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Eugenio Garin ed Ernesto Grassi: l’umanesimo italiano 113 Ivi, p

Umanesimo, storia e filosofia

2.1. Il dibattito sull’umanesimo

2.1.3. Eugenio Garin ed Ernesto Grassi: l’umanesimo italiano 113 Ivi, p

Ora vogliamo invece recepire alcune delle sollecitazioni che il testo di Pico ci ha offerto per presentare un altro modo di affrontare il dibattito sull’umanesimo, lì dove tale termine indicò soprattutto un determinato periodo della storia occidentale. Nel Novecento, infatti, il discorso di Pico non potè che attrarre l’attenzione per le condizioni storiche nelle quali era maturato, condizioni che sembravano molto simili a quelle che attraversava l’Europa del secondo dopoguerra114.

Non sorprende, quindi, che l’Oratio venisse considerata come uno dei documenti più significativi che il periodo rinascimentale aveva consegnato all’umanità, il testo su cui si poteva avviare una discussione su quell’eredità spirituale che la modernità aveva consegnato ad un secolo segnato dal tracollo delle sue istituzioni e dei suoi saperi. Fu così che Giovanni Pico della Mirandola, autore quasi dimenticato o lungamente frainteso, attrasse l’attenzione di molti studiosi, primo fra tutti Eugenio Garin. Non è il caso di riproporre qui i risultati delle sue ricerche su questo autore, cosa che meriterebbe ben altra trattazione. Cercheremo, invece, di accogliere alcune delle indicazioni che esse offrono, soprattutto in chiave metodologica, per comprendere più a fondo il senso di quel dibattito che lo vide coinvolto in prima persona. Come nota lo stesso Garin:

114 Nel XV secolo, quando le barriere dell’odio politico e teologico erano sempre pronte a

levarsi, l’Oratio sembrò inaugurare una stagione fervida di speranze e di progetti. All’indomani del concilio di Ferrara-Firenze (1438-39) e della pace di Lodi (1454), un relativo periodo di tranquillità lasciò intravedere la possibilità di una pacificazione universale di quei contrasti religiosi e politici che avevano drammaticamente segnato la recente storia europea. Il clima di tolleranza e di libertà intellettuale che si iniziò a respirare fece aumentare l’interesse per culture sconosciute o a lungo avversate come quella musulmana e quella ebraica. La nascita della stampa, la crescente circolazione di libri e di idee permise che conoscenze a lungo dimenticate rivitalizzassero le fonti di un sapere ormai incapace di rispondere alle esigenze di un mondo in continuo cambiamento. Tutto, insomma, lasciava presagire, così come avvenne dopo la seconda guerra mondiale, la possibilità di ridisegnare un nuovo inizio.

“Col Novecento la situazione cambia, e cambia profondamente. Soprattutto cambiano per un verso i giudizi d’insieme sul significato e sul valore dell’Umanesimo, in particolare sul terreno della filosofia e delle scienze. Cambiano insieme i metodi di studio. Si sposta il dibattito. Si propongono problemi nuovi e nuovi metodi nell’analisi delle fonti, mentre l’approfondimento della conoscenza dell’autunno del medioevo getta un’altra luce sull’alba di un mondo nuovo. Si comincia a capire che una rivoluzione nelle ‘discipline’, nei loro rapporti, nei modi di insegnamento, nei libri, non lascia indenne il mondo del sapere; che l’accesso a una biblioteca imponente come quella classica (ma non solo quella) rinnova l’impostazione di problemi antichi e ne apre moltissimi nuovi. (…) In realtà, mentre è l’intero orizzonte in cui si colloca il cosiddetto umanesimo quattrocentesco che viene mutando, ne mutano anche gli accessi e muta insieme il biglietto di ingresso. Poesia e filosofia convergono verso forme nuove, ma anche lettere e scienze, mentre tecniche e arti cambiano metodi, confini e rapporti. Sul terreno propriamente filosofico tramontano le comode scansioni della logica hegeliana «de claritate in claritatem» per lasciare il passo almeno in Germania e in Italia, agli eredi di Kant non sordi a certe istanze valide del positivismo”115

Abbiamo riportato queste parole perché, oltre a fotografare molto bene il modo in cui egli affrontò questi argomenti, mettono anche in luce una maniera di accostarsi al dibattito sull’umanesimo che sottolinea l’importanza di discutere il problema non solo da un punto di vista teorico ma anche storico. È, per intenderci, la strada seguita da uomini come Raymond Klibansky, Ernst Cassirer, Paul Oscar Kristeller che, non a caso, sono stati gli interlocutori privilegiati di Garin.

La maniera in cui questi studiosi risposero alla crisi che la cultura europea stava attraversando è strettamente connessa alla convinzione che l’unico modo per permettere un autentico

rinnovamento di civiltà e ridare senso ad un dibattito che rischiava di perdersi in astratte discussioni era quello di ricollocare l’umanesimo nel suo proprio tempo. Ciò avrebbe comportato l’acquisizione di nuovi strumenti d’indagine in grado di mostrare la sua reale forza di penetrazione nella cultura europea e, di conseguenza, il potere che esso ebbe nel determinare il volto di quella modernità ora messa in discussione. Il rinnovamento dei criteri di indagine comportava, insomma, un nuovo modo di vedere la propria storia: “A una diversa metodologia filosofica corrispose lo sforzo per una nuova storiografia filosofica”. L’opera che recepì tali indicazioni fu L’umanesimo italiano di Garin. Se soffermarsi brevemente sui suoi contenuti ci permetterà di vedere concretizzate le considerazioni svolte poc’anzi, ricostruire le vicende che videro la sua comparsa sarà occasione per avvicinare il nostro discorso all’esame delle posizioni di Heidegger.

Prima, però, torniamo a riflettere sulle righe citate nella pagina precedente. Come si determinò questo nuovo approccio nei confronti dell’umanesimo? Perché Garin sottolinea l’importanza di disporre di nuovi metodi di lavoro? In che modo, cioè, il cambiamento sul piano metodologico determinò una discussione più feconda sull’umanesimo? Per rispondere a tali interrogativi occorre tener presente quanto detto alla fine del frammento, quando l’autore sottolinea il tramonto delle “comode scansioni della logica hegeliana”. La nuova immagine dell’umanesimo maturò, infatti, in stretta polemica con la tradizione idealistica allora imperante nella cultura filosofica italiana e con l’abbandono di quella che, altrove, Garin definisce “la tesi dell’unità”116. Tale nozione implica una

visione rigida e monolitica della filosofia concepita come un’eterno

processo che si dispiega nei singoli sistemi filosofici sorti nel corso della storia. Viene, in altri termini, presupposta un’unità a priori delle varie filosofie che determina l’intero sviluppo del pensiero quasi fosse una specie di essenza immutabile capace di garantire continuità e coerenza all’intera storia della filosofia. Una posizione, questa, che in Italia aveva fortemente influenzato non solo lo studio della filosofia in genere ma anche quella dei singoli pensatori là dove la tesi dell’unità implicava quella del singolo sistema:

“Nella sua prolusione palermitana del 1907, che pesò non poco sulla successiva storiografia italiana, il Gentile ebbe un’uscita molto curiosa, in cui stranamente trascrisse, fra l’altro, echi positivistici: sostenne egli la possibilità di un’estensione del metodo di Cuvier alla storia della filosofia: come «Cuvier da un osso ricostruiva idealmente l’animale», perché l’animale è un’unità, un’entelechia, così lo storico da un frammento può ricostruire l’intero sistema, da una questione speciale una visione totale. E siccome Gentile era, nonostante ogni suo modo retorico, coerente alla sua logica, da quel frammento ricostruiremo addirittura tutta la filosofia, non di quel filosofo o di quell’età, di

quella nazione, ma la Filosofia con la maiuscola, sic et simpliciter: anzi la

metafisica, perché la filosofia è metafisica («egli è che la filosofia non ha parti, […] la filosofia è organismo, unità che è tutta in ciascuna parte sua. E tale unità è essenzialmente metafisica»)”.117

Qui compare un elemento molto importante per le nostre riflessioni. La tesi dell’unità viene caratterizzata come una posizione metafisica, elemento questo che solleva le critiche di Garin:

“Ed infatti il risultato di tale storiografia [quella che si ispira alla tesi dell’unità] è stato, in genere, riduttivo ed eliminatorio di tutte le individuazioni concrete, in un’uniformità estremamente semplificata. L’unità del sistema («il sistema è un’unità…») è stata unità della filosofia, anzi

univocità della filosofia, e identità di essa nei tempi e nei paesi: e questa storicità una pseudostoricità indifferente al tempo, e quindi incurante dei concreti rapporti cronologici, così fra i pensatori, come fra i vari momenti e aspetti di un pensatore”118.

La tesi dell’unità, in conclusione, è

“del tutto inutile all’indagine storiografica, per la sua stessa genericità, laddove la storia avrà da cercare individuazioni precise e rapporti specifici: chi a quella tesi si tenga fedele, e al suo significato ‘metafisico’, vanificherà in partenza ogni ricerca storica”.119

Da queste citazioni risulta evidente che il tentativo di restituire al dibattito sull’umanesimo tutto il suo valore obbedì all’intenzione di recuperare l’autentico significato dell’indagine storica, nacque da un confronto sincero con il proprio passato realizzabile solo recuperando la dimensione temporale dell’agire umano e con essa l’adozione di una salda prospettiva storiografica come criterio irrinunciabile per ogni autentica comprensione. Perché, e questo è il punto, gli eventi che avevano caratterizzato la prima metà del XX secolo resero necessario abbandonare il carattere rassicurante di ogni filosofia della storia che intendeva spiegare l’agire umano affidandosi ad un’unità di fondo rintracciabile nella varietà dello sviluppo storico. Tale convinzione si era mostrata un’illusione incapace di guidare la ragione umana nello sforzo di comprendere il proprio tempo nel momento in cui eliminava proprio tutto ciò che vi era di temporale, molteplice e vario per dedicarsi, invece, all’esame di essenze disincarnate e senza storia. Per questo, lo studioso non doveva trarsi fuori dal flusso della storia cercando di imbrigliare il suo movimento

118 Ibid. 119 Ivi, p. 6

in una trama precostituita di idee perenni e di rapporti metatemporali di cui gli uomini e le loro vicende sarebbero inconsapevoli portatori ma volgersi all’esame di quelle testimonianze empiricamente accertabili, alla “ricerca di nessi, di legami, di rapporti, di unità concrete che connettono aspetti diversi della cultura e della società”120

. Un pensiero che intendeva riflettere sulle concrete condizioni storiche nelle quali maturarono esperienze e relazioni tangibili tra pensatori e attività umane non appariva più un additivo non consentito nell’improbabile tentativo di raggiungere una quanto mai equivoca philosophia perennis ma come uno sforzo per aprire nuove possibilità alla ragione umana: “Lo storico, mettendo in evidenza legami non apparenti, e l’appropriatezza o meno delle risposte; recando alla luce ciò che era nascosto; indicando, con l’esaurirsi di possibilità, possibilità non esaurite, non solo aiuterà a conquistare la memoria del passato ma gioverà ad orientare il futuro – davvero pensiero e azione”121. Parole, queste, che non possono non assumere

un particolare valore se pensate in riferimento alla crisi che l’Europa occidentale stava attraversando.

120 Ivi, p. 13. Poco più avanti, a pagina 15, si precisa: “Che un pensatore abbia letto un altro

pensatore, che abbia risposto a certe domande, che abbia fatto certe esperienze, che abbia avuto certi colloqui, che si sia mosso in una società, persona fra certe persone – ecco quello che lo storico deve accertare. Non esiste la Filosofia, davanti al cui tribunale chiamare ad

redde rationem le filosofie e i filosofi: esistono uomini che hanno cercato di rendersi criticamente conto in modo unitario della loro esperienza e del loro tempo. Questi uomini hanno avuto rapporti tra loro, hanno fatto letture, hanno escogitato strumenti, hanno usato altrui pensieri: il loro lavoro ha avuto una certa eco; certi lavori da loro ritrovati si sono diffusi in un certo ambito. Questi nessi lo storico trova: differenze e somiglianze, gruppi di uomini uniti in un lavoro, concordi in certi modi di intendere: problemi di rapporti concreti, di periodizzazioni e di continuità non presupposte ma accertate nell’effettivo colloquio degli uomini: ‘idee’ vincitrici ed ‘idee’ vinte, ‘idee’ che rinascono e che tramontano nel mobile corso del tempo, nel ritmo della vita dei gruppi, che ‘filosofando’ cercano di rendersi conto del corso del proprio lavoro e della sua funzione nel complesso di una civiltà. Onde il filosofare varia di continuo, e si rende conto di questo variare, e del ’come’ di questo variare: unità e alterità.”

Garin, in definitiva, contrappone una filosofia intesa come indagine storica ad una concepita come astratta metafisica, lì dove con tale termine ci si riferisce all'esigenza di una ingenua dominazione, all'interno di un quadro concettuale coerente ma totalmente avulso dal reale, di ciò che si presenta con il carattere dell'individualità, della particolarità o della contingenza. Quando nel 1945 Grassi propose a Garin la preparazione di uno scritto sulle vicende culturali italiane comprese tra la fine del Trecento e la fine del Cinquecento, questa era la convinzione di fondo che avrebbe guidato la stesura dell’opera. L’umanesimo italiano è, infatti, il risultato del nuovo modo di affrontare la storia della filosofia che l’autore aveva maturato alla luce di quel dibattito che investiva la cultura italiana ed europea nel Novecento. Nelle sue pagine due epoche diverse si incontrano, in esse ritrovano ragioni per un possibile confronto: l’interesse rivolto al periodo umanistico-rinascimentale si intreccia con la discussione filosofica del Novecento.

Cosa significa, infatti, che non è più possibile fare affidamento su quei concetti di “unità” e “continuità” che avevano a lungo dominato l’indagine storiografica122? In che misura viene messa in

discussione la riflessione su quella modernità che sembrava avviata al tramonto in seguito alle tragiche vicende che avevano segnato la

122 Garin si era confrontato in prima persona con la possibilità di realizzare una storia

generale della filosofia allorché, su proposta di Giovanni Gentile, iniziò a lavorare al progetto di una storia della filosofia italiana che portò a compimento negli anni successivi al secondo conflitto mondiale. È lo stesso Garin a sollevare perplessità sulla riuscita di tale impresa: “Caduto il comodo rifugio delle sorti necessariamente progressive, ossia di processo lineare omogeneo de claritate in claritatem, anche nel campo limitato della «filosofia italiana» unità e continuità si facevano spesso evanescenti, mentre diventava via via evidente l’opporunità di cercare la «filosofia» nella letteratura, nelle scienze della natura, nel diritto, nelle scienze morali. (…) Ne ebbi, insieme, confermata l’idea della fine di un «genere»: le «grandi» storie della filosofia a opera di un solo autore, legate all’idea di uno sviluppo «logico», di una conquista «progressiva» della «Verità», in cui il «particolare», a cominciare dalla vita e dalla personalità dei pensatori trattati, fino alle situazioni storiche concrete, alla «reale» circolazione delle idee, sono accidentali.”. Vedi: E. GARIN, Sulla dignità dell’uomo, op. cit., pp. 143-144

contemporaneità? L’atteggiamento antimetafisico di Garin lo portò a prendere le distanze e, a volte, a polemizzare energicamente nei confronti di quelle ricostruzioni storiche dell’umanesimo che mostravano un utilizzo troppo superficiale di quei criteri storiografici o che erano rimaste legate ad un’immagine della filosofia cara alle grandi sintesi metafisico-teologiche. Il riferimento, qui, è all’opera di Klibansky, di Cassirer e di Kristeller.

I primi due si adoperarono a screditare l’immagine stereotipata di un Medioevo dominato dalla filosofia aristotelica e di un Rinascimento sostanzialmente platonico, documentando, da un lato, insospettate influenze neoplatoniche nel Duecento e, dall’altro, sottolineando l’influsso di pensatori come Cusano nell’umanesimo fiorentino. Tali elementi di continuità se contribuirono a sfumare la sterile contrapposizione tra medioevo e rinascimento rischiarono, tuttavia, di nascondere la loro originalità e particolarità. Garin, tenendosi lontano da frettolose conclusioni, si dedicò, invece, ad una serie di indagini dettagliate su manoscritti e antiche biblioteche volte a far interagire sviluppi di lunga durata con concrete situazioni storiche. Il risultato fu che riuscì a dimostrare la presenza tra le due epoche di una ricca e complessa trama di riferimenti culturali difficilmente riconducibile a schemi esaustivi o a generiche caratterizzazioni epocali.

Più interessante è la polemica nei confronti di Kristeller dal momento che proprio con essa si venne precisando l’idea di umanesimo di Garin. Secondo lo studioso tedesco gli umanisti sarebbero stati retori di professione ma non filosofi: assolvendo nel loro tempo le mansioni che erano state proprie dei dictatores medievali non avrebbero sviluppato, però, nessun interesse per il

pensiero speculativo che si sarebbe, invece, conservato solo nelle università in cui veniva coltivata la tradizione aristotelica. Se il presente giudizio aveva il merito di inserire gli umanisti in un precisa collocazione sociale privava, però, le loro idee di ogni spessore filosofico. Questa valutazione fu respinta da Garin che osservò come l’opinione di Kristeller fosse il frutto di quella maniera di filosofare che proprio gli umanisti avversarono e in base alla quale si cercava di costruire un ordine perfetto in cui racchiudere e classificare ogni manifestazione del reale123. Con l’umanesimo italiano era invece nato

un movimento culturale che avrebbe prodotto un modo totalmente diverso di fare filosofia124.

Una tale conclusione poteva essere raggiunta solo se si abbandonava la prospettiva metafisica che ricercava definizioni che comprendessero tutto, solo se si evitava di congelare il dinamismo e il cambiamento in idee assolute frutto più di tendenze classificatorie e destoricizzanti che di reali esigenze di comprensione. Era invece necessario cogliere il profondo legame che univa l’attività filologica a quella che agli albori della modernità si profilava come una vera e propria rivoluzione del sapere. L’impegno degli umanisti in discipline come la grammatica e la retorica, lungi dal negare un interesse per il pensiero filosofico, confermava, al contrario, una maniera completamente diversa di praticare la filosofia. La discussione sull’antico permetteva di trarsi fuori dalla storia e di

123 E. GARIN, L’umanesimo italiano, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 10

124 E. GARIN, Sulla dignità dell’uomo, op. cit., p. 175-176: “L’umanesimo, gli studia

humanitatis, non erano solamente, come continuavano a ripetere i dottissimi ‘grammatici’, studi linguistico-retorici, né, come volevano i cosiddetti storici letterari, edificavano solo momenti di bello stile. Il greco e il latino dei classici, ma anche l’ebraico e l’aramaico, erano strumenti per affacciarsi ad una altro modo di intendere la cultura e la sua funzione, la ragione scientifica nei suoi rapporti con la vita associata. L’umanesimo era una grande rivoluzione in atto, e proprio per questo destinata a una grande sfida epocale sul terreno politico con le grandi strutture religiose, a cominciare dalla Chiesa di Roma.”

vedere la distanza del proprio tempo dal tempo passato, offriva l’opportunità di vedere idee e comportamenti come appartenenti a una precisa epoca storica e, di conseguenza, considerare la storia come frutto della creazione umana. Il risultato di tutto ciò fu che l’uomo, in quanto creatore della propria storia, poteva usare la conoscenza del passato per conoscere meglio il presente e costruire il futuro. Fu, insomma, la conquista del senso della storicità il fatto veramente nuovo dell’umanesimo, l’elemento che avrebbe cambiato definitivamente le sorti dell’umanità europea nel momento in cui la rendeva libera dalla sudditanza nei confronti del proprio passato e pronta a progettarsi autonomamente. La riscoperta degli autori classici, i tentativi di restituire i testi alla loro forma originaria producevano idee filosofiche nella misura in cui toglievano loro la funzione di testimoni eterni di un’eterna Verità per ritrovarvi opere sorte in momenti particolari in risposta a determinate circostanze:

“(…) la consapevolezza per il cosiddetto ritorno degli antichi non si riduceva per nulla a un fatto letterario, retorico, linguistico, pur rimanendo di grande rilievo il fatto formale, ma era un modo di far filosofia, era la filosofia che cambiava. Un tipo di filosofia era entrato in crisi e ne era nato un altro che spesso cambiava anche dimora, modi di esprimersi, forme letterarie, strumentini diffusione. Scrivono cose che incidono a fondo sul divenire della filosofia poeti e narratori elegantissimi, architetti e ingegneri, medici e giuristi, scienziati e uomini politici. Si riuniscono e lavorano nelle ‘accademie’ e nelle corti. Affidano i loro pensieri non solo a dialoghi e poemi, ma a novelle e magari a romanzi; li diffondono in forme letterarie di ogni genere. Con l’umanesimo italiano, se questo era davvero l’umanesimo italiano, probabilmente era nato un altro modo di fare filosofia. Che non era certo

quello di Heidegger, anche se per Heidegger era ben chiaro che la scelta del piano storico della ricerca era una scelta teorica.”125