito per paura di sovvertire quelli che erano stati i fondamenti del pensiero occidentale. In questo paragrafo cercheremo di chiarire l’aspetto “sconcertante” che, secondo Heidegger, fa emergere la ricerca kantiana sull’essenza della soggettività interpretata come fondazione della conoscenza ontologica. In particolare, due saranno i quesiti che guideranno la nostra indagine: quale legame si pone tra il fondamento della conoscenza dell’essere e la costituzione essenziale del soggetto umano? Quale ruolo svolge la finitezza una volta che viene riconosciuta come l’orizzonte insuperabile della condizione umana? Il primo interrogativo ci permetterà di approfondire, ancora una volta, il nesso essere-Esserci mostrando le connessioni tra metafisica, antropologia e umanesimo; il secondo, invece, offrirà l’occasione di sviluppare la riflessione heideggeriana sulla natura dell’uomo che si concluderà, nel prossimo paragrafo, con l’esame delle posizioni di Cassirer. Obiettivo resta, comunque, quello di ricostruire il cammino che porterà Heidegger a formulare il suo giudizio sull’umanesimo attraverso il chiarimento di quelle tematiche

che risulteranno decisive per le riflessioni condotte nella Lettera sull’«umanesimo».

Nella quarta e ultima sezione del libro su Kant l’esame dei vari stadi della fondazione della metafisica si trasforma nel tentativo di “ripetere” il problema da cui Kant è partito, vale a dire il problema della possibilità della conoscenza ontologica, con lo scopo di scorgere nella costituzione temporale del soggetto finito il terreno privilegiato per la comprensione dell’essere. In questo modo il processo di fondazione della metafisica si risolve in un’indagine sull’essere dell’uomo esattamente come in Kant la critica della ragion pura implica, secondo Heidegger, la necessità di avviare una riflessione sulla natura umana.

Richiamando alcuni passi dell’opera kantiana, Heidegger nota, infatti, che la volontà di sottoporre la ragione ad una critica in grado di garantire i suoi diritti e condannare le sue false pretese, comporta un’indagine sugli interessi più profondi dell’animo umano. Questi si riassumono in tre domande fondamentali: 1. Che cosa posso sapere? 2. Che cosa posso fare? 3. che cosa posso sperare? Dal momento che questi interrogativi determinano l’uomo in quanto tale e fanno sorgere le tre discipline in cui si suddivide la metaphysica specialis (la cosmologia, la psicologia e la teologia), nasce l’esigenza di porre un’ulteriore domanda: “che cos’è l’uomo?”. Sintetizzando al meglio gli obiettivi della filosofia trascendentale kantiana, tale quesito mostra che la fondazione della metafisica si risolve, in ultima istanza, nell’elaborazione di un’antropologia filosofica.

È a questo punto che la riflessione sulla Critica della ragion pura si salda con quella sulla situazione presente: “Oggi la parola ‘antropologia’ non è più da gran tempo il semplice nome di una

disciplina, ma indica una tendenza fondamentale dalla posizione attualmente assunta dall’uomo sia rispetto a se stesso, sia rispetto alla totalità dell’ente.”52 Aver posto l’esigenza di studiare l’opera kantiana

alla luce della connessione tra metafisica e antropologia comporta il confronto con quella “tendenza fondamentale” che determina la comprensione che l’uomo contemporaneo ha di sé e della realtà in cui vive. Chiediamoci: cosa si intende propriamente per antropologia? Questa disciplina rappresenta il terreno appropriato per avviare un indagine sull’uomo? La risposta a questi interrogativi ci aiuterà a capire le ragioni per cui Heidegger ritenga indispensabile porre innanzitutto la domanda sull’essere per affrontare il problema della costituzione essenziale della natura umana. Una posizione, questa, che verrà ulteriormente approfondita nella Lettera sull’«umanesimo» quando il filosofo criticherà le varie forme di umanesimo per aver determinato l’essenza dell’uomo senza interrogarsi sul modo in cui questa appartenga innanzitutto alla verità dell’essere.

Questo breve riferimento ad argomenti che verranno trattati più avanti, ci offre l’opportunità di evidenziare un nesso tra antropologia e umanesimo: molti dei limiti che Heidegger attribuisce al modo di procedere della prima, infatti, possono benissimo essere rivolti anche all’impostazione teorica propria dell’umanesimo, ad iniziare dal legame che questo stringe con la metafisica. Per certi versi, inoltre, l’antropologia sembra assumere il ruolo e il peso che Heidegger le attribuisce proprio in virtù di quella situazione storica nella quale l’uomo, posto davanti ad eventi e situazioni che non riesce più a decifrare muovendo dalle rassicuranti prospettive della religione e della scienza, denuncia la crisi della tradizione umanistica

e avverte il bisogno di trovare nuove coordinate capaci di orientare la sua azione nel mondo. Emblematiche, a tal proposito, risultano essere le seguenti righe: “Nessuna epoca ha avuto, come l’attuale, nozioni così numerose e svariate di uomo. Nessuna epoca è riuscita, come la nostra, a presentare il suo sapere intorno all’uomo in modo così efficace e affascinante, né a comunicarlo in modo tanto rapido e facile. È anche vero, però, che nessuna epoca ha saputo meno della nostra che cosa sia l’uomo. Mai l’uomo ha assunto un aspetto così problematico come ai nostri giorni.”53 Procediamo tuttavia con

ordine, riprendendo la discussione dal rapporto tra la fondazione kantiana della metafisica e l’indagine sull’essenza dell’uomo.

In seguito a quanto detto, l’antropologia sembra rivendicare un posto di primo piano nel novero delle discipline filosofiche: essa è per definizione la scienza dell’uomo, l’unica in grado di considerarlo nella totalità delle sue manifestazioni sia fisiche che spirituali. A ben vedere, però, molti sono gli elementi che meritano un’analisi più approfondita. Richiamando le indagini condotte da Max Scheler, infatti, Heidegger sottolinea come la difficoltà per l’antropologia “non sia solo inerente al compito di raggiungere l’unità sistematica delle determinazioni essenziali di questo essere poliedrico [l’uomo], ma sia implicita nel concetto stesso di antropologia filosofica” 54. Si rivelano,

in altri termini, i limiti di questa disciplina: nonostante le grandi pretese, essa è costretta a confrontarsi continuamente con l’indeterminatezza del suo oggetto tematico e con la funzione poco chiara che riveste all’interno della filosofia, cosa che le impedisce di offrire un valido contributo in vista della determinazione dell’essenza del soggetto umano.

53 Ibid. 54 Ivi, p. 182

Per Heidegger, inoltre, non è tanto in questione la possibilità di trovare una risposta alla domanda “che cos’è l’uomo?” quanto la possibilità stessa di porre un tale quesito55. Per questo motivo

l’antropologia, cercando di stabilire la migliore tra le nozione di “uomo” che sono sorte con l’epoca contemporanea, si lascia sfuggire il compito ben più importante di interrogarsi sulla connessione essenziale che lega i principali problemi filosofici riassunti nelle tre domande di Kant alla posizione della domanda finale sulla natura umana. Secondo Heidegger questa connessione può emergere solo con un’analisi delle ragioni che hanno impedito alla fondazione kantiana della metafisica di tradursi in un’indagine veramente radicale sulla costituzione della soggettività. Seguendo questa direzione, infatti, la riflessione si porta inevitabilmente in prossimità di quell’abisso che costituisce l’autentica problematica di ogni progetto di fondazione e dinanzi al quale lo stesso Kant sembra essersi ritratto preoccupato per le conseguenze che sarebbero potute derivare in seguito alla scoperta del ruolo centrale dell’immaginazione trascendentale. Dice Heidegger: “l’indietreggiare di Kant di fronte al fondamento da lui svelato (l’immaginazione trascendentale), indietreggiare rispondente all’intento di salvare la ragion pura, ossia il mantenere stabile il proprio terreno di base, è quel movimento del pensiero filosofico, che palesa il cedimento di tale terreno, e insieme, l’abisso della metafisica”56. La ragione, facoltà

che Kant intende risollevare dai continui fallimenti a cui pare condannata, risulta, insomma, destinata al tramonto: ogni “movimento” del pensiero che si appella alla sua funzione direttrice

55 Ivi, p. 185: “Non si tratta di cercare una risposta alla domanda circa l’essenza dell’uomo,

ma di chiedersi in primissimo luogo quale sia, in una fondazione della metafisica, il solo modo in cui un’indagine sull’uomo può e deve, in genere, aver luogo.”

finisce, infatti, proprio in quell’abisso senza fondo da cui intende affrancarsi. Sembrano allora più evidenti le cause del fallimento: una volta che la problematica della metafisica è stata condotta sino alle sue estreme conseguenze, non si è potuto procedere oltre perché ciò avrebbe comportato ritrovare il fondamento della metafisica nell’assenza di fondamento, in quel Nulla che, come vedremo tra breve, rappresenta la radice di ogni tentativo umano di trascendere l’ente semplicemente presente in vista dell’essere che lo costituisce. Ritorniamo, comunque, al testo cercando di non perdere il filo dell’argomentazione.

La decisione di evitare facili risposte all’interrogativo sull’essenza dell’uomo equivale alla volontà di permanere nella domanda al fine di scorgere le autentiche motivazioni che guidano la ragione umana in merito a ciò che si può sapere, fare o sperare. Un’analisi più attenta delle tre domande mostra, così, l’importanza che riveste il fondamento originario dell’Esserci, vale a dire la sua condizione finita. Chiedersi, ad esempio, “che cosa posso sapere?” significa denunciare una limitazione delle proprie possibilità, uno stato di impotenza e di sostanziale finitezza. Heidegger può così concludere:

“La finitezza non è quindi un semplice accessorio della ragion pura umana; è invece un rendersi finita della ragione stessa, è la «cura» per il suo poter-essere-finita. (…) la ragione umana non è finita perché pone le tre domande suddette, ma, viceversa, pone queste tre domande perché è finita, e lo è precisamente in modo tale, che nel suo esser ragione ‘ne va’ di questa stessa finitezza. proprio per il fatto che queste tre domande vertono su questo unico oggetto, la finitezza, esse «si lasciano» rapportare alla quarta: che cos’è l’uomo?”57

In questo modo il problema concernente la natura dell’uomo si è trasformato nel problema della sua finitezza. Ne deriva che la fondazione della metafisica non dipende più, come appariva a prima vista, dall’elaborazione di un’adeguata antropologia filosofica: per quanto preziosi siano i contributi che tale disciplina possa fornire all’indagine filosofica, essa non è in grado di “assurgere al rango di disciplina fondamentale della filosofia” dal momento che la volontà di affinare le sue conoscenze sull’uomo per meglio determinarne la sua natura rischia di lasciar cadere la questione veramente decisiva, quella che, interrogandosi sulla possibilità della metafisica, rintraccia nella finitezza dell’Esserci il tratto distintivo della sua essenza. “Soltanto la finitezza e la natura tutta particolare dell’interrogazione che la riguarda”, infatti, “determinano in modo decisivo e radicale la forma interna di un’«analitica» trascendentale della soggettività del soggetto.”58

L’indagine sulla finitezza non può assumere, tuttavia, i tratti di una riflessione sulle proprietà umane che attestino tale caratteristica. Nascendo in relazione al problema della fondazione della metafisica, dovrà invece essere sviluppata in stretta connessione con tale questione. Ora, dal momento che la metafisica presuppone la possibilità dell’ontologia, l’elaborazione del problema dell’essere rappresenta la strada da seguire per affrontare adeguatamente il problema della finitezza nell’uomo. “In sostanza: bisogna portare in luce la connessione essenziale dell’essere (non dell’ente), in quanto tale, con la finitezza dell’uomo.”59

Tale precisazione mostra che l’indagine non seguirà il modo di procedere dell’ontologia tradizionale. Questa infatti si interroga

58 Ivi, p. 189 59 Ivi, p. 191

sull’ente in quanto tale ma così facendo non problematizza a sufficienza l’orizzonte a partire dal quale diventa possibile raggiungere una qualche conoscenza sul piano ontico60. Lo scopo di

Heidegger è invece quello di determinare concettualmente proprio tale orizzonte, vale a dire l’essere, in tutta la ricchezza delle articolazioni che lo contraddistinguono61. Emerge, così, il tentativo di

guadagnare un modo differente di tematizzare il problema dell’essere rispetto al modo tradizionale di interrogarsi su di esso. In gioco non c’è tanto la ripresa di una questione astratta suggerita da discussioni di carattere accademico bensì la possibilità di determinare quanto di più propriamente umano esista, quella dimensione fondamentale nella quale il soggetto può ritrovare l’autenticità della propria condizione62: il legame tra l’essere e la finitezza dell’uomo. Da un lato, 60 Nella Lettera sull’«umanesimo» si insisterà proprio sul fatto che l’umanesimo ha sempre

determinato l’essenza dell’uomo giudicandolo come un ente tra gli altri e dimenticando in questo modo la centralità di quella considerazione della totalità dell’ente nota come metafisica. La domanda sull’ente, insomma, è innanzitutto domanda sull’ente nella sua totalità.

61 M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, op. cit., p. 192: “Nella domanda

sull’ente in quanto tale, ci si chiede che cosa, in generale, determini l’ente come ente. Si tratta di ciò che noi chiamiamo l’essere dell’ente, e il quesito relativo è il problema dell’essere. Oggetto dell’indagine è appunto ciò che determina l’ente in quanto tale. Questo fattore determinante dev’essere conosciuto nel modo della sua azione determinatrice, dev’essere spiegato, afferrato concettualmente, per ciò che è: questo e quest’altro. Ma perché si possa afferrare concettualmente la determinazione essenziale dell’ente, attraverso l’essere, bisogna che lo stesso fattore determinante divenga sufficientemente intelligibile, bisogna che l’essere in quanto essere, e non l’ente in quanto ente, venga afferrato per primo. Così la domanda τί το όν; (che cos’è l’ente?) ne implichi un’altra più originaria: che cos’è l’essere, che in quella domanda è già oggetto di una

comprensione preliminare?

62 Ivi, pp. 194-195: “Se ci poniamo il quesito relativo alla possibilità di afferrare

concettualmente qualcosa come l’essere, questo «essere» non è un’idea fittizia, inserita a forza in un problema, quasi si trattasse soltanto di riprendere una questione filosofica tradizionale. Il quesito verte, invece, sulla possibilità di afferrare concettualmente ciò che noi tutti, come uomini, già comprendiamo e non cessiamo mai di comprendere. Il problema dell’essere come problema della possibilità del concetto di essere, sorge a sua volta dalla comprensione preconcettuale dell’essere medesimo. Così, la domanda circa la possibilità del concetto dell’essere deve fare anch’essa un passo indietro e riportarsi alla domanda circa l’essenza della comprensione dell’essere in generale. Il compito della fondazione della metafisica, preso in un senso più originario, si traduce, quindi, nel chiarimento della possibilità intrinseca della comprensione dell’essere. solo con l’elaborazione del problema dell’essere, così inteso, si può arrivare a stabilire se e come tale

infatti, è possibile venire a capo della determinazione essenziale del soggetto avviando un’analisi su ciò che rende possibile una fondazione della metafisica, interrogandosi, cioè, su quella comprensione dell’essere che la metafisica, in quanto ontologia, presuppone; dall’altro lato tale impresa diventa praticabile solo nella misura in cui si ritrova la possibilità di comprendere l’essere attraverso la trascendenza che determina l’Esserci come un ente finito, ovvero riflettendo su ciò che rappresenta la caratteristica principale della sua natura. Il problema della costituzione dell’uomo si lega in maniera indissolubile alla riflessione sull’essere, suggerendo una direzione di ricerca che sarà ulteriormente approfondita nella Lettera sull’«umanesimo».

Si deve evitare, però, di pensare che questo scritto si risolva in una semplice ripresa di tematiche già elaborate in passato. Se è vero che lo stesso Heidegger insiste sulla continuità del suo progetto filosofico, non bisogna però dimenticare che intanto si era imposta una nuova prospettiva in cui discutere il problema dell’essere. In quelle pagine, infatti, il filosofo annuncia una svolta nel pensiero dell’essere, un cambiamento di prospettiva le sui motivazioni sono in parte il risultato delle indagini condotte nello scritto su Kant. Come abbiamo visto, l’esame della filosofia trascendentale kantiana ha comportato la necessità di un confronto radicale con quell’abisso dinanzi al quale Kant ha preferito indietreggiare preoccupato dalle possibili conseguenze che da esso sarebbero derivate. Heidegger, invece, intende proseguire in tale direzione, deciso a confrontarsi sino in fondo con gli esiti della riflessione kantiana. La possibilità di una determinazione concettuale dell’essere colta a partire dalla

costituzione finita dell’essere umano rappresenta il passo da compiere per avanzare nel cammino interrotto. Sarà proprio tale progetto, tuttavia, a subire un profondo ripensamento a partire dagli scritti degli anni ’30 sino a trasformarsi, poi, secondo le modalità indicate nella Lettera sull’«umanesimo» e su cui ritorneremo più avanti. Per anticipare al lettore la nuova direzione di indagine, diciamo che nello scritto del ’46 sarà mantenuto il legame tra l’essere e l’Esserci ma verrà sviluppato abbandonando l’idea di costruire un’ontologia fondamentale a partire da quell’analitica dell’Esserci che costituisce l’approdo finale delle ricerche su Kant e il problema della metafisica.

Continuando la lettura della quarta sezione dell’opera, ci imbattiamo, infatti, proprio nel proposito di sviluppare il problema dell’essere in stretto legame con quello della costituzione essenziale della soggettività. “Infatti, per quanto impenetrabile sia l’oscurità che si stende sull’«essere» e sulla sua significazione, è sempre altrettanto certo che noi, in ogni momento e ovunque, nel campo in cui l’ente si manifesta, comprendiamo qualcosa di simile all’essere”63: l’essere,

cioè, è sempre presso di noi e non a caso Heidegger si serve dell’espressione Da-sein, “Esser-ci” per indicare che l’uomo è il “ci” dell’essere, il luogo in cui questo si manifesta. “Noi dunque comprendiamo l’essere, e tuttavia ce ne manca il concetto. Questa comprensione preconcettuale dell’essere, per quanto costante ed estesa, è per lo più del tutto indeterminata”64. L’antropologia e

l’umanesimo riposano proprio su questa comprensione indeterminata dell’essere e per questo non sono in grado di restituire all’uomo la sua essenziale appartenenza alla dimensione dell’essere: “se la comprensione dell’essere non avesse luogo”, infatti, “l’uomo non sarebbe

63 Ivi, p. 195 64 Ivi, p. 196

mai in grado di essere l’ente che è, anche qualora fosse dotato delle più straordinarie facoltà”65. Questa condizione privilegiata, in virtù

della quale l’essere è sempre manifesto all’uomo, rappresenta il tratto fondamentale dell’esistenza umana:

“L’uomo è un ente che si trova in mezzo all’ente, e vi si trova in modo tale, per cui l’ente che egli non è e l’ente che egli stesso è gli sono sempre già manifesti. A questo modo d’essere dell’uomo diamo il nome di esistenza. L’esistenza è possibile solo sul fondamento della comprensione dell’essere.

Nel rapportarsi all’ente che egli non è, l’uomo si trova già davanti all’ente come ciò che lo sostiene, ciò cui si trova assegnato, ciò che, con tutta la sua cultura e la sua tecnica, egli non potrà mai, in fondo, signoreggiare. Assegnato all’ente diverso da lui, l’uomo non è, in fondo, padrone nemmeno dell’ente che egli stesso è.”66

Queste parole ci offrono l’opportunità di evidenziare i punti essenziali del discorso heideggeriano. Innanzitutto viene ribadito che il carattere finito dell’uomo dipende dal suo stato di assegnazione all’ente: come sappiamo, ciò era già emerso nelle lezioni del ’27 analizzate nel precedente paragrafo e nei passi dedicati all’esame del ruolo della sensibilità presente nel Kantbuch. L’analisi della ricezione lì compiuta, infatti, ha mostrato che il soggetto è costretto a presupporre la presenza dell’ente come qualcosa che non riesce a creare in base alle sue sole capacità. Così facendo emerge la finitezza costitutiva del soggetto che non è mai in grado di esercitare un completo dominio sull’ente con cui si relaziona proprio perché non è il suo creatore. La sua volontà di padroneggiamento trova sempre un limite invalicabile nel fatto che egli costantemente rimesso ed esposto

65 Ibid. 66 Ibid.

all’ente, sta sempre fuori () nell’apertura in cui l’ente si

rivela.